Nel paese di Franco Arminio, di Paolo Gera

Nel paese di Franco Arminio, di Paolo Gera.
Comunicazione necessaria su “Cedi la strada agli alberi” di Franco Arminio, Chiarelettere Editore, Milano 2017.

    

    

Non sono mai stato a Bisaccia, 885 metri sul livello del mare, 3883 abitanti, compreso Franco Arminio.

I mio paese si chiama Tassarolo. Non c’è nemmeno una vera piazza. Tra la chiesa di San Nicolao e il cortile d’ingresso del Castello sussiste un quadrilatero, parcheggio di auto davanti ai cancelletti delle abitazioni tutte squadrate. Le auto sono i cani da guardia dei proprietari e basta scostare la tendina da dentro casa per vederle accucciate e pacifiche. Se qualcuno si avvicina troppo abbaia l’antifurto.
C’è una sola lunghissima via che porta dalla valle dove proliferano le acacie al cimitero e alle colline dove si coltivano le viti. Io non so neppure come si chiama questa via. A lisca di pesce si succedono i vicoli e ognuno di loro non è indicato da un nome di eroe o da una data storica, ma la targa in marmo là in alto reca il nome di una famiglia del paese, come quelle che segnano i lotti del cimitero. La stanzialità assoluta, dalla culla alla tomba.
Il mio vicolo è ripido, con gli scalini scassati e le pietre, con un lusso di vegetazione infestante e una dozzina di gatti rachitici. Mi somiglia. In fondo, incassata di lato, c’è la mia piccola casa dove ora sta mia sorella che ha 75 anni ed aiuta al bar del paese, ma non porta più le sottane nere come faceva la minuscola nonna dei miei sei anni. Più in là c’è un pozzo prima a cielo aperto, poi chiuso e automatizzato, ora nascosto e inaccessibile. Tassarolo si estende tra un campo di golf da 18 buche e la Società di Mutuo Soccorso dove a Ferragosto si organizzano ancora le serate danzanti. Tassarolo è sull’ultimo lembo di Monferrato prima dell’Appennino Ligure. E’ un feudo degli Spinola genovesi, con il loro castello divenuto bed and breakfast. Un’amica di mia sorella, dunque contadina e poi operaia, ha sposato l’ultimo marchese, ma ora è morta. Nelle stalle e nei granai del maniero ci sono cianfrusaglie arrugginite, vecchi tini avvolti da ragnatele, lo scheletro bianco di una 500. 500 sono gli abitanti del paese, tanti quanti allora. In calzoncini giocavo a pallone, sotto il sole cocente al campo sportivo, dove si faceva fatica a mettere insieme 11 contro 11 per la partita giubilare fra giovani e vecchi.
Io non torno più al mio paese d’origine. Se ci vado mi fermo soltanto in vicolo Gera dove ho quella casa che non vale niente o al cimitero dove sono sepolti tutti i Gera e i Bergaglio e il loro interrato ha il valore inestimabile di ogni vita resa prima della scadenza e ogni vita è, a mio avviso, resa prima della scadenza, in rapporto al nulla nero e vuoto in cui si infila, figuriamoci quella di un fratellino di due anni o di una nipote di quarantacinque.
Tassarolo, provincia di Alessandria, 250 metri sul livello del mare.

Chissà come sarà Bisaccia, il paese irpino dove è nato e vive Franco Arminio?
Io le mie radici stolonifere le ho trascinate un po’ in giro per l’Italia e sovente le uso per flagellarmi. Le radici di Arminio sono quelle di un noce o di un albero centrale che il paese ingloba:

Il tiglio di Rocca San Felice
non è al centro della piazza,
è la piazza stessa.
Fuori dalla sua ombra
il paese è già periferia.
( p.41) 

La radice è l’attrazione viva per ciò che sale dal profondo:

Io da te voglio la lingua,
ma non quella che dice,
voglio la lingua
che sale dalla terra,
che è radice.
(p.102) 

La radice è le ferita dell’esistenza ereditata dalla prima madre e non rimarginata dai luoghi. E’ il segno dell’irreparabile crollo del paese e dell’uomo:

Sono qui che lavoro contro il mio destino,
contro mia madre,
contro la noce scura in cui mi ha concepito.
Sono diventato uno che dice,
resterà sempre una crepa
la mia radice.
(p.133) 

Bisaccia è esattamente al centro del Sud in una zolla di Campania, ai confini fra Puglia e Basilicata.
Sono diventato l’omino giallo di Google Maps che ha reso tridimensionale la mappa. Ho sentito la solidità virtuale delle case e della cattedrale. Bisaccia è stata colpita dal terremoto del novembre 1980: 2914 morti in Irpinia, non so se ricordate. Altri terremoti sono sopravvenuti: conta sempre l’ultimo, quello che fa notizia col suo botto, non è vero? Un giorno mi piacerebbe andarci, a Bisaccia e soggiornare al “ Grillo d’oro” che un tempo, non so ora, era gestito dalla famiglia Arminio. Per ora è bellissimo entrarci e risalirlo il paese avendo come guida il libro di poesie “ Cedi la strada agli alberi”.

Prendi un angolo del tuo paese
e fallo sacro,
vai a fargli visita prima di partire
e quando torni.
Stai molto di più all’aria aperta.
Ascolta un anziano, lascia che parli della sua vita.
Leggi poesie ad alta voce.
Esprimi ammirazione per qualcuno.
Esci all’alba ogni tanto.
Passa un po’ di tempo vicino a un animale,
prova a sentire il mondo
con gli occhi di una mosca,
con le zampe di un cane.
(p.22)

I luoghi per Arminio non possono prescindere dall’aura che riescono ad evocare e a disegnare, non uno sbiadito acquarello da turista, ma una consistenza spessa che si lega a pratiche quotidiane, ad abitudini che consacrano lo spazio, a un sentimento panico in cui il passo della vita diventa lento e regolare e in cui sono le bestie sorelle a insegnare all’uomo la cadenza del respiro.
“J’ai embrassé l’aube d’été.(…) En haut de la route, près d’un bois des lauriers, je l’ai entourée avec ses voiles amassés, et j’ai senti un peu son immense corps”. Rimbaud già lo evocava: bisogna darsi il compito quasi impossibile di unirsi al corpo del mondo, all’alba come a una donna amata. I tempi cosmici e delle stagioni riempiono il cuore dell’uomo. Il valore inestimabile del paese è il suo insegnare un antico ritmo che in questi tempi sprecati nella fretta andrebbe recuperato nella sua integrità. Questione di vita o di morte.
Certi poeti hano il dono raro di sanare dunque la frattura esistente fra il soggetto e il mondo, il corpo apre i suoi confini, l’esistenza individuale diventa indistinguibile da quella collettiva e dai fenomeni naturali. E’ una poesia antica che parte da Esiodo, da Lucrezio sino a Giuseppe Ungaretti che Franco Arminio richiama quando scrive: “venticinque anni dopo il terremoto,/dei morti sarà rimasto poco,/dei vivi ancora meno”(p.31) o ancora “ E poi arriva uno sguardo,/un urlo in cui il mondo/si scuce, ti guarda da dentro/e non ti riconosce. Allora senti/che non c’è accordo con nessuno”(p.42) Il peccato mortale è quando non ci si sente più in armonia, quando non ci si riconosce più come docile fibra dell’universo, come ha scritto in versi assoluti Ungaretti. Il Carso si rispecchia nelle argille di Bisaccia e la forza identificativa che lega l’uomo alla propria terra si spinge nell’intenzione metaforica ad identificare il corpo come terreno aperto, incolto, periferico, ma anche libero e fertile:

Anche senza di te mi sento fragile,
sento il mio corpo aperto,
sgretolato.
Ho un corpo senza muri,
come un campo di grano,
un corpo senza cancelli e senza chiave,
un corpo steso al vento;
dentro ci pisciano i cani,
strisciano i vermi,
si perdono gli umani.
(p.130)

La sineddoche illustra in tono colloquiale la preoccupante desolazione dei luoghi: “Certi paesi diventano come quei bar/ In cui campeggiano, in polverose bacheche di vetro/vecchie merendine: i clienti se ne vanno altrove / e il barista non rinnova la merce.” ( p.25).
La congiunzione tra la marginalità suturale di un corpo preso in prestito e quella dell’ubicazione geografica assume un significato antropologico profondissimo già nel titolo della prima sezione di poesie della raccolta, “ L’entroterra degli occhi”. L’entroterra degli occhi è accettare l’amara eredità delle origini, della famiglia e del paese, dell’angoscia materna e della miseria atavica. Scrivere poesia è accettare questa negatività e far scaturire dal buio parole di consolazione e di lotta. Quello che gli occhi vedono fuori è il disegno suggestivo che compone l’arazzo, ma nel loro entroterra si percepiscono i nodi e gli intrecci che il filo ha formato sotto il telaio: è quello in effetti il paesaggio tormentato, sono quelli i segni di una vita complicata che non si può far altro che accettare, anche se la rassegnazione esistenziale si proietta subito in una ferma presa di posizione ideologica e in proposte per il futuro.
La tecnica di Arminio non può essere definita come ‘correlativo oggettivo’ perché non esiste separazione tra il poeta e un segnale rispecchiante da ritrovare nella natura. Il processo è continuamente metamorfico, intrecciato, panico. A costituire l’identità del poeta è la frana dei calanchi, è il soffio del vento, le mucche al pascolo, i migranti partiti per il Belgio e gli uomini rimasti. E’ il paese.

Riabitare i paesi non è questione di soldi. I soldi servono a farli pù brutti, a disanimarli. Per riabitare i paesi servono piccoli miracoli, miracoli talmente piccoli che li possono fare uomini qualunque, quelli che vediamo in piazza, quelli a cui non chiediamo niente, quelli che ci sembrano perduti. Per riabitare i paesi bisogna credere ai ragazziche sono rimasti e a quelli che potrebbero tornare: abbiamo mai chiesto a qualcuno veramente se vuole tornare? Per riabitare i paesi ci vuole una nuova religione, la religione dei luoghi. Ecco il punto, la questione non è economica, ma teologica. ( p. 29) 

Al tasso di disoccupazione giovanile, all’oscillazione dello spread, ai richiami della Bce sui bilanci da far quadrare, Arminio risponde clamorosamente con una nuova esigenza di sacralità. C’è un mondo ancestrale che potrebbe ripresentarsi con tutta la sua forza perché include categorie quali la lentezza, la comunanza fisica, lo sguardo attento, addirittura la desolazione – oh, ma la desolazione non è tanto più vicino al nucleo dell’esistenza di quanto lo siano oggi le nostre fughe adrenaliniche? – da far reagire contro la società rapida e liquida della Rete. Se Pasolini – a cui Arminio scrive una lettera sotto forma di poesia – denunciava già negli anni Sessanta la devastante crisi antropologica della società italiana senza voler suggerire nulla per arrestarne l’avanzata, Arminio propone la soluzione provocatoria della vita nomade in una federazione di paesi, dove si ha tutto perché non si ha niente e dove si può partecipare ad una continua e naturale festa mobile.

Io, per esempio, adesso abito in un paese che va dal Pollino alla Maiella. Sono un ricco possidente, ho case e terreni in ogni paese che attraverso e ogni giorno, appena posso, mi fermo all’aria aperta, faccio festa.
(p.29)

In questa rivendicazione di appartenenza l’orgoglio non può essere trattenuto e l’iperbole raggiunge livelli cosmici:

La Lucania non è una regione,
è un riassunto del sistema solare:
c’è la Luna ad Aliano nei calanchi,
Saturno sotto il Vulture,
Marte a Pietrapertosa,
Giove sul Pollino.
(p.43) 

Sotto l’influenza di questi pianeti tanto prossimi da diventare paesi e campagne, si materializza il sentimento e il riconoscimento della passione sembra ravvivare un senso di appartenenza dimenticato, dopo lunghi anni passati in un’odissea nello spazio:

La prima volta non fu quando ci spogliammo
ma qualche giorno prima,
mentre parlavi sotto un albero.
Sentivo zone lontane del mio corpo
che tornavano a casa.
(p.61)

La seconda sezione aperta da questa poesia è “ Brevità dell’amore”, ma il titolo più che evocare una connotazione negativa dell’esperienza erotica, ne concentra l’intensità e rivela una forma di stupefazione di fronte alla sua deflagrante possibilità. Puttosto ancora in queste poesie legate alla terra, la sociologia e l’antropologia più remota trovano contatto: si riscopre l’origine tellurica dell’amore, la sua necessità primordiale. Nel “ Simposio” di Platone la sacerdotessa Diotima racconta come Eros sia nato da Poros, l’espediente, e da Penia, la povertà. Espediente e povertà : ho come l’impressione che nei luoghi marginali del mondo l’incontro tra un uomo e una donna siano più forti e necessari, che i portoni e i giacigli d’occasione siano benedetti da Eros più che le stanze superaccessoriate e le Jacuzzi di un hotel 5 stelle. L’amore dei ragazzi è l’amore dei poveri. Attraverso queste coordinate, adolescenziali e mitiche, l’amore assume un’ energia immensa. L’incertezza, la mancanza, la provvisorietà delle relazioni incidono per contrasto, al momento dell’incontro, una segnatura fossile; l’attrazione di un attimo ha una forza tanto sconvolgente da penetrare nel corpo, nello scheletro:

Oggi stavi nel mio sangue
e io me ne accorgevo
ogni volta che il sangue
entrava dentro il cuore.
Oggi stavi nelle ossa.
C’era un vago, minerale
sentore di te
nella testa dell’omero,
nella fossa dell’anca.
(p.64) 

Affiora uno stupore primitivo e intimo che è la riscoperta profonda del corpo dell’altro e anche in questa attitudine è presente un gesto rivoluzionario che contesta l’esposizione merceologica della pelle e della carne da parte dei mass-media. Le forme femminili fragili e minuscole, rivelano immensi tesori di bellezza e ancora diventa vibrante il rispecchiamento tra strutture fisiche e meraviglie naturali e architettoniche:

Le braccia lunghe, le ossa come piume,
i seni piccoli come isole di un fiume,
pallida, sempre un po’dolente e schiva,
non potevo immaginare all’interno
la sala degli affreschi così viva.
( p.65) 

Gotica all’interno,
le braccia lunghe come le navate.
Inaccessibili le guglie
della tua tranquillità.
(p.74) 

L’amore degli uomini, benedetto da Persefone, diventa lungo come una stagione, la necessità supera la contingenza, il sedile di un auto si ribalta nella festa rinnovata della natura:

Non me lo scordo
il tuo sesso profondo
come un fiordo.
L’ultima volta
l’abbiamo fatto in macchina
sul sedile posteriore.
Abbiamo cominciato a marzo
che il grano era basso
e abbiamo finito a maggio
quando è alto come il cuore.
(p.73)

Caro Franco, la parte dove ho riconosciuto davvero il tuo paese come il mio è “Poeta come famiglia” e quei luoghi li ho sentiti simili perché erano velati nei miei occhi da un piccolo pianto che non voleva uscirsene fuori. Scrivere poesia è pericoloso, tu dici, e non vale la pena scrivere se non si è vicini al limite e quello delle origini e della fine franano rovinosamente dallo stesso lato. Anch’io scrivo perché mia madre mi ha svezzato con la sua ansia e là in alto , sulla polpa del braccio, vicino alle spalle su cui mai ha posato le mani mio padre, accanto al bollo del vaccino c’è un segno più profondo che non si può cancellare.

Navigo sulle argille
di vecchie paure,
da fuori sembrano sano,
ma all’interno ogni giorno
dentro il mio corpo frano.
I demoni tirano
dal basso, sono tutta
creta, neppure una pianta,
neppure un sasso.
(p.120) 

Ringrazio mio padre
per il malumore,
mia madre per l’ansia,
il mio paese per la neve e il vento,
ringrazio uno per uno
tutti i disamori,
ringrazio i rancorosi,
gli scoraggiatori militanti,
ringrazio i morti,
gli ammalati,
i malestanti.
(p.121)

È così che si diventa poeti. Per necessità di opposizione ad un dolore ereditario e alla paura troppo forte della morte, visto che un poeta non fugge da lei, ma la va a fissare ogni giorno. Sono d’accordo come scrivi tu che il poeta sia un preuomo. Cosa siamo? Albatri, stranieri, esuli, come scriveva Baudelaire? E i veri uomini come ci guardano, come ci considerano? Ma tu hai la disarmante e sincera capacità di delineare per la scrittura un percorso complicato, ma ineludibile. Indichi, come già intendeva Foscolo, un’idea di protezione e di vigilanza assidua nei confronti delle illusioni rimaste che fanno da argine alla brutalità della vita, piccole sacre fiammelle da custodire, piccole bestiole da accarezzare, luoghi da consacrare a una nuova religione, fili d’erba intorno a cui concedersi un giorno di vacanza.

Pensa che si muore
e che prima di morire tutti hanno diritto
a un attimo di bene.
Ascolta con clemenza.
Guarda con ammirazione le volpi,
le poiane, il vento, il grano.
Impara a chinarti su un mendicante,
coltiva il tuo rigore e lotta
fino a rimanere senza fiato.
Non limitarti a galleggiare,
scendi verso il fondo
anche a rischio di annegare.
Sorridi di questa umanità
che si aggroviglia su se stessa.
Cedi la strada agli alberi.
(p.7)

Così sono tornato all’inizio del paese e all’entroterra degli occhi. Immagino ci possa essere un cantastorie o Rocco Scotellaro, ad aspettare me e la piccola folla che si è radunata per ascoltare le sue parole. Sul palco la fisionomia di Scotellaro diventa quella di Arminio e la poesia lascia spazio ad una prosa finale che protesta, rivendica, propone. Una concezione così fortemente organica dell’esistenza e della scrittura non può che porsi in aperto contrasto con l’evoluzione della letteratura e dell’espressione delle sue testimonianze in senso virtuale. L’arroccamento dei blog, la vocazione assertiva più che comunicativa dei profili degli scrittori, preoccupa chi come Arminio porta avanti la sua battaglia sull’importanza delle relazioni a distanza ravvicinata, sull’intreccio di voci e di mani tipiche degli agglomerati di paese. Oggi sul Web impera questo tipo di paradosso: per creare comunità i partecipanti devono essere lontani, per creare densità devono essere rarefatti. Le nuvole che racchiudono i nostri piccoli archivi informatici sono segni innaturali di una condizione che nel momento in cui vuole aprirsi chiude e separa. I gruppi e gli individui sono più preoccupati di realizzare un’insegna identitaria e infine pubblicitaria, piuttosto che uno spazio realmente condivisibile di pensieri, parole ed esperienze. Viviamo in tempo di emergenza, tutti lo capiamo.Ma un tempo dal mare nei momenti di pericolo mortale si lanciavano Sos , save our souls,e l’intervento di salvataggio doveva por forza di cose essere comunitario; oggi nell’etere il messaggio ripetuto e accessorio è un Sms con obbligo di faccine: qualcuno si è accorto che Sms potrebbe significare save my soul, salva solo ed esclusivamente la mia anima? Presenziamo una confortante zattera su cui far spiccare il nostro individualismo, I-phone in mano al posto di uno straccio bianco. A queste immagini sono spinto dallo spietato spirito metaforico che apre l’ultima sezione del libro di Franco Arminio, “La poesia al tempo della Rete”. Si tratta di una lucida, sincera, appassionata analisi dello stato delle cose e i dieci scritti in prosa che la formano assurgono ad una specie di manifesto ideologico estremamente necessario che sottoscrivo con tutta l’amara passione di cui sono capace.

Una volta c’era la letteratura e poi c’erano gli scrittori. Immaginate un mare con i pesci dentro. Adesso ci sono solo i pesci, tanti, di tutte le taglie, ma il mare è come se fosse sparito. È successo in poco tempo, e non ce l’ha comunicato un esperto. Ce ne siamo accorti incontrando un poeta da vicino, parlando con un narratore al telefono. Abbiamo sentito che qualcosa non c’era più. Ognuno ha i suoi libri, e sue parole, sono sparite le strade che mettevano in comunicazione uno scrittore con l’altro, tra chi muore e chi vive non c’è alcuna differenza, non c’è differenza tra chi lotta e chi è vile.
Oggi tra gli scrittori regna una pacata indifferenza e lo spazio vuoto che c’è tra quelli che scrivono accresce lo spazio tra chi scrive e chi legge. La letteratura è una barca che ha fatto naufragio e ognuno coi suoi libri lancia segnali di avvistamento che nessuno raccoglie perché ognuno è impegnato a farsi avvistare.
Le voci non si sommano e non spiccano. La letteratura fa pensare a un’arancia virtuale: a ciascuno il suo spicchio, ma dov’è il succo?
(p.141)

Da una parte i poeti non hanno che “un mucchietto di neve/in un mondo col sale in mano” (p.139)ma se ognuno di noi portasse il suo pugno nell’entroterra, alla fine si potrebbe costruire un paese di neve solida e ben assestata. Le nuvole sarebbero quelle condensate dal fiato, perché finalmente si tornerebbe a parlare uno di fronte all’altro col proprio corpo presente. Abitare un paese dove scrivere significherebbe veramente “gettare scompiglio nella parata”(p.145) e dove, tirate via le maschere, si potrebbe finalmente tornare a guardarci negli occhi, ad abbracciarci e poi a marciare verso una meta comune.

     

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in apertura Hill and Adamson, “I bambini Finlay”, 1843-47, Met Museum

 

 

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