BATICÒR.
Racconto di ADRIANA TASIN
Il signor G era un uomo modesto: un numero ragionevole e contenuto di capi, due giacche e un solo cappotto nell’armadio era tutto il suo guardaroba.
La cosa curiosa, però, era che anche in piena estate si recava al lavoro ben coperto come se, anziché attraversare la città per raggiungere la ditta Conservazioni Carni La Fresca Fattoria, stesse attraversando la steppa nel pieno dei rigori invernali di gennaio. Il collo chiuso nel bavero, le braccia conserte e le dita magre e intorpidite a stringere il cappotto, la testa calva a sporgere, quasi intimidita, se non fosse stato per gli occhi spalancati in cerca di luce.
Tutto questo perché, lavorando spesso all’interno di una cella frigorifera, si rendeva necessario coprirsi bene. La seconda ragione era una sorta di batticuore.
Il suo battito era talmente rumoroso che non c’era modo di fare due passi e incontrare qualcuno che subito si scatenava una curiosità morbosa attorno a lui per quanto la sua cassa toracica sembrava una grancassa.
«Un battito irragionevole», così aveva detto il dottore, che non sapeva spiegarsi il perché di quel battito tanto anomalo.
Il cappotto attutiva parecchio il rumore smorzandolo in fondo al petto, e al signor G questa cosa piaceva. Tenersi la vibrazione dentro, tremare tutto, aveva confessato a un collega, gli dava l’impressione che fosse una sorta di memoria del ritmo universale da conservare con cura.
Scendendo lungo il viale alberato che conduceva al suo luogo di lavoro, il signor G alzava gli occhi al cielo inondato di luce, in direzione delle chiome verdi dei tigli tra cui risuonava il canto dei passeri, e si chiedeva perché mai lui dovesse trascorrere la maggior parte della sua vita in un interrato gelido, al buio a maneggiare animali morti. Lavoro che non poteva lasciare per via dei debiti accumulati a causa della ristrutturazione della casa lesa dall’ultima scossa tellurica di quella terra ballerina.
Il suo respiro era breve, la frequenza alta, come se battito e respiro fossero spinti a un limite di disarmonia insopprimibile e allo stesso tempo insopportabile.
Era quello il momento della giornata che parlava di lui con maggiore intensità, ma era convinto che a nessuno importasse.
Passava da Via Nazionale ogni giorno, più o meno alla stessa ora, quando la signorina D, avendo terminato di sgomberare il tavolo dalla colazione, si affacciava alla finestra della cucina e si fumava una sigaretta in santa pace.
Il sole si alzava lentamente sul cornicione di fronte, sui panni stesi del dirimpettaio, e intanto dalla strada provenivano i rumori delle serrande che si alzavano e dello sferragliare dei tram.
Appoggiata al davanzale seguiva con gli occhi il signor G fino in fondo al viale, fino a quando scompariva oltre il cancello della ditta in cui lavorava. La signorina D pensava che in quei movimenti delle gambe e del capo di G, e in quel suo cercare di catturare l’invisibile tra gli alberi, ci fosse poesia, tanto che lì per lì buttava giù dei versi su foglietti di fortuna per poi appallottolarli e lanciarli giù dal terzo piano, senza preoccuparsi minimamente di dove andassero a finire.
Lo studente T, magro e allampanato, con un ciuffo che ricadeva a coprire parte del viso, passava sempre di lì cinque minuti dopo, trovava le palline di carta, le dispiegava, e si chiedeva chi avesse scritto quei versi, a tratti incomprensibili, che però descrivevano così bene la persona a cui erano evidentemente dedicati.
In un arco di tempo indefinibile, ma costante, T aveva incollato i fogli a una parete di casa sua. Come foglie. E se ne compiaceva, il ragazzo, perché coprivano le macchie di muffa ma soprattutto avevano trasformato una parete anonima in una parete creativa. Per questo pensava già a un’intera stanza poetica.
Nel varcare il cancello del luogo di lavoro – Conservazioni Carni La Fresca Fattoria – il signor G, ignaro di tutto ciò che avveniva sistematicamente da mesi alle sue spalle, quel giorno si sentì perdutamente solo.
Prima di calarsi definitivamente negli interrati, si attardò sulla porta, lo sguardo perso a vagare e divagare sulla vita; quindi estrasse il berretto dalla tasca sinistra, lo indossò calandolo bene sulla fronte e si decise a entrare con una certa riluttanza.
Mentre stava scendendo in profondità avvertì il solito gelo e s’interrogò sull’illogica logica mondiale di riscaldare mezzo pianeta e contemporaneamente raffreddarne la restante metà con impianti termici, per giunta obsoleti. Quasi ci fosse la volontà da parte dei governanti di dirigersi verso un futuro abbagliante e dall’altra parte di voler congelare, imbustare il passato, conservarlo nell’oscurità di un magazzino.
Un pianeta che procedeva a passo divaricato; così pensò il signor G, con disperazione. E allora si mise a fischiettare, con variazioni melodiche, per sentire almeno il proprio fiato sgambettare anarchico nell’aria.
Qualche volta succedeva prodigiosamente che il suono incontrasse quello emesso a sua volta dal collega, un motivetto appena accennato tra le labbra.
Così accadde quel giorno. Alle 8:00 in punto, fischiettando La Vie en rose, il collega gli portò il primo bovino da pulire e sezionare. Quando fu solo, iniziò la solita procedura ma senza guanti: le mani erano l’unica parte nuda del corpo, i polpastrelli massaggiavano energicamente l’animale, lavandone via il sangue con un filo d’acqua corrente. Si sentiva il calore della bestia trasformarsi rapidamente in vapore. Una nebbia si diffuse nel locale e per un attimo al signor G sembrò di essere in una radura, ai margini di un lago, nell’istante in cui al levar del sole l’acqua della torba lascia la terra e tutto si fa incanto. Sentì il suo cuore rallentare e decise che poteva anche togliersi qualche indumento, tanto lì nessuno avrebbe sentito quel “battito irragionevole”. E così fece.
Dissanguamento, eviscerazione, taglio e spaccatura quel giorno risultarono particolarmente faticosi e il signor G ebbe l’impressione che qualcosa fosse diverso, qualcosa avesse infranto la metodicità di giorni tutti uguali.
Più tardi portò le mezzene nel tunnel per la refrigerazione e fece attenzione a non metterle una sull’altra, ché si raffreddassero a dovere. E intanto pensava che da molto tempo non riusciva più a mangiare carne e che nemmeno lo spezzatino domenicale proposto da sua madre gli risultava gustoso come una volta. Perché guardava le bestie negli occhi, e poi nel cuore, e in ogni fibra del loro essere. Massaggiare quelle carni era anche un tentativo di rianimarle. Vano, ma inevitabile. Fu così che, mentre stava chiudendo la pesante porta della cella, sentì un battito: netto, simile al suo, provenire dall’angolo destro. E un altro ancora, alla sua sinistra. E dietro la sua schiena, un altro ancora. Battiti che andarono a confondersi in un unico battito, sincrono al suo. Si lasciò scivolare sulle gambe e quando le ginocchia gli toccarono il viso e gli occhi bagnarono il grembiale sentì che il fiato era lungo e muto, l’aria era spazio universale abitato da molte creature.
Quella notte, entrò in ditta con il doppione delle chiavi che aveva preso di soppiatto nell’ufficio della segretaria, aprì la cella frigorifera e faticando caricò a spalla le mezzene che poi fece scivolare con cura sul cassone del suo pick-up verde.
Si diresse verso la periferia della città, tenendo stretto il volante, sotto un cielo stellato che gli rischiarava la strada. Respirava con affanno il signor G, tanto che la bocca spalancata sembrava occupargli tutto il viso.
Cadevano pezzi di luce dentro il buco nero della sua anima, tenuta troppo a lungo interrata, tra corpi morti.
Si dice che l’auto sia stata ritrovata sulle rive del lago fuori città, che ci fosse molta nebbia, e che per questo il ritrovamento non fu facile.
«Come se tutto il mondo si fosse messo a respirare, quel giorno» aveva commentato un sommozzatore, chiamato a ispezionare le acque del lago.
Si racconta che il signor G non sia mai tornato al lavoro e nessuno lo abbia più incontrato da allora.
In un primo tempo si era creduto che avesse venduto le mezzene e poi chissà, pentito, si fosse tolto la vita.
Ma alcune settimane dopo furono ritrovate le carcasse delle bestie protette dai suoi indumenti, sopra tutto quel tumulo il suo cappotto, ormai fradicio.
La signorina D continuò ad affacciarsi ogni giorno al davanzale con la sigaretta tra le labbra e lo sguardo fisso verso il fondo del viale. Rilasciava volute di fumo nell’aria ormai fredda dell’autunno.
Lo studente T, camminava adagio con i libri sottobraccio; con un’aria vagamente simile a quella del signor G. Come lui pareva non curarsi di ciò che avveniva intorno. Cercò per giorni e giorni palline di carta a terra, soffermandosi chino verso il selciato, finché si convinse che non ne avrebbe più trovate. Si sorprese, al contrario, quando raccolse un foglio ben disteso alla base di un tiglio.
Lo lesse. Si rese conto che i versi non parlavano di chissà chi, ma di lui. Si guardò intorno incuriosito ma non vide nessuno. Chiuse il foglio in pugno e lo lasciò cadere nella tasca della giacca.
Il collega di G stava passando in quel momento accanto a lui, si fermò, lo guardò come a scrutarlo, e gli disse:
«Ma perché non prendi tu il posto di G? Che ci fai sempre in biblioteca?»
Lo studente T allora lo guardò dritto negli occhi e con un gesto enfatico rispose:
«Mi mancherebbe il respiro» e poi proseguì «mancano troppi respiri lì sotto. Lo sai.»
«Che ti importa dei respiri?» disse il collega di G.
«Mi importa, mi importa… lì sotto – nell’interrato – non cade poesia, lì devi essere poesia.»
Allo sguardo interrogativo del collega di G, T aveva fatto un cenno con la mano, quasi a sviare il discorso.
Chiacchierando del più e del meno, avevano percorso l’intero viale alberato. La luce del mattino filtrava tra i palazzi rischiarando a strisce oblique il loro passaggio.
Proprio davanti alla ditta il collega di G gli aveva stretto in fretta la mano e aveva oltrepassato il cancello scrollando il capo con un turbamento che ben presto si sarebbe tramutato in malessere. Batticuore, si sarebbe detto poi.
Adriana Tasin (Tione di Trento, 1959) si è laureata in Scienze Naturali all’Università di Bologna e ha insegnato matematica e scienze a Madonna di Campiglio, dove tuttora vive. Si è dedicata alla scrittura in forma poliedrica ma solo negli ultimi anni ha focalizzato l’attenzione sulla produzione poetica ottenendo riscontri positivi anche in questo ambito, oltreché in ambito narrativo. Suoi testi appaiono in riviste, antologie e blog letterari.
Nel gennaio 2020 ha pubblicato la sua raccolta poetica d’esordio, Il gesto è compiuto, con Puntoacapo Editrice (Collezione Letteraria); l’opera ha ricevuto importanti riconoscimenti in molti premi letterari ed è risultata vincitrice al Premio Cecco D’Ascoli, Opera prima, 2020.
Con altre raccolte poetiche inedite ha ricevuto i seguenti riconoscimenti: menzione d’onore al Premio Lorenzo Montano 2020 e segnalazione al Premio Arcipelago Itaca 2020 per la raccolta “Ottoinfinito”, selezione Premio Europa in Versi 2021 per la raccolta “Specchio e Scudo”, secondo posto al Premio Arcore e finalista al Premio Arcipelago Itaca 2021 con la raccolta “F.R.I. fatti reali immaginati”.