Artigianato sentimentale di Gabriele Borgna, Puntoacapo Editrice, 2017, una lettura di Fabrizio Bregoli.
Per approcciare correttamente questo primo lavoro d’esordio del giovane poeta Gabriele Borgna è necessario sicuramente, come nota egregiamente nella sua prefazione Giuseppe Conte, riferirsi ai modelli poetici, per nulla adombrati, che sono in un qualche modo il battito sotterraneo che percorre questi suoi versi, modelli dai quali sa prendere le mosse nel solco d’una tradizione consolidata ed orgogliosamente rivendicata, senza però esserne in alcun modo imitatore od epigone, ma colorandoli di una luce ed una personalità propria. Ci riferiamo naturalmente agli Sbarbaro, ai Montale, ai Caproni e forse ancora di più, come fa correttamente notare Giuseppe Conte, a Vivaldi, poeta talmente discreto e garbato al punto da correre oggi il rischio di essere troppo presto dimenticato, quel garbo che mi sento di poter dire essere proprio anche di Gabriele. Ed in comune con questi autori c’è senz’altro il sostrato naturale che permea la poesia di Gabriele, con il mare come fulcro attorno a cui viene costruita una mappa conoscitiva e poetica che trova nel rapporto fra uomo e cosmo il nesso necessario al verso.
Fin dal titolo dell’opera è chiarissimo il messaggio che l’autore ci vuole trasmettere: la scelta del termine “artigianato” rimanda da subito alla coscienza del fare poesia come impegno e scavo interiore: del resto è evidente il lavoro di concentrazione di significato e sottrazione che ha portato alcuni testi ad essere realmente essenziali ed icastici (si veda La pazienza di Piero), così come colpisce la compattezza dell’architettura del libro, qualità spesso assente in un libro d’esordio. Vero è che talvolta si intuisce come alcuni testi siano probabilmente più lontani nella loro genesi e forse più ingenui (ad esempio Non ci indurre), ma credo in ogni caso credibili come testimonianza di un percorso, di un preciso istante di verità poetica. Il riferimento a “sentimentale” credo sia una esplicita dichiarazione di poetica: la volontà di ricollegarsi ad una tradizione di poesia per così dire diretta, senza mascheramenti, che guardi al ganglio delle cose, forse perché la vera sfida è sapere fare poesia nel solco di una tradizione sapendola rinnovare dall’interno, con quei contributi di modernità e chiarezza di ispirazione che non qui mancano. La stessa scelta del verso libero è indubbiamente coraggiosa, perché obbliga l’autore, riuscendovi con sicurezza, a cercare un ritmo proprio che si regge su efficaci enjambement a sorpresa (si vedano eterno / flusso, infinite / architetture, deformi / riverberi) dove spesso è il senso della durata (dell’eterno si direbbe) a rimanere sospeso, a creare attesa, a campire nel silenzio. Sentimentale, ma – urge precisare – senza cadute nel sentimentalismo, un affiorare del cuore ma sempre con compostezza e moderazione, mai inutili eccessi.
Efficacissimo in tal senso il testo Al figlio che verrà, dove l’occasione manifesta della poesia non rende il testo celebrativo, ma fortemente personale e autentico, grazie anche ad inserti memorabili quali “rovescio del nulla” e “bene intraducibile”, a cui si unisce l’emergere di un linguaggio attualissimo soprattutto in quel “punto di fuga” che senza stridere, anzi arricchendo il testo, attinge a piene mani dal tecnico (dall’astrofisica per l’esattezza, ma non è l’unico caso: si veda anche “pianeta senz’orbita”). Credo che questo irrompere del “linguaggio” contemporaneo con la sua prosasticità o materialità (si vedano “teche d’ossidi / silicei “ di nuovo con una preziosa inarcatura, “estimo / dell’albero” , o ancora il torrente definito “sprecone” in un’affabile colloquialità) serva a stemperare il tono che rischierebbe di essere troppo lirico e quindi autoreferenziale, stemperare dicevo con concrete inserzioni di mondo, in modo tale che l’io si faccia altro da sé, possa quindi trasformarsi da personale in universale. C’è da auspicarsi che l’autore prosegua lungo questa strada, amplificandola e portandola a completa maturazione ed integrazione con questa sua particolare capacità di osservare il mondo.
Il grande protagonista di questa poesia è indubbiamente il paesaggio, presenza costante a cui raffrontarsi alla ricerca di un senso o per lo meno nel tentativo di lambirlo. Un paesaggio che spesso diventa specchio dell’anima, come sua immediata trasposizione di cui dare evidenza con il verso (si vedano “Disgelo” e “Ora bugiarda” con lo splendido “pungolo nel niente che mi resta”), il tutto con compostezza quasi classica, senza sbavature. Certe immagini si imprimono quindi nel lettore, si fanno ricordare e questo credo sia un altro elemento che consente di far individuare dove la poesia è effettivamente presente e non solo supposta (si vedano “fuochi di draghi”, “campo di croci”, il bellissimo azzardo con “cameratesco / pisciare” che dà un colore deciso al testo poetico, o “il dito accusatorio” del lampo quasi a ribadire questa dialettica uomo-cosmo). Questo sentimento sobrio ed autentico si evidenzia anche nei passaggi in cui diventa una sorta di rimprovero all’uomo tout-court, visto come specie che si alambicca nei falsi valori della modernità, dove il sentimento è un non-valore, perché sono ancora troppo presenti quelle “tracce di coda” quasi come retaggio darwiniano, o l’agonismo vacuo che può portare al più ad una “Medaglia di legno”, ad un “Simulacro” di bene. Anche avventurarsi su questi temi presenta il rischio di cadere nel sermone o nel moraleggiante, ma credo si riesca in realtà a mantenere un buon equilibrio ed i testi trovino il corretto amalgama del materiale poetico.
Non poteva quindi esservi finale più azzeccato dell’ultimo verso sorprendente “non si impagliano le stelle”, originalissimo e che grazie al realismo del verbo riesce a stemperare il sospetto del troppo sentenzioso (chiudere con la parola “stelle” è forse un riferimento affettuoso alla Commedia? Piace senz’altro pensarlo). Fra l’altro faccio notare la scelta coraggiosa della rima baciata “pelle/stelle” per nulla stucchevole ma in grado di amplificare la memorabilità della chiusa (e come non ricordare l’altro verso con “pelle d’aprile” dove l’inconsueta scelta del complemento che dà il senso esatto delle cose, senza svelarlo, è già segno di una maturità poetica originale). La scelta della rima baciata sembra quasi essere deliberata a voler ribadire la rivendicazione della tradizione poetica, nella sua forma più elementare e forse frusta – ma qui rivitalizzata in un’osmosi salutare -, quasi a voler dire che ancora si può scrivere l’essenziale, senza vane visionarietà e deliqui, ma con l’umiltà di un “Artigianato sentimentale”, con un “piccolo libro” come ama definirlo – con il suo posato ed encomiabile under-statement – l’autore.
Immagine di testata: La mia giacca (particolare), opera di Leonardo Lucchi.