Virginia Farina e Pina Piccolo, conversazione su Oltremare

Virginia Farina e Pina Piccolo, conversazione su Oltremare

       

 

Con una dedica alle “radici” – elemento terrestre e terroso – si aprono le pagine e le parole dell’opera prima “Oltremare” di Virginia Farina, vincitrice della prima edizione del concorso poetico indetto da Versante ripidoe di prossima pubblicazione per la collana omonima.
Esistono traiettorie d’acqua o di terra apparentemente molto lontane nella propria sostanza elementare, eppure – invece – tanto corrispondenti per la propria capacità di condurre, portare, permettere i transiti.
Qui di seguito siamo felici di proporre la conversazione fra l’autrice, la poetessa Virginia Farina, e Pina Piccolo, che tanto ha saputo accogliere la scoperta delle parole e delle immagini contenute in queste profonde – come radici – tonalità di blu marino. (Silvia Secco)

 

 

P.P.: La tua dedica A mia madre e mio padre Radici oltremare./  A Maia e Simone Radici in questa riva / offre un presagio di quella che sarà la struttura della raccolta, con le sue quattro sezioni che delimitano quattro tempi, quattro movimenti. Nelle prime sezioni del libro, partendo da un discorso che esplora che cosa significa essere padri e madri e figli, ti concentri sull’importanza del nome e dell’identità, elabori molte metafore connesse alla terra, ai semi, alle piante, al suolo.Lo sfondo della tua poesia è terrestre più che marino.  La tua poesia si concentra sulla generazione, ci sono immagini di parto e di ripetizioni, che elabori a livello poetico con anafore, ritornelli, filastrocche. A questo punto, il tono, anche quando evoca operazioni un po’ cruentecome possono essere l’innesto, il parto, l’invecchiamento, possiede una certa pacatezza, quasi l’osservazione scientifica di fatti materiali. Poi scatta l’osservazione che il seme sei tu e ti spetta il peso del futuro, il compito di andare all’altra riva. (presagio del titolo della parte conclusiva dell’opera che si intitola infatti “L’Altra riva”) È vero che a questo punto, con il peso della responsabilità personale assistiamo anche a uno spostamento di tono che diventa quasi piùepico, l’io assume una preponderanza maggiore rispetto al distacco dell’osservazione? Nel contesto di certe poetiche contemporanee che predicano l’annullamento della soggettività del poeta, come vedi questo tuo lato epico legato alla responsabilità umana?

V.F.: Questo passaggio della raccolta è stato per me un passaggio naturale, di cui solo dopo mi sono interrogata. La mia sensibilità verso il tema della migrazione nasce dal mio essere a mia volta nata dall’altra parte del mare e dal sentire la mia esistenza radicata su due rive. E sebbene queste due rive appartengano a una stessa nazione hanno storie, culture differenti che non possono non incontrarsi e scontrarsi in me. Credo, quindi, che sia la mia condizione di migrante, la mia condizione di fragilità e al tempo stesso di forza a permettermi di riconoscermi nell’altro, a farmi domandare della sua storia, a volte così smisurata.  E posso scriverne perché mi riguarda, perché in qualche modo posso arrivare a riconoscere la mia prossimità con l’altro, il nostro essere implicati insieme in una storia che ci coinvolge tutti.
Non credo nell’annullamento della soggettività, nel suo rinnegamento. Non posso essere cosciente della realtà, dell’altro, se non sono cosciente di me, del mio corpo, della mia posizione. Molte vie ci hanno mostrato l’impossibilità di una visione definitivamente oggettiva, dalla fisica quantistica al pensiero femminista che ha fatto della soggettività corpo politico. Sono convinta che sia l’attraversamento della soggettività a permetterci di far fiorire davvero la nostra coscienza fino ad arrivare a qualcosa di più profondo del nostro senso di noi stessi, perché è la comprensione del nostro limite, del nostro stesso funzionamento, a mostrarci, in modo lampante, che non è possibile alcun io senza un tu. Neppure in poesia.

     

P.P.: A cominciare dalla sezione VIAGGIO diventa più esplicito il fatto che le tue considerazioni sui cicli della vita andranno ad essere legate a quanto avviene con il ‘fenomeno’ migrazione. In primo momento lo allacci a una condizione umana universale, p. 33 noi stiamo insieme/ sul ciglio di galassie /lanciate all’infinito/, con il suo sapore di citazione di Quasimodo elaborata in una cosmogonia più dinamica, tutta tua. Poi subentra un certo senso di sconcerto, irrequietezza è una finzione la nostra pretesa / in traversata, l’aver per certo / il corso dell’andare come il porto /. E ritorna l’importanza del nome, delle parole degli altri, che pur non sapendole ci provo a pronunciare (/ ora quel che no so / come esercizio d’amore / come un esserci, umano /.  Quindi, preso atto dei propri limiti, come essere umano ti prefiggi una responsabilità. Questa sezione intermedia sembra gettare le basi per quella che sarà la sezione che dà il nome al libro, OLTREMARE che sembra appunto una tua ricerca di andare OLTRE. La parola poetica in un certo senso va “Oltre la parola utilizzata in chiave prosaica: tu che eserciti anche altre forme artistiche improntate al visuale che forse sono il tentativo di andare oltre il segno e il colore, potresti dirci se trovi delle analogie e delle differenze nei due mezzi, e che impatto hanno avuto in questa tua raccolta? Ti hanno aiutato ad andare “oltre”?

V.F.: Ho studiato Storia dell’Arte, ma il mio percorso come artista si è sviluppato soprattutto attraverso la fotografia: una maestra per me davvero eccezionale perché mi ha insegnato a guardare fino a riuscire a vedere.
Si può fotografare in modo distratto e non vedere realmente cosa abbiamo di fronte, oppure si può usare quella lente per soffermarsi e cogliere quei dettagli che non avremmo altrimenti visto, quelle luci, quelle forme della vita che scorre e che subito diventano altro.
C’è una dimensione di indicibilità della vita che le arti visive a volte colgono in modo meraviglioso. E per me, in qualche modo, la parola nasce lì, dal confronto con l’esperienza che è in primo luogo nel corpo, nella vita, nello sguardo. Per questo per me l’arte, la poesia, non può non avere in sé una dimensione di silenzio, di contemplazione. È da lì che poi la parola fiorisce, e ha il sapore di qualcosa di vero, perché sentito, perché vissuto, perché se anche parziale e provvisorio è il tentativo di una visione.

 

P.P.: OLTREMARE. Secondo me è interessante che tu abbia scelto questo vocabolo, nel senso che la prima accezione che potrebbe venire in mente è quella coloniale “le province d’oltremare”, ma potrebbe richiamare “l’oltretomba” la destinazione di un altro grande viaggio poetico alla base della letteratura italiana, rivisitata in chiave cristiana. È in qualche modo legata a un desiderio di andare ‘oltre’ le zone di esperienza umana, ciclica che avevi esplorato nelle prime sezioni? Qui le immagini per esempio del parto, in Idomeni, acquistano una connotazione più cruenta (mi ricordano un po’ il racconto Freedom che hai pubblicato in Versante Ripido). Le tue anafore adesso più che filastrocche o ritornelli in questa sezione assumono un ritmo e una qualità elegiaca, quasi di preghiera. Sembri richiamare anche dei passi biblici o del nuovo testamento, “Figlio, figlio” però li associ in maniera molto efficace alla contemporaneità, anche ad episodi di morte migratoria nel Mediterraneo che il lettore probabilmente conosce (ad esempio, la storia del ragazzino del Mali trovato annegato con la pagella cucita nella giacca). Mi piace che cerchi di riscostruire quella che poteva essere la loro esperienza di vita precedente (il ragazzino che studia) non ti rassegni a ‘congelare’ una vita nel suo epilogo.  Lo stesso in danzano. Secondo te, vedo giusto dicendo che in questa sezione si percepisce un miscelarsi continuo e una tensione costante tra l’aspetto epico e l’aspetto lirico della tua poesia?

V.F.: Per me queste due dimensioni sono qui inscindibili, profondamente connesse nel momento in cui la mia esperienza umana non può esistere pienamente separata da ciò che sta accadendo all’altro. E spero qui di non sembrarti retorica, né presuntuosa. Possiamo anestetizzarci e convincerci che l’altro sia solo un usurpatore, un pericolo, una minaccia. Ma quando lo conosciamo, quando lo guardiamo negli occhi, non possiamo non rivedere in lui qualcosa di noi. Qualcosa di quella vita che mescola continuamente le carte, il piccolo e il grande, i dettagli con il senso di una storia più grande.
I confini, come le definizioni, sono utili, ci permettono di orientarci, di categorizzare, ma credo che quando proviamo a relazionarci con la vita, con l’esperienza che ciascuno di noi può farne, ci rendiamo conto che sono molto più sottili e provvisori di quanto avessimo immaginato.

     

P.P.: L’ALTRA RIVA, mi piace che introduci l’idea del Bordone, inteso sia nell’accezione musicale che in quella peschereccia. In quest’ultima parte mi interessa che sembri fare tutto un lavoro sul lessico, prendi le parole che compongono l’intelaiatura linguistica del fenomeno migrazione e le decostruisci e ricomponi. Mi piace molto il verso in Muro”, / prima del muro furono seminate le parole, una / cortina interna tra lo sguardo e la paura / e poi la ricostruzione della sequenza di schieramento di congegni di controllo.  Quasi  come un antidoto a queste brutture, poi arrivi con “Mondo Nuovo”  in cui giochi d’ironia sui fenomeni della modernità e di  queste città immaginarie nella fantasia e nella realtà dei migranti e di chi è stanziale, e mi piace anche il tuo richiamo all’Inferno di Dante “Entrate, voi che ne avete il fiato / Qui, dove il respiro / E’ liquidità sonante / in cui operi una fusione tra  la poesia delle origini e Bauman, con un linguaggio che a livello lessicale spesso richiama  la Divina Commedia posizionata però in un contesto attuale. Nel fare questa operazione hai avuto paura di trasgredire, di appropriarti ‘indebitamente’ di materiali, locuzioni di altri (diciamolo pure le vacche sacre della poesia e della sociologia),oppure ti sei sentita autorizzata ad utilizzarli in qualità di poeta contemporanea come materia per un nuovo impasto, dettato dalle urgenze dell’oggi?  Ti è stato difficile elaborare una tua visione originale avendo alle spalle questi modelli imponenti?

V.F.: Il momento in cui scrivo è un momento per me molto denso in cui le parole non si compongono attraverso una voce calcolata, costruita da richiami eruditi. Si tratta per me piuttosto di un’elaborazione, come una ruminazione delle altre voci, alcune riconoscibili, altre magari meno, che mi hanno accompagnato attraverso la lettura. Mi è assolutamente impossibile scrivere se non leggo, e i periodi della mia vita in cui la scrittura si affievolisce sono proprio quelli in cui per mille ragioni non posso leggere quanto vorrei. Per questo anche se praticata in solitudine per me la poesia è sempre un dialogo. Mondo nuovo, ad esempio, è nata durante un soggiorno a New York nel quale ho letto e riletto Ginzberg e Corso, ed è stato l’innescarsi delle loro parole nella mia esperienza che mi ha permesso di scrivere quel testo, che in quel momento mi sembrava come una risposta possibile alla visione che loro avevano descritto.  Poi sì, mi sento davvero piccola, ma è anche questo sapermi piccina a farmi aver voglia di parlare con i grandi e, a volte, a farmi arrampicare sulle loro spalle per provare a vedere oltre.

       

P.P.: Nell’ultima sezione riprendi poi la preghiera, rivisitata stavolta in versione cripto-Beat “Benedetti i portoricani”; mi piace perché alleggerisci prima della stoccata finale della Memoria (che, per me, contiene molti echi di Montale). Dal mio punto di vista di lettrice, la poesia “Memoria “potrebbe chiudere la raccolta (bellissima la strofa che inizia con Chiedo per me memoria bruciante come ferita…  e traccia d’una vita immensa / che tutti incolore ci traversa”, le poesie che seguono mi sembrano un po’ un’esigenza tua di scrittrice, spinta dallo spirito razionale di dare una conclusione alla raccolta, ma in verità penso che la sua fine naturale sia “Memoria”. Come poeta ti sei mai sentita divisa tra un’esigenza, una necessità che sembra derivare dalla materia stessa e il tuo sdoppiamento di autrice che ha una certa responsabilità verso chi legge e di ‘dominio’ sulla materia che impasta? Che peso pensi abbiamo l’inconscio e il conscio nella creazione poetica? Come risolvi eventuali tensioni tra le due componenti?

V.F.: Credo che tu abbia ragione nella naturale conclusione della raccolta. Le “Meditazioni sulla paura” sono un testo nato in modo differente, in un altro periodo e con altra intenzione rispetto al resto della raccolta. In quel momento mi interrogavo sulla paura di chi sta da questa parte del mare, su questo continuo bisogno di stabilire limiti, convenzioni, confini, tra noi e gli altri. In quei versi, in qualche modo, ho tentato di comprendere anche la fragilità che sta nello spavento che allontana, che alimenta la minaccia, esasperandola. Tentando di riportarla a qualcosa di umano e meno mostruoso.
Cogli un elemento molto importante quando ti soffermi sulla materia che la poesia impasta, una materia che è la realtà, ma una realtà espressa nella nostra mente e nel suo specifico modo di essere, di funzionare. Certamente in essa vi è una tensione, ma non necessariamente questa deve sfociare in una forma di “dominio” della forma su ciò che è informe. Mi piace pensare la realtà in modo più fluido e interdipendente. Sento, così, che seppur piccola la voce della mia poesia è radicata nel silenzio, ed è proprio nell’indicibilità che poco a poco si fa parola.
Frequentare il silenzio, per me, significa attingere a quel serbatoio profondo di immagini e parole che compongono la nostra stessa storia di animali culturali. Perché il nostro inconscio è fondamentalmente collettivo, anche quando ci sembra annodato e chiuso intorno alla nostra piccola storia. È l’eredità che tutti, in un modo o nell’altro, ci portiamo dentro.
Credo che la nostra coscienza abbia un immenso potenziale potendo attingere dal passato e al tempo stesso essere visione del presente. La memoria ci consente di trasmettere le esperienze di ciascuna generazione, eppure ci è dato anche rivivere quell’esperienza, comprenderne il significato di “prima mano”, in modo diretto. Posso leggere libri e libri sull’amore, sul bacio, o sulla morte, e farmi un’idea della cosa, ma solo quando io mi ritroverò nella condizione di amare, o baciare, o accompagnare la morte potrò sentire e sapere di quella cosa.
Le tensioni tra memoria e presenza sono, per questo, a mio avviso, vitali. Ci permettono di non chiuderci in un labirinto di parole e di mondi già descritti e dati come definitivi, e al tempo stesso ci consentono di indagare la nostra esperienza, di domandarla alla luce di ciò che il dialogo con gli altri può illuminare. In questa tensione c’è, a mio avviso, un’ansa, un margine, un piccolo preziosissimo spiraglio che ci fa liberi, in cui possiamo sorprenderci essere prima e attraverso ogni parola.

     

Virginia Farina. Nata a Oristano nel 1978, si è laureata in Storia dell’Arte e specializzata in Didattica dell’Arte. Per anni ha sviluppato un percorso artistico e professionale come fotografa e atelierista di percorsi artistico-creativi per adulti e bambini. Nel 2009 ha vinto il Premio Iceberg Giovani Artisti del Comune di Bologna e ha esposto in più di trenta mostre in Italia e all’Estero, valorizzando l’aspetto simbolico e sociale del linguaggio fotografico. La poesia e la scrittura, coltivate in parallelo e condivise attraverso pubblicazioni in numerose antologie e diversi reading (in Italia anche con l’accompagnamento del gruppo musicale Espresso Notte e a New York), rimane però la sua vocazione più intima e profonda. Ha ricevuto alcuni riconoscimenti come segnalazioni e premi tra i cui ultimi, sono stati: Premio Lingua Madre a Torino, Premio Giorgi e Premio Versante Ripido.

Pina Piccolo è traduttrice, scrittrice, attivista culturale e coordinatrice della rivista di letterature e culture dal mondo La Macchina Sognante. Dirige la rivista in lingua inglese The Dreaming Machine.  Suoi saggi e scritture creative sono stati inseriti in antologie, collettanee e riviste di letteratura e accademiche sia di lingua italiana che inglese. Ha pubblicato la raccolta di poesia I canti dell’Interregno (Lebeg 2018) e a ottobre 2019, sempre per Lebeg edizioni, è uscita la sua traduzione italiana del romanzo “Scomparso- La misteriosa sparizione di Mustafa Ouda.

 

 

Virginia Farina – in apertura opera di Ksenja Laginja

 

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