Alla foce del Liscia, poesie di Meeten Nasr.
Mi chiamo Meeten Nasr e sono un poeta non espressamente dialettale ma neppure consolidato nella lingua italiana (cioè con frequenti trasfusioni europee e simpatie orientaleggianti). Ho da pochi mesi pubblicato presso l’editore “La Vita Felice” di Milano una autoantologia delle mie poesie (nell’ambito temporale che va dal 1982 al 2014) che si intitola “Scorre il giovane tempo”.
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ALLA FOCE DEL LISCIA
Ho camminato calcando erbe taglienti,
punto dai cardi e da schegge di conchiglia.
Mi arresta questo rivo. Qui la vita
si regola col sole, con le stelle. Là nessuno
conosce tempi e segni. Vagabonde
divinità frequentano i canneti,
appaiono e scompaiono. L’infosso
ci ripara dai venti e non c’è guado.
Qui è finito il mio viaggio. Mi distendo
accanto al Liscia che torna nel suo mare.
Tu che sei stato nuvola nel cielo,
pioggia poi nei valloni e nelle forre,
che hai vissuto il destino d’esser fiume
sonoro fra le ghiaie, qui divieni
laguna per gli aironi e regredisci
a stagno fra le canne. Poi sospinto
da pulsioni tortuose t’intrometti,
a forza in questo solco e trovi
l’onda che batte e ti dissolve ma egualmente
qui giungi amato. E la salsedine t’accoglie.
***
GLICINE, MERLO.
Da tempo sormontando l’alto muro
dell’ospedale un getto di corolle
sciorinava l’azzurro, s’appellava ed era
glicine conscia del mio sguardo. Nere
penne distende un merlo che risvola
verso aiuole solinghe e ci saluta,
umani noi troppo umani. Due letizie
tracciano l’arco che ci accoglie, segno
del nostro indenne transito e la vita
d’ogni organismo qui vedi e qui abbandoni,
foglia staccata, impronunciate sillabe, splendore.
***
IL CORVO
Sfarfallìo di penne sull’armadio
in camera da letto. Quante volte
di notte sillabando alla mia immagine
allo specchio insistente mi chiedevo
se il tempo che trascorre, il martellare
dei clacson, dei motori, quel brusìo
degli umani fra strepiti e sirene
di ambulanze alla fine per forza
avrebbero prevalso costringendo
noi sulle soglie di tanta nullità.
“Giammai!” gracchiava allora il corvo.
Dunque addio, mio io, nuvola passeggera,
lascia l’asilo del mio corpo, spenta voce,
sciogliti al far dell’alba, nero abbaglio.
***
LUCCIOLE
Mehr Licht, mehr Licht!
(Goethe, morente)
La luce, che cos’è? Rispondo ricordando
quando alla stazione del metrò di Lanza
eri discesa dall’auto sorridendo
tu col tuo amico e all’improvviso
tutto era apparso vuoto, un po’ più scuro,
grigia fuori Milano oltre i cristalli
impolverati. Ed ecco ti allontani
sotto l’ombra dei tigli nel viale.
Fossi tornato in quel luogo a tarda sera
avrei visto ancora lucciole fra i rami
segnalare abbagliate il tuo passaggio.
Ho conservato solo l’oro del tuo sguardo
come antidoto alla vita che mi aggrava
e luce, ancor più luce, da te attendo.

Piaciute!