7 POETI DEL NORD: PAOLO STEFFAN (VENETO) con introduzione a cura di Manuel Cohen.
Il manipolo di versi che proponiamo ai lettori, sono i primi resi pubblici e ora editi da Paolo Steffan, giovanissimo e dotto studioso di filologia, sensibilità poetica tra le più acuminate tra quelle che abbiamo avuto la fortuna di incontrare di recente. La sua poesia è scritta stando in ascolto della parlata delle sua terra, nella località di Castello Roganzuolo, sulle colline di Conegliano Veneto. Da quel mondo apparentemente appartato ci arriva un grido di dolore e di allarme, un moto di rivolta allo smarrimento, una percezione fisica e dolorosamente attinente del paesaggio e delle ferite al paesaggio. Questo lo lega a un ideale solco che vede in Zanzotto, in Cecchinel e in Franzin le sue ascendenze più prossime; a questo inoltre si riferiscono due testi che prendono spunto da fatti realmente accaduti: l’abbattimento di pioppi sostituiti da colate di cemento e la caduta di un pioppo per il dissesto idro-geologico causato dall’uomo. La coscienza ecologista e civile non basta da sola a spiegare la bellezza e anche l’emozione che suscita la lettura di questi versi. C’è di più, c’è la consapevolezza di una fine, che passa per la demolizione di figure totemiche, archetipiche, del mondo rurale, e c’è il grido di allarme che viene, in questo caso, da un giovanissimo nato nel 1988. Si dice da tempo che le nuove generazioni sono cresciute senza la consapevolezza della natura e del paesaggio: Steffan, nella sua bellissima e dolente lingua, sembra smentire questo luogo comune. E sembra smentirne un altro: quello della totale insensatezza o della natura inconsapevole delle nuove generazioni: in Eser zóghen, incó, Essere giovane, oggi, si manifesta la percezione esatta della Geschichtlich, piuttosto che della più ufficiale Historisch «di questa trappola (per topi) matta che è l’oggi?». E coincide con un sentimento dell’epoca, con la sua Stimmung, acuita dalla bellezza dei versi che, privi di ostentazione, producono ‘naturalmente’ rime baciate (fregola/ pegola) e una clausola fulminante sempre in rima: «ingaivàde col sput. E pó l’é ’l sut / de stó gargàt mojà da ’n gnént-in-tut.», «E poi c’è l’arsura / di questa gola bagnata da un niente-in-tutto». Oppure: «Mi trattiene nel per-di-qua il fitto verde / di sei gelsi, sei vecchi gelsi / che ancora regnano stupendamente! / Con i loro tronchi grossi nodosi / con il loro fiato che è il mio fiato / con le loro foglie che sembrano un cuore / che batte amichevole nel marciume / di una generazione senza presente. » De na generazhión zhénza incó, Di una generazione senza presente. M.C.
Paolo Steffan è nato a Conegliano nel dicembre 1988 e lì si è diplomato al liceo classico. Ha proseguito gli studi laureandosi in Filologia e letteratura italiana all’università di Venezia. Da sempre vive a Castello Roganzuolo, ultimo lembo orientale dei colli di Conegliano.
Il suo principale ambito di studio è stato la poesia contemporanea di area veneta e le relazioni di questa coi problemi paesaggistico-ambientali e con i dialetti e il mondo da essi espresso; ha pubblicato il saggio Un «giardino di crode disperse». Uno studio di Addio a Ligonàs di Andrea Zanzotto (Aracne 2012, prefazione di Ricciarda Ricorda) e collaborato con Dario Calimani alla cura di un’antologia della poesia di W. B. Yeats per Marsilio. La sua silloge dialettale Bacàr è ospitata nell’antologia del Premio Poesia Onesta 2014 (a cura di F. M. Serpilli). Milita nel gruppo musicale-letterario Le Ombre di Rosso, con le quali ha musicato nel 2014 degli inediti di Luciano Cecchinel, sulla cui poesia gestisce il sito “Una strana gioia” e una pagina facebook.
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Eser zóghen, incó
Ti te séntetu mai tut zhavarià
petà ’nte ’l petadìzh fis de stó visc,
de stó tamài mat che l’é ’l dì d’incó?
E zhénza pi gnanca ’l gnént de ’l bastàrse
te te cata in tra gat che i à śgrafà via
coltrìne cuèrte nizhiói pa’ ciapàrte,
o in tra śgrinf de pit che via via i à frazhà
− in tra biàva e schit − fin l’ùltima frégola,
semenàndone sól trazhe de pégola
sul trói mut de sto vìver scortegà
de sorzhét che ’l pacia ’nte ślama e scoàzhe
ingaivàde col sput. E pó l’é ’l sut
de stó gargàt mojà da ’n gnént-in-tut.
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Esser giovane, oggi. Tu ti senti mai tutto impazzito / appiccicato nell’appiccicaticcio denso di questo vischio, / di questa trappola (per topi) matta che è l’oggi? / E senza neppure più il nulla del bastarsi / ti trovi tra gatti che hanno graffiato via / tende coperte lenzuola per acchiapparti, / o tra graffi di polli che via via hanno raspato / − tra mais e merda − fino all’ultima briciola, / seminandoci solo tracce di sfortuna / sul sentiero muto di questo vivere escoriato / di topino che pesticcia in fanghiglia e immondizie / appiattite con lo sputo. E poi c’è l’arsura / di questa gola bagnata da un niente-in-tutto.
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De na generazhión zhénza incó
“Quando siamo tristi e non riusciamo più a sopportare la vita, allora un albero può parlarci così: Sii calmo! Sii calmo! Guarda me! La vita non è facile, la vita non è difficile”
(Herman Hesse, Alberi, 1919)
“Il futuro è oggi”
(Matteo Renzi, 10/10/2014)
Te sénte sénpre che noàntri sén
na generazhión zhénza domàn.
E te te cata piegà ::: stropà
’nte ’l buso del tó sofegamént.
A pensàr a tute ’e òlte che l’é
da tiràr al fià ’nte na zornàda.
Éla pó véra, eóra, sta canzhón
de generazhión zhénza domàn?
O séne pitòst generazhión
zhénza incò? Ghen é za calchedùn
che ’nte ’l gnént del par-de-qua − capùt! −
al se à butà ’nte ’l par-de-la,
ché za i ghe diséa cofà a ’n malà
«L’é pi par-de-la che par-de-qua»
co i véa vist che ’l ndéa a stròzh ’fa ’n stornèl
pa’ i prà del paese, taśéndo o «Can
de ’n can!» bestemàndoghe drio a ’a vita.
E mi? ’Sa fae, can coi me “can”?
Mi me tién ’nte ’l par-de-qua ’l fis vérdo
de sie morèr, sie vèci morèr
che ’ncóra i ména che l’é ’n piazhér!
Co ’e só taje gròse gropolóśe
co ’l só fià che l’é ’l mé fià d’incó
co ’e só fóje che le par an còr
che ’l bate amìgo ’nte ’l marzhumèr
de na generazhión zhénza incó.
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Di una generazione senza presente. Senti sempre (dire) che noi siamo / una generazione senza futuro. / E ti trovi piegato ::: tappato / nel buco del tuo soffocamento. / A pensare a tutte le volte che bisogna / tirare il fiato durante il giorno. / È poi vera, allora, questa cantilena / di generazioni senza futuro? / O siamo piuttosto generazioni / senza presente? C’è già qualcuno / che nel niente del per-di-qua − caput! − / si è buttato nel per-di-là, / ché già gli dicevano come a un malato / « È più di-là che di-qua» / quando avevano visto che girovagava come uno storno /per i prati del paese, zitto o «cane / d’un cane!» bestemmiando contro la vita. // E io? Cosa faccio, cane con le mie bestemmie? / Mi trattiene nel per-di-qua il fitto verde / di sei gelsi, sei vecchi gelsi / che ancora regnano stupendamente! / Con i loro tronchi grossi nodosi / con il loro fiato che è il mio fiato / con le loro foglie che sembrano un cuore / che batte amichevole nel marciume / di una generazione senza presente.
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Note
“Incó / domàn”: letteralmente “oggi / domani”, i due termini si estendono in dialetto ai concetti di presente e futuro.
“Par-de-qua / par-de-la”: vita e morte
“Stornèl”: da questo termine ornitologico è derivata un’icastica espressione sinonimica di “ndar a stròzh”, ovvero “ndar a stornelón”.
“Can”: la parola “can” virgolettata significa metonimicamente “bestemmia”, da una delle più diffuse bestemmie.
“I ména”: del verbo “menàr”, oggi più spesso usato nei significati di “condurre”, “menare”, è qui impiegata un’accezione specifica, ovvero lo svilupparsi delle piante. In particolare, nella percezione che ne ho, il termine trasmette un senso di ciclicità della natura i cui diversi elementi, nel loro essere ritmicamente al passo con il ciclo stesso, risultano sani e in regolare crescita; per questo, riferendosi qui a vecchi alberi, ho risolto liberamente il verbo “menàr” in italiano con “regnare stupendamente”.
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Śmòrvedi, i talpón
Śmòrvedi, i talpón.
Co ’l so fià de festùc i śbianca ’l paeśe
che ’l se fa ’n starnudàr de bòce e vèci.
«Masa legrìa», l’à dita calchedùn.
«Ciól al Chainsaw e taja, taja zó!»
E i é mòrti, i talpón.
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Rigogliosi, i pioppi. Rigogliosi, i pioppi. / Col loro fiato di festuche sbiancano il paese / che si fa uno starnutire di giovanotti e vecchi. // «Troppa allegria», ha detto qualcuno. / «Prendi il Chainsaw e taglia, taglia giù!» / E son morti, i pioppi.
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Nota
Ispirato a un fatto vero, che ha riguardato due grandi pioppi piantati negli anni Cinquanta a Castello Roganzuolo e divenuti, crescendo, un punto di riferimento per gli scolari della vicina scuola elementare, me compreso, e tagliati nel 2014 come minacce alla salute della comunità. In loro luogo, a futura memoria, una toppa d’asfalto a cui si è aggiunta nei mesi successivi una serie di scariche di diserbante, che però non hanno ancora fermato l’ardire di piccole rinascite che hanno anzi perforato lo stesso asfalto.
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Rebaltón de ’n talpón
(† 2014)
E me tórne pensàr de chél talpón
drét e śmòrvedo, bèl, che ’l vardéa pa’ alt;
co ’e só radìs ranpegàde a’ a scarpàda
’l paréa che no ghe fése sudizhión
nisùn. Invézhe ’n dì cofà ’n śbrinsón
al se à oltà zó pa’ stravès inte ’a biàva
e ’l ò catà in afàno, destirà
cofà de nòt càlche vècio ’nbriagón.
Nó vuj savérghen dei só ingropamént,
ma ’e malegràzhie de sta anàda oltàda
via co ’a zhuca, seciàde e revesón,
sbóe mate, crèp, rebaltón-de-panòce
éle state ’n scufiòt, na cortelàda
o fursi sól de àqua ’n inbriagamént?
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Caduta di un pioppo / († 2014). E mi ricordo di quel pioppo / ritto e rigoglioso, bello, che guardava verso l’alto; / con le sue radici arrampicate alla scarpata / pareva non gli facesse soggezione // nessuno. Invece un giorno come uno scivolone / si è buttato giù di sbieco nel granoturco / e l’ho trovato svenuto, sdraiato / come di notte qualche vecchio ubriacone. // Non mi interessa dei suoi blocchi emotivi, / ma gli sgarbi di quest’annata andata / via di testa, secchiate e sovvertimenti, // raffiche pazze, fulmini, forti temporali / sono stati un cazzotto, una coltellata / o forse solo d’acqua un’ubriacatura?
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Note
“Malegràzhie de sta anàda”: sui colli trevigiani l’estate del 2014 è stata foriera di un eccezionale quantità di piogge, anche violente e devastanti. Non si sa con certezza se quest’anomalia climatica sia occasionale o piuttosto una delle prime gravi conseguenze del riscaldamento globale: resta l’interrogativo.
“Rebaltón-de-panòce”: dall’espressione “rebalta-panòce”, ovvero “rovescia-pannocchie”, con cui nella civiltà contadina si designavano per la similarità del suono i temporali dai forti tuoni; e così nell’infanzia i nonni mi divertivano, durante i frequenti eventi atmosferici estivi, insegnandomi a esclamare a ogni nuovo tuono: “Rebalta-panòce!”
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A strapiónbo
a C.
’Sa fatu, bén méo? Pó dime ’l parché,
’sa éo che pòse far, ndov’éo che pòse star? Ti che te se ’l mé bén
’sa fatu, mé bén? Te se là gnént-in-tut.
L’é sólche ’n remenàrse e ’npaltanàrse,
rénto ’l lèt sofegàrse, ’nte ’l cusìn
strazhà da pie e man, sudàdi e suìto
ingelàdi e gróp de nervi che i baca.
’Sa fatu, bén méo? Pó dime ’l parché,
’sa éo che pòse far, ndov’éo che pòse star? Ti che te se ’l mé bén
’sa fatu, mé bén? Te se là gnént-in-tut.
Trazhàde stónfe de làgreme ciàre
le se ślonghéa drio de mi, onbrìa de mi,
mi che zhénza ’l tó bén nó ère pi bòn
de ndar de star e restàr gnesulógo.
’Sa fatu, bén méo? Pó dime ’l parché,
’sa éo che pòse far, ndov’éo che pòse star? Ti che te se ’l mé bén
’sa fatu, mé bén? Te se là gnént-in-tut.
’Sa ditu pó, ’sa ditu dès? No l’é
bèl stó s-ciant de cetàrse e ślontanàrse
del petamént pazh che ’l ne à pionbà dòs
(te ò contà tuti i òs) ślama che ’a ne jól.
’Sa fatu, bén méo? Pó dime ’l parché,
’sa éo che pòse far, ndov’éo che pòse star? Ti che te se ’l mé bén
’sa fatu, mé bén? Te se là gnént-in-tut.
E mi zhénza pi sèst − zhénza pi vèrs
ò scumizhià zhavariàr scumizhià
tratàrme pa’ ’ndormenzhàrme co i pèzo
velén, pa’ ’n s-ciant stuśàr chéa tremarèla
(che ncóra dès me ’a sénte dòs) cusì
smentegàndome che a far cusì, ti
cusì − che cusì se móre, mé bén,
e velén su velén scanpàrghe via
scanpàrghe a tuti, tuti i tó pensiér
e i méi, zhénza pi gnént, gnént da ’nsognàrse…
’Sa atu fat, bén méo? Pó dime ’l parché,
ti che te se ’l mé bén
’sa atu fat, mé bén? Èser là gnént-in-tut.
Vanti pó dès, inpenìsete ’a bóca
co śbrancàde de vita, pó ślapàzhete
i dént co chéi bocòn de bén che frégola
co frégola te ò savést inmuciàr
co ti − gnént-in-tut − te ndéa schivanèle
sul strapiónbo de ’a mòrt.
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A strapiombo. Cosa fai, amore mio? Poi dimmi il perché, / Cos’è che posso fare, dove posso stare? Tu che sei il mio amore / cosa fai, mio amore? Sei là niente-in-tutto. // È solo un rigirarsi agitato e impantanarsi, / dentro il letto soffocarsi, nel cuscino / stracciato da piedi e mani, sudati e sùbito / gelidi e nodi di nervi che pulsano. // Cosa fai, amore mio? Poi dimmi il perché, / Cos’è che posso fare, dove posso stare? Tu che sei il mio amore / cosa fai, mio amore? Sei là niente-in-tutto. // Tracciati macchiati di lacrime chiare / si allungavano dietro di me, ombra di me, / io che senza il tuo amore non ero più in grado / di andare di stare e restare in nessun posto. // Cosa fai, amore mio? Poi dimmi il perché, / Cos’è che posso fare, dove posso stare? Tu che sei il mio amore / cosa fai, mio amore? Sei là niente-in-tutto. // Cosa dici poi, cosa dici adesso? Non è / bello questo po’ di acquietarsi e allontanarsi / dell’attaccamento sozzo che ci è piombato addosso / (ti ho contato ogni osso) fanghiglia che ci duole? // Cosa fai, amore mio? Poi dimmi il perché, / Cos’è che posso fare, dove posso stare? Tu che sei il mio amore / cosa fai, mio amore? Sei là niente-in-tutto. // E io senza più grazia − senza più versi / ho iniziato a delirare iniziato / a trattarmi per addormentarmi coi peggiori / veleni, per un po’ spegnere quel tremolio / (che ancora adesso mi sento addosso) così / dimenticandomi che a far così, tu / così − che così s muore, mio amore, / e veleno dopo veleno rifuggire / rifuggire tutti, tutti i tuoi pensieri / e i miei, senza più niente, niente da sognare… // Cos’hai fatto, amore mio? Poi dimmi il perché, / Tu che sei il mio amore / cos’hai fatto, mio amore? Esser là niente-in-tutto. // Orsù, riempiti la bocca / con manciate di vita, poi insózzati / i denti con quei bocconi d’amore che briciola / a briciola ti ho saputo ammucchiare / quando tu − niente-in-tutto − andavi a zigzag / sullo strapiombo della morte.
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Note
“Èser gnént-in-tut”: espressione che indica l’esilità o estrema magrezza di un corpo, nel caso specifico determinata da un pericoloso disturbo alimentare che ha messo a grave rischio la salute della donna amata.
“Sèst”: termine affine all’italiano “gesto”, qui è tradotto con “grazia” come nell’espressione “far calcòsa co sèst” = “far qualcosa con grazia” “far bene, con impegno un’azione”.
grazie