La Pòlis che non c’è di Ennio Abate, CFR ed. 2013, recensione di Luigi Paraboschi.
Con una fulminante e strepitosa sintesi così redatta: “ il sonno della sinistra genera Renzi “ qualche giorno fa l’articolista che si firma Jena sul quotidiano “ la stampa “ mi ha fornito lo spunto per dare inizio ad alcune riflessioni sulla raccolta di poesie di Abate edite dalla casa editrice appartenuta al recentemente scomparso Gianmmario Lucini, perché l’autore di questi testi non intende nascondere la propria identità politica di ex militante di Avanguardia Operaia, – movimento che venne alla luce a cavallo della fine degli anni 60 e operò attivamente in politica sul campo operaio per circa un decennio – , ma prende l’avvio da tale militanza per fare un’analisi crudele e impietosa di tutti quegli anni per poi giungere alla conclusioni che vedremo più avanti.
La mia premessa relativa all’assopimento dei movimenti di sinistra sia sul piano politico che su quello culturale sembra essere sottolineata e condivisa da Abate in numerosi testi di questo libro, ma forse il lavoro che più di tutti è capace di fare un ritratto preciso delle speranze che animavano i giovani di quegli anni è il testo che apre la raccolta e che si intitola “ poesia lunga della crisi lunghissima “ il cui primo verso è :
“che fare compagni/ di speranze raggrinzite ?
cui fanno seguito altri versi che esaminano l’excursus esistenziale dei militanti che:
“ s’interrogano/sotto il lenzuolo sporco/dell’esperienza troncata “
conducendo il lettore nella parte conclusiva all’elencazione di una serie di verbi all’infinito che nella crudezza del loro realismo inducono allo scoraggiamento anche coloro i quali avrebbero potuto mantenere ancora viva qualche ottimistica speranza, e questi verbi sono:
restare talpe/….essere vigili controllori della sconfitta/…galleggiare su un limaccioso proletariato/………… rimuginare un pensiero acre /…scavare /in cerca di odio intelligente/… maturare/ nel tunnel inatteso/ dove si palpa sfacelo di cose/ disfarsi di generazioni /
E l’autore appone in calce alla poesia due date :1978/2012.
Dentro questo arco di tempo si è concluso il sogno di coloro – giovani e meno giovani – che sono passati attraverso la fine del cosiddetto “ secolo breve “, di cambiare le cose .
Sono quasi 35 anni di storia che Abate rivive e mette sulla carta facendoci toccare con un sarcasmo terribile tutte le cadute, gli errori di un movimento che progressivamente ha perso il suo smalto rivoluzionario e di una sinistra che questo smalto sembra non averlo mai posseduto (non sfugga al lettore che il sottotitolo del libro in questione è “ straccetti-rovelli- artigliate “, messi lì tanto per far capire che tale lettore non si troverà di fronte a poesie cloroformizzate dal bisogno di essere piacevoli per tutti, no, Abate non fa risparmi di nulla a sé, ed ai compagni di strada di un tempo).
Una poesia che illustra ampiamente quanto ho affermato poc’anzi è “ appunti di lettura “ che prende lo punto da un articolo apparso nel 1973 sulla rivista “ primo maggio “ nel quale si cercava di analizzare l’atteggiamento di Marx nei confronti del proletariato del suo tempo, per ripercorrere in modo critico gli atteggiamenti della sinistra ed arrivare ad una amara conclusione così espressa :
“ ma che vuoi che scelga/fra PCI e Autonomia o ancora più nell’ombra,/ fra i fiancheggiatori/ se m’avete ridotto la società a due ossa spolpate:/ unità nazionale e lotta armata ? “
Sono versi che mettono in evidenza il disagio dell’autore che in un altro testo “ intervista nel girone dell’industria culturale “, con sarcasmo amaro si domanda:
“ oh, nostalgici della celluloide/ in fila dopo i nostalgici della letteratura, della pittura a olio,/ della lirica, perché non siete restati fuori gioco?/ E quando v’accorgeste che c’è l’industria della coscienza/ e non più solo mito e non più artigianato ?/
Ma non c’è solo il sarcasmo per fustigare l’orgoglio di una sinistra che si crede tale solo perché sopra i propri giornali dà spazio al pensiero dei cosiddetti radical-chic, come in “ pagina culturale di Repubblica “ : “controllo/ nel più smaltato vasino/a sinistra/ la cacca di Arbasino /, c’è pure il rimprovero neppure velato di avere inseguito e conquistato certe posizioni importanti negli spazi culturali che i giornali e la Tv offrivano, come in
“ Sessantottini 1997 “ :
I più lesti finiti in massmedia/ il grosso eliminato tra storia/ filosofia o economia/ altri per il rotto della cuffia/ accucciati in poesia/ e qualcuno solo in scuole di periferia /
E c’è la puntura velenosa ma vera di “ Aprile 1968 – aprile 1998 “ ove appare, (non senza l’uso di ottimi riferimenti culturali e un paio di giochi linguistici apprezzabili), nella quale si prende spunto della scomparsa di un amico, Primo Moroni fondatore della libreria Calusca a Milano e di cui scrive Abate:
Ormai senza ( a) Moroni/.
Primo
previdente e furtivo
a fine marzo volò via senza vedere “ Aprile “
che fa cassetta nell’ Italietta
guarnita d’ amoretti e amaretti
alla Nanni Moretti.
Addio april the cruellest month !.
La nostra storia sudario
è finita in diario.
e più ancora in “ il manifesto europeizzato “ l’indice è puntato verso coloro che forti delle loro letture economiche “left oriented “ sono stati abili nel collocarsi nei posti che contano
Garbati bambolotti/dormienti a pugno chiuso/s’aggirano per l’Europa.//
Cullati a Euro e Bot/si sveglieranno un dì/ di certo dotti/ ma euroborghesotti.
L’amarezza del militante trova il suo culmine nel testo “ Kosovo” dentro cui affiora tutta la disillusione per il cittadino Italiano che sa che la Costituzione del nostro paese ripudia la guerra ed invece è costretto ad accettare che un governo guidato da un esponente del vecchio PCI e con la partecipazione anche di dissidenti cossuttiani e dei verdi, partecipi ai bombardamenti nella guerra in Bosnia.
Fare con sinistra quel che destra vuole /:
rinato è nel Kosovo il dolce stil novo/.
E chi ti ritrovo nel pilatesco covo
che spara bombe Nato euro-tricolori ?
L’italian fascista – finiano ? L’Italian leghista-padano ?/
Il bis-unto berlusconiano ? No, il normal italian dalemiano,
il cossuttiano e il verdastro inquinato ma sempre italiano.
Ed è alla luce di un verso che Abate inserisce in una sua poesia “ leggendo il testimone secondario “, che suona così:
malgrado il campionario sia illustre e vario
non si cercano altri padri dopo la quarantina
che scopriamo in lui un continuo interrogarsi, analizzare i propri ed altrui comportamenti, metterli sotto il riflettore di alcuni testi classici della cultura di sinistra di quel tempo, che andavano da Lukàcs nel campo dell’estetica per vederla poi applicata alla critica cinematografica da Aristarco nella rivista “ Cinema nuovo “, ed egli parlando di sé stesso in un ipotetico cammino dice:
“ Sgambettò nel dilemma : “ ma io dovevo correre !
Sarei stato meno zuppo di pioggia “
No, un’ansia bloccherà la parola da pronunciare.
Non racconterai mai il fascino del buio,
All’arrivo, davanti alle cattedrali di silenzio della gente
inchiodata ai bracieri di casa e al bicchiere
di vino, come i tuoi antenati, sentirai la sconfitta
nell’affanno del tuo volto e il pensiero precipiterà smozzicato.
Alle Termopili……………
No, non si fece in tempo. Abbiamo perso.
Sarà questo l’ annuncio.
E l’amarezza arriva alla manifestazione finale in questo testo che voglio riprodurre integralmente perché è lo specchio e la sintesi di quanto io ho cercato di leggere nei testi di Abate ed esporlo ai lettori che si vorranno accostare a questa raccolta importante, secondo me, per comprendere il cammino di un intellettuale dal quale si può dissentire ma che non si deve ignorare.
La poesia si intitola : Dieci anni dalla parte del torto “ che egli articola con un amico dal nome di Fabrizio Leccabue che edita una rivista dal titolo omonimo della poesia
Beh, dieci anni dalla parte del torto
sono pochi, Fabrizio.
Ce ne attendono altri
probabilmente quelli che ci restano.
Non cambiano i discorsi
sulla democrazia, gli immigrati, la guerra;
e che spavento a vedere quante cose
negli ultimi dieci anni
sono accadute e mi sono accadute.
Ma più spaventa, in questo mondo-quadro di Pollock,
cercare un filo di pensiero comunicabile
che leghi quelle a me capitate a quelle di milioni di altri.
Negli ultimi dieci anni mi è rimasto ancora l’ago dell’io.
Ma quale filo usare ? – mi sono chiesto.
Scuotendo la testa ho provato
il filo di Revelli che se n’è andato
( in buona compagnia )
oltre il Novecento.
Ho provato quello degli euforici d’ Impero e Moltitudine.
Non c’era arrosto. Ma un profumo immateriale di comunismo
si sentiva ancora. Ed esoderei anch’io a quel modo, mi dicevo,
forse si può, anche alla mia età, e con la materia familiare e locale
che mi sta addosso, anche se di immateriale dispongo
a stento
di Window e di Outlook Express.
Ho provato a infilare nel mio ago
il filo del lavoro autonomo di seconda generazione
di Sergio Bologna,
quelli dei molti in poesia
quello di www.poliscritture.it
e discutere volenteroso
con quel che resta di un Forum di sinistra
a Cologno Monzese
e che ora si svuoterà della sua incerta polpa sociale
perché alcuni già trovano interessante
il Partito Democratico,
( mentre a me i discorsi di Veltroni
fanno venire capogiro e crampi )
e ad altri gli si velano gli occhi
quando Rifondazione rifonda un surrogato di PCI.
Ho partecipato a poche manifestazioni
in questi dieci anni,
Ho letto e scritto troppo
su Montaldi Fortini e storia del Novecento.
Sul passato, insomma.
Ho tenuto un diario. Ho cambiato casa.
Sono rimasto con pochi amici.
Cambiamo ancora
spasmodicamente immobili,
augurandoci buone cose.
(2007)
Giunto alla conclusione di questo viaggio attraverso la raccolta di Abate non posso, in tutta onestà esimermi dal pormi la domanda che ogni appassionato di poesia come penso di essere si pone è cioè : E’ poesia questa, oppure si tratta di una profonda riflessione leggermente prosastica che ci può aiutare a ripercorrere ( per chi ne sentisse il bisogno ) questi trenta anni e oltre, della nostra storia ? “
Non mi sento in grado di poter giungere ad un giudizio categorico e definitivo attorno a questa domanda, perché, anche se Abate, nelle sue note di chiusura afferma di non considerare questi testi come “ poesie civili, o poesie politiche, o poesie impegnate “, bensì poesie esodanti, nel senso che egli intende con esse manifestare la sua volontà di mostrare ripulsa per le logore parole che s’impastano in bocca agli attuali politici e non cedere alla seduzione di una poesia che s’adagia nel falso sublime di una falsa libertà, io sono convinto che la parte più vera e poetica la si possa trovare nella conclusione di questa poesia dal titolo “ faccio poesia perché”
Quando la vita – gli altri, le altre – mi mette da parte,
fingo d’inseguirla, di riacchiapparla,
la vita;
e ne costruisco di parole un doppione,
che sembra respiri
ma è invece – lo so- il rantolo delicato e ancora umano
della vita che m’addestra alla mia morte.
Ecco, credo che negli ultimi due versi sia la risposta alla domanda precedente “ è poesia ? “
Io dico di sì, perché anche Abate scrive poesia per le stesse ragioni di tutti coloro che la praticano anche se in modi differenti dal suo, cioè solo per addestrarsi a morire, e battersi con la morte è FARE POESIA.