‘a guerra di Vladimir D’Amora

‘a guerra di Vladimir D’Amora.

   

   

Vladimir e poi D’Amora, 39 inverni che so’ finiti quasi tutti, biondo e l’importante è come ci si usi: non essere né presupposti o appropriazioni, ma l’aversi esposti al limite… E napoletano che non ama Napoli, e non solo perché la pizza è ormai di gomma. Indeciso tra Cruyff e Maradona, divorziato e da mesi vedovo, vendo quelle scritture la cui morte è fantasma, ancora. Quattro bei lutti freschi freschi, fuori nonna e madre e infine padre, anzi, l’ultimo è di quella che fu una moglie, come corpi morti di animali, intrattabili, stanno anche ora col coro di sfibranti mormorii e martello. Convivevo, tempo addietro, con una femmina ossuta, di quella distonia che sì giova al feticismo erotico, e ora con un fratello camuso e quasi ventenne e bello come i gelati. Fui filologo e storico dell’arte, dai Greci al Caravaggismo, con quella pertinacia e desultoria freschezza assieme, e fui capace di voli nei buchi più insaputi di biblioteche e musei… Poi le morti, tutte a treno, recenti, ripulendo piaghe e cuori e culi. Ho viaggiato per tre anni senza tornare, ho viaggiato nella roba, ho viaggiato in un carcere, mi sono fatto rompere il culo da mani avide di questo gorilla bianco che sono, il cazzo grosso e lungo e la pelle glabra di latte solo e oggi, quando guadagno, mangio e bevo e leggo, il vino nero, chiuso, sincero. Ma vendo parole, operazioni di parole, spiritica verticalità, sono glabro più di latte. Ritrovai un corpo mio, nell’acqua del mare, che diede da entrare, facendomi amico di mente e calcoli, attraversandomi come lingua che spacchi e medichi, insieme. 

Ho viaggiato come un mulo col cazzo di cavallo, ho passato notti e giorni nella melma chiamata vita: ho lavorato a Londra, a Lisbona, a Madrid, a Dakar: ero un umile che lavava i piatti, li tenevo lindi per i padroni… Molti mesi ho trascorso lontano dalla casa che si dice essere la casa: ho viaggiato nella carne e nei trip: mi tennero legato e sudavo: buttavo via la vita, l’unica che mi fu data con questo cazzo strano e da circo quasi: ma riuscii a sopravvivere: a dire che la roba è buona, ma è roba. E basta. 

Oggi non posso non essere egheliano, anche ieri. Ma senza Croce né Gadamer, e senza la storia… Non posso essere cristiano, ma filologo di dio. E dev’essere il cazzo, sebbene ci tenga a pungoli, e scappa come acqua. O come l’aria come nel respirare senza colore. Leggo e rileggo, detesto Calvino e Petrarca, Foscolo, la Maraini, Ammaniti e quelle degli orecchini a perla. Gl’impegnati che si dissimulano, lungi da me, e pure i nichilisti pigri. Della poesia, quella che sa andare a capo, mi piacerebbero gl’innografi dalla parola netta e poca, ma sento che il tempo si sazia ad elegie piene di pensieri. Sì al Manga, a Gadda, a Kafka, Tolstoj fu malato di bellezza, all’altro Russo difettava l’ironia, forse. Mi piacciono Longhi e Contini, le loro pagine però, meno quello che teorizzano, e imposero. Pacato godo degli epistolari, i critici, Benjamin e Platone, il Bacon dei trittici, il tratto pudico di Duerer, le foto bianche nere, le auto bombate, e allora immagino le Langhe. E le femmine che m’hanno saputo lasciare, e quelle che fingono, coi denti, di non esser donne, le loro mani. E Tacito. Perché lo senti moralista, ma non fa nulla… Mi faccio piacere Caravaggio e il Rinascimento, dentro adoro Skopas e il Laocoonte però, perché ho consumato tanta televisione. Ancora immerso dalle videocassette, da porno e filmati di calciatori lenti, colle ali storte. Proust mi fu noia dolce dolce, recentemente Michele Mari e McCarthy so’ stati buon farmaco. Ottonieri, tommaso dalle costole da fuori, non so se esista davvero, è come se lo tenga per sé, chiavato in un passato, il suo giudizio. E vorrei che Cortellessa mi dicesse personalmente, pagina per pagina, qual è stato il processo di polverizzazione di Di Ruscio, come lo ha trattato per starci due anni… Saviano e Parrella, non sanno scrivere! Totò è volgare, come la musica che non vuol finire. Ogni ritmo ha il tempo suo, una ragione elementare di vita, di morte. E il cazzo, anche se l’uomo, è reagente sole anche, come ‘na specie di mina che cova in ogni carne della pagina, e non solo la mia. E non solo la tua. E non solo la nostra. E forse è poesia, perché lo metti in culo, al posto non suo, tra gli scaffali politi colla pomice, nei saggi e nei dipartimenti giusti, e poi sguscia fuori, a fare schizzi e la partizione: come l’intensità di quei filosofi che amano troppo, e solo amano. E sono anche uomini… 

Fui amato dalla voglia di eccedere. Ho ecceduto. Ho pianto. Ho fallito anche. Mi ritrovai, tra maschi che volevano maschi, a esibirmi con il mio e per il mio cazzo di asino equino: fui uomo senza ragione: fui ragione che piangeva.

Fondai una rivista, multilingue, solo digitale, che ora deve annaspare assai. Era Vulgo.net. E c’era, quella volta, un architetto – il morto babbo – e un francese albo e una messicana cresciuta a Borges e aglio. Ci guidava, schivo e geniale, un logico e filosofo e matematico, che ancora pedala per Praga. Il padre, quella specie dello scrittore che fu Kundera, lo chiamava il signor K.K. E c’erano preti capaci di bruciarle le parrocchie, ma pure lesti pompieri, purtroppo. Io tentai di diluire i miei due assilli, Nietzsche & Heidegger, ma invano. Se spieghi il mondo, dopo non sai che ci sarà, e se lo cambi, poi ti tocca dare spiegazioni. E non applicare nulla, non sviluppare nulla, non volere nulla: per alcuni è la comunità che sempre viene, però forse è noiosa, quanto l’attesa. Quando sosto alle fermate dei bus, colle loro tabelle d’arancione meneghino, è solo la disfunzione tecnica, che apre nel ritardo l’autentico del tempo. Il tempo mio, quella mia stupidità. Che non so scordare, perché non so spezzare l’oblio in sé e per se stesso, come vuole un Socrate cialtrone e vero palombaro del Filebo di Platone d’Atene. E potrebbero dare termine altro alla gioia, i limiti terminatissimi, le incomprensioni frante. Assieme alla fine. V.D’A.

*** 

a’ guerra

Ci sono ore, in un giro di cemento intestato a un boss nuovo o meno giovane che passano con il silenzio. Alle cinque buie d’inverno, prima che il sole si alzi a fare bianco, nessuno guarda o ascolta, mentre ci si aggira a piedi, un po’ lontano un mobile di una certa prestezza. Nelle zone, le strade e le piazze, i pezzi di città che si passano andando altrove, non ci sono dintorni, non ci si gira intorno, non si circola, si avanza e supera. A Scampia ci si ferma, sono torri altissime, inumane quasi, come se fossero passati tanti soldati marcianti, e a notte le luci si stringono in certi punti costruiti che si allargano, e si vede cosa è stato, cosa è accaduto. Maria quella notte cercava come farsi, e trovò di cosa farsi. Però non si faceva sempre, così girava, faceva i giri col freddo. Mentre dentro al bar le guardarono il culo stretto e intrigante, coperto ma si scopriva da sé. Chiedeva dove ci fosse quello per farsi, tenendo già i soldi. Faceva il freddo aprico dei bruciori, quel girare e tirare per i lunghi viali che devi tirare perché devono essere trascesi, come sono integralmente a luce bianca o gialla o arancio, ma luce di una scommessa razionale e capace di dare direzione, lancio, lì ci stava sempre la base.

A polli a 10 euro. Poi stravaganti tendoni verdi, ci sono poche salite a Scampia, ma un cofano di rotatorie, di case.
Altre volte Maria aveva affittato alla stazione centrale, davanti al bar delle pizzette, un tassista con la macchina normale, senza segni di taxi. Quanto vuoi e mi porti per la roba, a Secondigliano? Nun parla’… No, è troppo, tanto poi ti fai pure tu, ti pigli pure la roba che serve a te. Saliva, era presto, alle dieci di mattina, alle sette, alle sei, c’arrivava per direzioni ignote, faceva freddo già alla mattina. Scampia è larga, Scampia è non verde, manco i ciuffi, che sono rovina della pelle di un glabro, Scampia stanno poco fermi coi mezzi, nelle macchine, Scampia è vuota: un uomo, uno nato e vivente, vi rinviene più del suo spazio. Vuoto.
Giovanni avanzava cogl’alberelli di lato, a destra, con le buste chiuse. A Scampia la busta, ch’è plastica, è sempre chiusa: se cade quello che vi è contenuto, lo si perde. Irrimediabilmente. Quando era piccolo e giocava nei pressi della casa dei visitòrs, Giovanni alzava da terra pure il pezzo del pane con la nutella pezzuttata, e lo magnava, era il pezzo suo. Ora stava andando a pigliare la fatica dal barbiere ai lotti più lontani da dove ritornava la sera, a piedi, percorrendo piste cogl’alberi che ora non si scorgevano ai lati, né di qua né di là perché ora era la sera, e la sera manco i ferri si vedono, le inferriate, le gabbie, gl’impedimenti, le barricate, muri che ieri non c’erano. Ma quando si mette sù un muro nuovo, a Scampia c’hanno una ragione, che non è bella, non è il bello che può stare fuori da Scampia, sui giornali nei posti belli e in televisione, sul computer, nei musei che collezionano, quelli chiusi. Per lo più i musei sono chiusi, luoghi coperti, con orari, protetti. Aveva udito grida, aveva visitato dei mezzi nuovi, con i suoi occhi Giovanni quelli che girano e girano, si gira sempre a Scampia. Giovanni sentiva la musica dentro all’orecchie, mentre tornava, la semmana domani, è poco ma basta. Il riso per esempio è quello che fanno ai cani in altri posti, i cani per esempio, se c’è la crisi, non li mettono quelli che stanno altrove, non li mettono a mangiare di meno, di peggio: il cane o non mangia o mangia crisi o non crisi.
Se a Scampia si muore, pure qui si muore. Se a Scampia si cresce, pure qui si cresce e poi si muore. O si muore da feto, o d’amico che poi si fa nemico, già era nemico. Come Antonio e Stefano. Stessa scuola, per poco, stesse canne, le pompe delle compagne già sotto ai banchi, nei cessi d’istituto. Poi Stefano si sposta, trovano altre due stanze la sua famiglia tutta a più di due chilometri e ci passava la navetta. Che prima avanzava senza esitazioni, linea retta e poi girava, entrava e girava, faceva il giro e usciva da dove era entrata. C’era una chiesa, quelli che fanno i testimoni che bussano, hanno non proprio una chiesa, gli evangelisti che cantano anche alla televisione da un posto altro come Scampia, altro da Scampia, dove ora pure una moschea piccola piccola, vicina ai restanti, altri templi. Antonio siamo amici? No, io sparo e tu spari. A noi è ito così. E si spararano, in un bar, la mattina col cielo bianco e i ponti dall’altra parte di Scampia.
A Scampia ci sono le stesse cose che non ci sono a Scampia.

Solo che a Scampia si compra la droga, come si compra alla Sanità. O al Pallonetto, alle spalle di Piazza Plebiscito. Solo che a Scampia quello che si mangia e la musica, i vestiti, le lampade, le piscine di mattoni di gomma, le scarpe, il riso che scuoce, il detersivo che non è pulito fuori ma fa bolle e schiuma, questo si compra. Costa di meno, ma si compra. Anche a Scampia si comprano le cose.

*

scampia riscritta e falsa
non si dettavano compiti
sullo scalino due pezzi
morti erano amiconemico,
era la piana cesura le ossa
poi si smarrivano gli occhi
con ansie drogate dal vero
l’interveniente del vuoto
di qua, presso queste luci,
prezzi che alterano soltanto
i muri segnano i figli
e morti in città a Napoli perché
lasciano arti nelle fasi, le colle,
le vite malate, letamai e cieli
che allattano vanificate
forze colme di incerti
ricordi e sono due frasi giovani,
lo scorrere chiaro, tagliato
di un’indecisa spesa di cose.

***

E sono indolenziti, senza denti
lo squarcio è dentro che adotta
un dover essere, i mantelli come
da Caravaggio all’opere di Napoli
per patto infame e logoro l’assieme
delle vite nel sole e nell’accesa
notte è un foglio sterile la gomma
e sua stremata foglia
Ho pensato così, quindi i morti
vivono nel vento e non volersi
più nel delirio assurdo ne passaggi
allo stato elementare non calpestare
la terra che muta e randagia
la sua caccia all’ente nel disastro
E’ la gente intorno come il vuoto
di una spugna si spinge nel buio
coprendo l’ombre coi sospiri
quieti come l’anima che il corpo
ha scordato nel senso e rivuole
piacere come un pezzo di antracite
Ma Napoli è bella ed è una mela
antica
senza la grazia avuta.

                

Gérard Blain ne Le beau Serge di Claude Chabrol
Gérard Blain ne Le beau Serge di Claude Chabrol

 

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