7 POETI DEL CENTRO: ENRICO MELONI (LAZIO), con introduzione a cura di Manuel Cohen.
La variegata scelta di versi in romanesco di Enrico Meloni rinviano inevitabilmente a un retaggio di tradizione (Belli, Trilussa e più marcatamente Pascarella) spesso confusa con il bozzetto e il lazzo di una certa vulgata o ‘romanità’: nel migliore degli esiti, in Meloni dà luogo a considerazioni alte e prospettiche sul senso dell’esistenza, come nelle due quartine qui proposte, e, ad esempio, in Quartina n. 21: «Sotto la cupola del vero / Siamo come pedine sulla scacchiera della vita / Quando sarà finita la partita / A uno a uno finiremo nel cassetto del nulla.». Questo giovanissimo autore, che da un lato sembra ammiccare a modalità di tradizione e ripercorrerne un particolare humus, anche di tipicità o maniera: quella attraverso cui, anche con qualche riserva, si legge la messe dialettale della Capitale, e tuttavia si propone con tratti marcati di freschezza sorgiva e di rinnovamento linguistico. Intanto la sua scrittura affonda anche in una parlata gergale, un vero e proprio slang giovanile, riproducendo tipiche espressioni di questo contesto, come, ad esempio, e già nell’enunciato di Se fa na certa, Si fa tardi. Il procedimento, dai marcati tratti mimetici rilevabile anche nell’inglobamento di allotrie nel romanesco meticcio (smoggose per smog, fiscion per fiction), si rivela congruo a testimoniare sia un particolare sentire generazionale (la fine dell’infanzia e anche la fine dei sogni; il presente affollato di nubi e un futuro prossimo denso di incognite), sia una particolare e attenta denuncia socio-politica, un vero e proprio disagio, sia esso civile o incivile, ma sicuramente socio-economico: «Notte caimana di inciuci e baruffe / di caste truccate mai sazie / ragazzi-libro inondando le piazze / venturo auspicio di rinascenza / Noi la crisi non la paghiamo!» (A scroccasole, Senza ombre). Sia, ancora, mimando il parlato e i dialoghi in ritmi cantabili affidati a ricerche di sonorità e a catene allitterative non prive di perizia: «Nonno!» «Ninetto!» / per tetti ninnare» (in: Pe ttetti ninnà, Per tetti ninnare). Gli esiti di Meloni smontano molti luoghi comuni che circolano intorno alla scrittura in romanesco, e ne rivitalizzano la sua natura più autentica, icastica e demistificatoria. M.C.
Enrico Meloni è nato e vive a Roma, dove si è laureato in Storia Moderna presso la Facoltà di Lettere dell’università “La Sapienza” di Roma e ha recentemente conseguito il Dottorato di Ricerca in Italianistica con la tesi dal titolo “Del nostro caos e della solitudine: la memoria letteraria dell’internamento dei militari italiani nei lager nazisti”. Presso lo stesso l’Ateneo, si è laureato in Documentazione alla Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari ed ha lavorato nel settore delle biblioteche. Da diversi anni insegna Italiano e Storia presso le scuole secondarie statali. Ha scritto e pubblicato poesie anche in dialetto romanesco su varie riviste e in volume: Arca allo sbando? (Prospettiva, Civitavecchia 2004); il poemetto Er davenì (Progetto Cultura, Roma 2007); i romanzi: TrePadri (Di Salvo, Roma 2002) e Quando gli squali mangiano vento (Progetto Cultura, Roma 2012); saggi sia storici che letterari, tra i quali si menziona il contributo ad una ricerca finanziata dall’università La Sapienza “Littera allu dimuonu: versi dialettali calabresi al tempo della crisi postunitaria” (2014). Ha partecipato ad alcuni convegni e a numerosi reading poetici. Prossimamente è prevista la pubblicazione in volume della tesi di dottorato opportunamente rielaborata, di un saggio sulla rivista Archivio Trentino, della relazione presentata ad un convegno su Giorgio Chiesura tenutosi presso l’università di Padova (2014) e di una raccolta di poesie da cui sono tratti i testi per Versanteripido.
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Dalla raccolta inedita: Fratelli mia
Se fa na certa
Se fa na certa, fella, nun lassamo
sgattajolà via er tempo ne le storte
che ste vitacce ’nchiodeno smoggose
appennolone ner vero da fiscion.
Appetto a mme ce so ggiornate ciche
mica ppiù oceani deis de fanellezza
che mmai dall’arba nun vedemio notte.
A prescia, dichi, sgrava li cecati
ma er daje a rimannà stira le zzampe.
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Si fa tardi – Si fa tardi, fratello, non lasciamo / sgattaiolare il tempo nelle vie tortuose / che inchiodano queste vitacce di smog / sospese nella realtà da fiction. / Davanti a me vedo giorni fuggevoli / non più le giornate oceaniche dell’infanzia / quando dall’alba non veniva mai notte. / La gatta frettolosa, dici, genera figli ciechi / ma il continuo rinviare tira le cuoia senza compimento.
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Pe ttetti ninnà
Ottobre 2009
«Nonno!» «Niné!»
pe ttetti ninnà
ciuccialatte de mamma
Tempo te dai de prescia
cecato a ritornà
t’accosti ar mare pe schiumà parole
ponentino de rena in cresta all’onne
e moscaceca, bbije, bijjardini
na macina de sòle inzino a cche
nun te scaracchia l’ora d’escì fora
e ccaciare de bbaci
libberati a bbuggerà
n’acquaticcio de ggioje
e nner pischello ggià trittica er boccio.
«Nonno!» «Niné!»
pe ttetti ninnà
ciuccialatte de mamma.
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Per tetti ninnare – «Nonno!» «Ninetto!» / per tetti ninnare / ciuccia latte di mamma // Tempo fuggi in fretta / cieco a tornare / ti accosti al mare per schiumare parole / ponentino di sabbia in cresta alle onde // e moscacieca, biglie, bigliardini / un vortice di fregature fino a che / non ti scaracchia l’ora di uscire fuori / baraonde di baci / liberati agli amplessi / gioie annacquate / e nel ragazzo già traballa il vecchio. // «Nonno!» «Ninetto!» / per tetti ninnare / ciuccia latte di mamma.
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A scroccasole
A scroccasole vojo sta leggero
e svaporà de bbrume a pprimasera.
Ma sta notte d’Itaja me s’accora
che smorza puro er zole caccianuvole
ne li tiggì no strazzio de strappone
e na maestà marpiona che smiracola
fora lavoratori a ppezzi in piazza
Marchionfuttuto er fonno dei puzzoni!
No: maggico patron de li mercati!
Steccamolo sto samba de sparambi!
Sottopagati der sapé pe ttetti
stormi de coccoccò neri da sbrocco
e l’immigranti ’n goppa a li tralicci.
Hasta la vista, professò, t’abbasta?
Scole cascheno a scaje scassabbanchi
aule aulenti sgarrupate a ttocchi
strabbocheno de taji scassacazzi
e dde ’nfornate de bburocaccrocchi.
Notte caimana de le rattatuje
de caste taroccate mai satolle
regazzi-libbro inondeno le piazze
venturo principià de Rinascenza
Cor ciufolo a crisi la steccamo!
Accanna i gheim! abbasta le bbuatte!
O vedi che vve tocca a vvotà Ggirdo!?
Sò risucchiati ner zilenzio e bbusse
luce der davenì che sse sconquassa.
A scroccasole vojo sentì er mare
smiccià nell’ale libbero er penziero.
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Senza ombre – Senza ombre voglio essere leggero / e al crepuscolo svaporare di brume. // Ma questa notte d’Italia mi assilla / spegne anche il sole che rimuove le nubi / nei tg un tormentone di donnine facili / e una maestà marpiona che miracoleggia / fuori lavoratori a pezzi in piazza / Malnato Marchionne, il peggiore dei puzzoni! / No: eccezionale patron dei mercati! / Condividiamolo questo samba di tagli! / Sottopagati del sapere sui tetti / stormi di precari sul punto di perdere la testa / e gli immigranti protestano sulle gru. // Hasta la vista, professore, ti basta? / Scuole cadono in frantumi banchi sbilenchi / aule aulenti fatiscenti a pezzi / traboccano di tagli inopportuni / e ammassi di incombenze burocratiche rabberciate. // Notte caimana di inciuci e baruffe / di caste truccate mai sazie / ragazzi-libro inondando le piazze / venturo auspicio di rinascenza / Noi la crisi non la paghiamo! / Rinuncia ai tuoi piani! Basta con le fandonie! / Vedete cosa vi tocca a votare Gildo!? / Sono risucchiati nel silenzio e busse / luce dell’avvenire che si dissolve. // Senza ombre voglio sentire il mare / cogliere nelle ali libero il pensiero.
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Fratelli mia
(A bbanalità der male e der bene)
Fratelli mia, se danno le parole
stille d’aria nun ze ponno acchiappà
raspa la gola secca, e ttanto dole
che ste voce se viengheno a asciuttà.
Chi cce misura er bene appetto ar male?
Cqua la canaja cor quacquaracquà
s’ammisticò ar più lliggio scritturale
che commanni, eseguisce e… mmappalà!
S’aribbartò er valore: bbona ggente
perzeguitata pe ll’infamità.
Ma ssi un cantón dell’omo è st’accidente
a ppenzacce fenischi a scapoccià:
momoria sì, ma llibberamo er fele
ner nome de scialomme e dd’amistà.
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⃰Il sottotitolo richiama i titoli di due libri che hanno avuto una certa risonanza: La banalità del male di Anna Arendt e La banalità del bene di Enrico Deaglio, volume nel quale è ricordato l’impegno di Giorgio Perlasca nel salvare la vita di migliaia di ebrei ungheresi. Ho usato tre termini del giudaico romanesco: mappalà = rovina, caduta, accidente; scialomme = pace; amistà = amicizia.
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Fratelli miei (La banalità del male e del bene) – Fratelli miei, fuggono le parole / stille d’aria non si possono afferrare / si irrita la gola secca, e tanto dolorosa è la questione / che le voci della memoria finiscono per asciugarsi. // Chi ci dà la misura del bene rispetto al male? / Nel nostro caso la canaglia con il delatore / si confusero al più ligio burocrate / che comandi, esegue e… maledizione! // Si rovesciarono i valori: gente onesta / perseguitata con accuse infamanti. // Ma se un angolo dell’uomo è una simile calamità / a pensarci finisci col perdere la testa: / sì alla memoria ma liberiamoci dell’amarezza / nel nome della pace e dell’amicizia.
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Quartina n. 12
A core, penza d’avecce tutte ’e cose der monno,
Penza che tutto pe tte cce sta’n giardino verde de ogni cuccagna,
E tte su quer prato verde penza d’esse ’a guazza
Gocciata llà ssopra de notte, che a lo spuntà der zole se n’è ita.
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O cuore, fa’ conto di avere tutte le cose del mondo, / Fa’ conto che tutto ti sia giardino delizioso di verde, / E tu su quell’erba verde fa’ conto d’essere rugiada / Gocciata colà nella notte, e al sorger dell’alba svanita.
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Quartina n. 21
Sotto ar cuppolone de ’a Verità
Stamo come ppedine su la scacchiera de ’a vita
Quanno che er ggiocà ffenisce
Uno pe vvorta anneremo ner tiretto der gnente.
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Sotto la cupola del vero / Siamo come pedine sulla scacchiera della vita / Quando sarà finita la partita / A uno a uno finiremo nel cassetto del nulla.
