Adesso l’eternità: sulla poesia di Adelaide Ricci, di Roberto Dall’Olio.
“la gioia per il solo esistere è di per sé un sacramento”
SIMONE WEIL
La poesia di Adelaide Ricci è tersa lucente di profonda superficiale bellezza. E’ un canto lirico che arriva al culmine e vi si ferma sul baratro senza tremore di voce. Quel baratro è l’assoluto alto e basso il luogo di tutta la Terra del Creato del cielo e dell’Aria. In questo liquido amniotico della nostra vita si leggono in lei in controluce le cifre del dell’esistere: «Su un filo/nella luce/affilata/ di ottobre/passeri siamo» (da “E la vita che viene”, pag. 69, Fara Editore, 2014). Passeri non solitari direi esseri dell’aria e dei rami. L’aria è una delle sue trame più intense e sottili come lei stessa pare indicarci: «Fili/nell’aria/siamo/di Dio/lucenti» nella sua raccolta d’esordio “Nenie dell’Aria”(pag. 43) e l’Aria è il luogo della luce come suggerisce Vittorio Cozzoli in merito, ma è anche l’apparire dell’Essere e degli esseri. La luce è la casa della poetessa la sua Heimat, ove scorre la sua nostalgia dell’eterno. Non c’è più eternità sembra reclamare Adelaide Ricci mentre chiama la vita in un presente degno di passione e di attesa, di dubbi e di slanci, epifanico nelle speranze. Perchè tranciare il cordone ombelicale con il sempre? Che, si badi, non è il contrario del relativo. No è il sempre del presente, non certo il carpe diem. No, la vita che viene. Ma dicevo della nostalgia. Non è quest’ultima puro ed etimologico dolore del ritorno impossibile nel tempo e, forse, quiete ricercata nel passato. No per l’Adelaide poeta il dolore del ritorno al tempo è superato in una ritrovata unità: «a noi/che contavamo/le nature/due/per opposti/invece/uno e mistero/che chiama/ancora» (“E la vita che viene”, pag. 55, Fara editore, 2014) e nello spazio illuminato della notte, la sera che insieme tutti e due (giorno e notte) tiene: «Catena/di suoni/leggera/la sera/ora/òra per noi/nel sempre». La luce viene come la vita e il mondo alla fonte dell’Essere in ogni luogo in ogni dove si manifesti: «Tu dici/dieci/e l’ombra/che dà/il ponte/è luogo/fine/di acque/trasparenti/ecco/dove/riporre/i tuoi talenti/che vibrano/di luce/dalla fonte… Sulla montagna…tu/più chiaro/ancora/dici/per sempre/a noi/luce da luce». Questa poesia della vita che scorre senza epoche né età, tra due sponde, il tu vivo che ritorna in molti versi in parte riportati e un tu arcano che richiama il niente: «Quando non ha/domande/il giorno è/bianco/per una notte/fitta/nella luce/così/se tu/riposi/io non chiedo/perchè/mi dai del /niente/da portare». Sul niente e sul nulla l’autrice ha le idee chiare, affascinanti e liricamente aperte: «Tutti/lo sanno/che non è niente/il nulla/ne parlano/così lui/esiste/e tu non hai paura/(lui si fa/tutto/e tu/diventi/niente)» (da “Nenie dell’Aria”, pag. 17). Tra l’Essere e il nulla la poesia e l’opera di Adelaide scelgono totalmente l’Essere, ciò che conosce tutti i nomi e che possiede tutte le parole cui il poeta attinge: «E’/non si dica/d’altro/sopra il monte/e d’ogni/e tutto/e un suono/di campane» (op. cit., pag. 58). Se non è poesia questa! L’Essere è l’Aria , il luogo della luce, la luce dei luoghi, del vento che porta a casa. «…sussurro/che è più vivo/chi più spera/chi non domanda/ancora/e non s’arrende/chi vive/per quell’aria che/ci prende/e ci porta a casa/chiarascura» (op.cit., 2014, pag. 9). Chi spera è vivo, dunque si apre al presente e al futuro e non si arrende, ma si lascia prendere da quell’aria che ci porta a casa. Ci porta nella porosità della pietra mentre nell’altra sponda del torrente della vita e della morte si sente: «…la voce/che sa/del nulla atroce/mentre tace» (op. cit., pag. 43). E tuttavia la vita che viene è carica di speranza vorremmo dire con Stevenson che «it is better to travel hopefully than to arrive – è meglio viaggiare carichi di speranza che arrivare». La casa è pietra ed è Chiesa, fisicamente è odore di cera: «…qui/dove/il vuoto/brucia/dei/tuoi/silenzi/altri/si vive». Formidabile la tenuta poetica con una parola come verso. Le pietre appunto sono parole. Le pietre sono nomi. Le pietre edificano ma non sono edificanti. Noi siamo pietre scrive l’Adelaide poeta. Più e più volte richiama le pietre nella luce. Non sono opache. Sono anch’esse le cifre del mistero:«…zero/così più chiaro è/l’uno/la cifra e il suo mistero» (op. cit., pag. 18). Nessuna ansia di dimostrare in lei e in chi qui le scrive, ma scioltezza pietrosa, delicato ossimoro, di mostrare il mistero. Certamente solo la parola poetica così tirata lungo il filo dell’arco può scoccare la fiamma, la freccia sulla volta del mistero che ci avvolge e ci coinvolge. E’ qui la vita che viene, direi parafrasando il titolo della seconda raccolta di versi di Adelaide, nella relazione con l’altro e con l’Altro. Con gli altri. Profonda come un silenzio romanico è la ferita donde sgorga questo canto.
