7 POETI DEL NORD: LAURA TURCI (ROMAGNA), con introduzione a cura di Manuel Cohen.
Laura Turci scrive nel dialetto parlato nella località di Meldola, nella provincia di Forlì-Cesena. Ha pubblicato un unico libro di poesia, Al carvaj, nel 2006, poi ristampato nel 2013. I versi qui proposti sono inediti. La sua poesia è eminentemente lirica, e questo dato, la rende, di fatto, un po’ speciale nel panorama della giovanissima poesia italiana. La sua scrittura colpisce il lettore per l’intensità, per l’umanità, per le immagini, siano esse di natura, siano pure di pensiero e di ragionamento sull’esistenza. Nel 1976 esordiva una delle massime voci della poesia dell’ultimo quarantennio: Giampiero Neri, con il libro L’aspetto occidentale del vestito, dove una domanda insistente, e quasi un monito, colpiva il lettore come un boomerang o un mite e inatteso ceffone: «Mi darete un mondo speciale?». Laura Turci, ripropone la domanda, e la richiesta si adegua al presente, verrebbe da dire, alla tragica depressione non solo economica oggidiana che porta alla ribalta i bisogni primari: «datemi da bere / datemi da mangiare» (in: Mèrz, Marzo). Siamo al cospetto di una autrice che incarna a pieno titolo tanta ansia, tanto dolore presente, e ne rappresenta, anche nelle valenze di visione, una vera e propria Stimmung: come quella «bellezza lasciata nei fossi» di cui ci riferiva in Sabat, uno dei testi più acuminati del suo primo libro. La sua scrittura allora, sommessamente, con il riserbo che le è connaturato, rivendica l’urgenza della fame, della sete, della bellezza. Tradisce con pudore tutto lo sconcerto, il dolore, la marginalità degli esseri viventi e della natura, così partecipe, e così umanizzata: «Anche gli alberi / si storpiano apposta / per mangiare più sole» (La nèbia, La nebbia), o nella bella immagine dell’upupa che sorvola il fiume, in uno dei testi più intensi, al alto tasso di figuralità, in cui si affronta la perdita e il distacco (I murt, I morti). Ma la natura lirica, l’introflessione, non impedisce mai uno sguardo sinottico e partecipe dei destini degli altri; anzi, se ne fa partecipe e testimone, come in Nuvèmbar , dove le figure di badanti esposte all’aria nei giardini comunali sono accolte dalla similitudine ‘ariosa’ e così densa di umanità, degli uccelli sui fili della luce. M.C.
Laura Turci è nata e vive a Meldola (FC), nel 1971. Suoi versi sono ospitati sulle riviste: «Confini», accompagnata da una nota di A. Brigliadori; «La Ludla»; «Tratti»; e nell’antologia Poets from Romagna (cura di G. Bellosi, traduzioni in inglese di A. Bianchi, J. Fortune e S. Silviero, Cinnamon Press, Blenaug Fflestiniog -U.K.- 2013). Ha esordito con la raccolta Al carvaj (Il Ponte Vecchio, Cesena 2006; ed. acc. ivi, 2013). I primi quattro testi sono inediti e fanno parte della nuova raccolta che uscirà prossimamente.
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Febrèr.
L’ è invéran.
Sa vut cmandè a st’èlbur insticlì.
T’é fâm?
U-t’ avréb da dè
chi du zarmoj d’un ètar culor,
dulz cum’ i bis d’un babin,
ch’i scapa fura
da i râm gris?
L’ è invéran.
Nânca i babin i-l sa
ch’u bsogna stè d’ astè,
i babin ch’i magna
dal radisi e da e’ sol.
Mo se l’ invéran
u va trop dalongh
u j arvénza la fâm
e quant i crès,
dal völti,
i-s scorda du ch’u d’vên che pân
E i-t’e cmanda a te
nânca s’l’è invéran,
e, dal völti,
j a e’ curàg
ad ciamèl amor.
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FEBBRAIO – E’ inverno. / Cosa vuoi chiedere a quest’albero stecchito. / Hai fame? / Dovrebbe darti / quei due germogli di un altro colore, / dolci come i baci di un bambino, / che escono fuori dai rami grigi? // E’ inverno. /Anche i bambini lo sanno / che bisogna aspettare, / i bambini che mangiano / dalle radici e dal sole. // Ma se l’inverno / dura troppo a lungo / gli resta la fame / e quando crescono, / a volte, / dimenticano da dove viene quel pane / e lo chiedono a te, / anche se è inverno, / e, a volte, / hanno il coraggio / di chiamarlo amore.
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Mèrz.
Tot u nas znìn,
u l’ dis nânca i cinìs.
E’ tej a e’ prinzìpi
l’è sol un profóm,
la neva ch’la ciutarà
tot al robi
l’è un tarmôn dl’aqua,
l’aqua l’è la voja de zil
dl’umor dla tëra,
una cà l’è un svuit ad èria
pin ad lus, la lus
l’è la fâma d’ j élbur,
l’amor l’è la ludla
d’ un sas contra un sas,
e mè,
sânza bà, nè mà,
sânza fiùl, amigh, fradél,
sânza voi, nè pavuri
a sareb sol un quèl
ch’u vö dvintè…
A j o bsogn ad dò robi:
dasìm da bé, dasìm da magnè.
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Marzo – Tutto nasce piccolo, / lo dicono anche i cinesi. / Il tiglio al principio / è solo un profumo, / la neve che coprirà / tutte le cose / è un brivido dell’acqua, / l’ acqua è la voglia del cielo / del sapore della terra, / una casa è un vuoto d’aria / pieno di luce, la luce / è la fame degli alberi, / l’ amore è la scintilla / di un sasso contro un sasso, / ed io, / senza padre, nè madre, / senza figli, fratelli, amici, / senza desideri né paure / sarei solo un qualcosa / che vuole diventare… // Ho bisogno di due cose:/ datemi da bere,/ datemi da mangiare.
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NUVÈMBAR
Al badânti
a-l s’aramàsa
int i zardên de cumôn.
Insdé int al panchini,
cum’ i usél int i fil dla lus,
a-l gonfa i capót,
e al parédi d’èria giaza
a-l custudés i scurs
cumpagna la tèvla dla cusêna.
Par scaldès a-l bé.
Mo u-n s’ bé par scaldès,
e gnânca par scurdè,
u-s bé par murì,
e nânca par murì
a gl’ha da cuntintès
d’un liquor da du bajòc.
Intânt, i fiùl i crès,
luntân, e i fiùl di fiùl,
e lô a-l va drì
a la mörta di nost’ vécc,
ch’la pèga, s’la pèga,
tot ca gl’ètri
ch’ u-n s’ pò dì.
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NOVEMBRE – Le badanti / si radunano / nei giardini del comune. / Sedute sulle panchine / come gli uccelli sui fili della luce, / gonfiano i cappotti, / e le pareti di aria gelida / custodiscono i discorsi / come il tavolo della cucina. / Per scaldarsi bevono. / Ma non si beve per scaldarsi, / e nemmeno per dimenticare, / si beve per morire, / e anche per morire / devono accontentarsi / di un liquore da due soldi. / Intanto, i figli crescono, / lontano, e i figli dei figli, / e loro seguono / la morte dei nostri vecchi, / che paga, se paga, / tutte le altre / che non si possono dire.
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ZNÈR
L’a da l’ ès questa
la rotta par la lus:
la tu vôsa
ch’ la m’ ariva
sânza la tu bocca.
La tëra giaza
la guana
i nid dal radisi
int e’ scur,
sânza traza.
L’ ha da l’ ès quèst
ch’ la da vnì,
mo an n’ho ancora
la fiduzia di sânt
che quânt i arvés al mân
l’ è par fèsli rimpì.
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GENNAIO – Deve essere questo / il passaggio per la luce: / la tua voce / che mi arriva / senza la tua bocca. / La terra gelida / Dipana / i nidi delle radici / nel buio, / senza traccia. // Deve essere questo / che deve venire, / ma non ho ancora / la fiducia dei santi / che quando aprono le mani / è per farsele riempire.
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I MURT
I murt
chi t’ guèrda
dal fofografi
de campsant,
ciapé int un rispir,
j è sré
int al casi zinchedi
a mudè
int un suspir
ad porbia.
Pu i va
pr’al strèdi di viv
a piatès
int al robi
de mond.
E mi bà,
che adès l’è un bon bà,
l’è int e’ vlen celest
ch’u s’ da al vidi,
int e’ vers dal ranoci
e int la poppa ch’la vola
dri de fiom.
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I MORTI – I morti / che ti guardano / dalle fotografie / del cimitero, / presi in un respiro, / sono chiusi / nelle casse zincate / a mutare / in un sospiro / di polvere. // Poi vanno / per le strade dei vivi / a nascondersi / nelle cose / del mondo. // Il mio babbo, / che ora è un buon babbo, / è nel veleno celeste / che si da alle viti, / nel verso delle rane, / e nell’upupa che vola / vicino al fiume.
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La nèbia.
La nèbia
la ‘gloppa l’ilusion
d’un mond trop znin;
quant t’ vu guardè da longh,
e’ sguèrd
u-t rimbèlza indrì smarì.
E un èlbur
l’è l’ùtum èlbur,
una cà, l’utma cà,
un òman
l’è e’ sogn
d’un òman sol.
La nèbia
l’è fè e’ mond a memoria,
un ètar mond donca,
nàsar un’ètra volta,
rimiri tot quèl t’cì
e slunghè e’ col
sora la séva.
Nanca j élbur
i-s stroppia aposta
par magnè piò sol.
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La nebbia – La nebbia / avvolge l’illusione / di un mondo troppo piccolo, / quando vuoi guardare lontano / lo sguardo / ti rimbalza indietro smarrito. / E un albero / è l’ultimo albero, / una casa, l’ultima casa, / un uomo / è il sogno / di un uomo solo. // La nebbia / è fare il mondo a memoria, / un altro mondo, dunque, / nascere un’altra volta, / raccogliere tutto ciò che sei / e allungare il collo / sopra la siepe. // Anche gli alberi / si storpiano apposta / per mangiare più sole.
Sono romagnolo anch’io e adoro leggere poesie neo dialettali, che poi neo non sono, ma semplicemente belle, senza dovermi andare a leggere la traduzione in italiano. Il meldolese non è molto diverso dal faentino e la Turci è bravissima.