Balada Incivile, Tartufi e Arlechini di Renzo Favaron, L’Arcolaio ed., 2015, recensione di Alberto Mori.
Nell’ultimo libro di Renzo Favaron Balada Incivile, Tartufi e Arlechini, assistiamo ad un vero e proprio riorientamento del tempo e dello spazio dell’autore.
Siamo nel Nord Est della sua anima ed egli si incammina chiedendosi che cosa può lasciare e che cosa può portare via con sè:”Senza perdere di vista la luce che fa l’ombra uguale al corpo” poiché non è più tempo di indugio perché per raggiungere l’altra riva bisogna fare tomba di rimpianti ed è chiaramente finito anche il pronto soccorso delle metafore di poesia.
Renzo Favaron pensa alla sua storia in dialetto ed il fluire del dialetto veneto ha suono più malleato e malleabile all’ascolto di quello italiano più economico e concentrato sulla resa essenziale delle azioni solitarie del poeta finchè: ”Non sono che il rosso vivo della sigaretta” e la scomparsa ed il nulla coincidono con la mera presenza.
Allora, talvolta, è ancora la musica a visitare il silenzio oppure la semplice richiesta di ancora un minuto per qualcosa di non ben precisato, ma ancora indicibilmente vivo…
La Balada Incivile che occupa la seconda parte del libro, dispiega maggiormente i ricordi, fin quasi a diventare un controcanto dell’esistenza ed a raggiungere la Ballata delle chiacchere di F.Villon dove il mondo giostra davanti al ritmo caleidoscopico della conoscenza che con le sue apparenze divenute evidenze acquisite dall’esperienza alla fine cancella la nostra soggettività sempre più opaca.Intanto il poeta non si è arreso:
Vuole andare ancora, camminare, sentire anche il peso di ricadere su sè stesso.Il peso gravitazionale avvertito da tutta una generazione libertaria che si è affratellata con tutti, ma poi non ha più trovato nessuno accanto ed è dunque ancora assai pertinente che questa “inciviltà” fuori dal tempo sia comunicata: “A chi per non muovere un dito si nasconde dietro un pretesto”.
Balada Incivile, Tartufi e Arlechini con la testimonianza del suo autore ed anche attraverso la paradossalità di non essere mai, emana l’odore di un senso più chiaro, che sveglia, prende cura di sè in un mondo “di tartufi e arlechini” infurbito di immagini inconsistenti ed è coscienza di poesia, di partecipazione al vivente della memoria:
Quel “Un po’ di me” annunciato all’inizio dal poeta, a fine lettura è trascorso fra “altre comparse e presenze” ed è divenuto estensibile al valore che ogni esistenza porta con sè.