BREAD AND ROSES : Perché scrivere sulle rose. Editoriale di Luca Mozzachiodi

BREAD AND ROSES : Perché scrivere sulle rose. Editoriale di Luca Mozzachiodi.

      

       

«La natura esordisce con l’uomo non meglio che con le altre sue creazioni: opera per lui quando ancora egli non può da sé come libera intelligenza. Eppure per ciò egli è uomo: perché non si ferma a quanto fece di lui la mera natura possedendo invece la capacità di muovere a ritroso con la ragione i passi che essa compì anticipatamente per lui, di trasformare l’opera della necessità in un’opera della propria libera scelta e di elevare la necessità fisica a quella morale» (F. Schiller) 

«La contraddizione fondamentale della società capitalistica, la contraddizione tra produzione sociale e appropriazione privata, rende allo scrittore borghese sempre meno trasparenti le forze reali che determinano il suo essere sociale: in superficie appaiono solo vicende e destini personali, immediatamente privati, e le forze sociali che agiscono sui destini privati e li determinano assumono per l’osservatore borghese una forma sempre più astratta, sempre più enigmatica» (G. Lukács)

      

I Da più parti e con cortesia crescente amici mi invitano a scrivere una prosa più distesa, una sorta di conversazione sulla poesia che senza arrivare alle asprezze concettuali del saggio ne conservi il rigore argomentativo. Avrai tu pure se scrivi, si pensa, qualcosa da confessare. Non è così semplice, spesso quando confessiamo in questo senso non confessiamo il vero, ma una falsa coscienza delle cose che prendiamo per vera soggettivamente, o costruiamo un ritratto di noi, un’immagine, un mito di sé come autore.

Tuttavia non sta bene negarsi così a lungo a richieste gentili e del resto un mio antico progetto, quello di scrivere una sorta di romanzo sulla formazione poetica destinato agli studenti giovanissimi, che purtroppo per ora è rimasto niente più che poche pagine intorno a un desiderio, si coniuga bene insieme a questa esigenza e al tema dei cosiddetti ozi letterari; prima occorre però qualche necessaria premessa per non smarrire il senso dei miei stessi ricordi mentre li vengo scrivendo.

Gli ozi letterari, come ogni studente appunto sa, derivano dall’idea di otium che fu propria della latinità: si trattava di un modello di vita, per dirla bene di un’ideologia fondata sulla separazione tra impegni pubblici e politici e affari (i negotia) e il tempo dedicato allo svago, alla cura di sé, alle arti e agli studi, significativamente visti come privi di un immediato risvolto pratico.

È inutile dire che si tratta di una concezione propria di una società aristocratica e schiavistica: la possibilità del patrizio o dell’arricchito di ritirarsi nella sua villa a scrivere e a studiare era garantita dalla presenza di una quantità enorme di strumenti umani trattati con fruste e bastoni, non dobbiamo dimenticarcene. Similmente stanno le cose in tutte le società di antico regime anche se alla gloria letteraria, mitologia prodotta da una società ristretta che garantisce un reciproco riconoscimento di classe ai suoi componenti ed è in rapporto diretto con gli ozi letterari, si affianca con lo sviluppo prima dei gruppi e delle corporazioni di artigiani e mercanti poi con il sorgere della società borghese una visione positiva e non avvilente dell’industria e del profitto e che anzi ingaggia una vera e propria lotta aperta con l’ideologia di retaggio aristocratico degli otia.

Prodotti più o meno diretti dei residui di un vecchio apparato ideologico che vengono a interagire con una nuova struttura sociale sono i vari simbolismi, gli elitismi da cenacolo letterario, gli estetismi e le concezioni dell’arte per l’arte. Una nuova aristocrazia che, magari povera in canna, si contrappone all’avanzata del capitalismo borghese e alla sua azione ordinatrice di strutture sociali, produttive e di valore in funzione di profitto. Parallelamente nasce la figura del letterato professionista, cioè per così dire non ozioso, che vive cioè della propria scrittura o di un’attività di produzione ideologica e culturale connessa in qualche modo al suo status di intellettuale: è l’epoca della nascita dell’editoria di massa, della scuola pubblica, dei grandi ministeri e degli uffici statali, luoghi dove in genere i letterati sono ottimamente integrati nella razionalità sociale del sistema capitalistico in sviluppo.

Non si tratta, è chiaro, di un’ascesa progressiva e ad una sola direzione: elementi di voluta marginalità, maledettismo, letteratura popolare o vagheggiamenti aristocratici e misterici continuano a sopravvivere e ne possiamo vedere esempi fino ad oggi, anche se spesso nei termini di uno scimmiottamento di bassa lega o di una specie di fossilizzazione culturale. Ammesso che la storia del mondo sia orientata, non va certo ad una identica velocità ovunque e sempre.

Ciò che però mi sembra assai più significativo è chiedersi come oggi, con i mutamenti radicali subiti dalle strutture della temporalità quotidiana e della stessa organizzazione del lavoro, dal precariato di massa a varie forme di deregolamentazione degli orari, al lavoro a chiamata, a tutte le ancora inesplorate forme di lavoro da casa che i computer e lo sviluppo dei social network hanno consentito e creato, la distinzione tra tempo libero (cioè tempo dell’otium) e tempo di lavoro paia sfumare e certo l’emergere ormai secolare e il progressivo raffinarsi fino agli altissimi livelli attuali dell’industria dell’intrattenimento (pensate a come qualsiasi algoritmo selettivo sulla base delle abitudini dell’utente possa produrre una realtà fantasmatica personalizzata) abbia reso da rileggere le pagine di Marx sul tempo libero nel Capitale.

Per quel che mi (che ci ) riguarda poi è ancora da notare come si viva in un’epoca di incertezze di definizioni e di mappe di orientamento da tracciare, a patto di tenere ancora le bussole giuste. L’opera letteraria non può più nascondere il suo statuto di merce e in molti casi nemmeno gli artisti intendono più farlo se non, Bourdieu docet, come strategia di acquisizione di capitale simbolico nel campo letterario: gli interessati opposti ai disinteressati, i puri opposti a quelli che tendono a un fine e così via.

Come ho detto entriamo qui in un terreno dove i sentieri battuti un po’ si perdono un po’ si confondono. Io non sono nemmeno del tutto certo che non ci siano, nella situazione attuale, elementi ulteriori da tenere in considerazione: molti di noi, si potrebbe dire, oziano nel senso borghese del termine, io sto oziando mentre scrivo queste pagine, l’intera redazione della rivista ozia così come molti di noi scrittori non pagati che svolgono quello che qualcuno ha chiamato (forse con una non necessaria intenzione nobilitante) volontariato culturale. Se però io tra un po’ di tempo pubblicassi un libro che include questo scritto, se la redazione ponesse un prezzo di lettura o simili staremmo a tutti gli effetti producendo una merce e questo non sarebbe più definibile ozio in senso stretto. Peraltro questo scritto può procurarmi prestigio (o farmene perdere) magari in termini di numero di visualizzazioni o di apertura di future collaborazioni, possiamo davvero dire che non ha nessuna delle caratteristiche della merce e io nessuna di quelle del produttore o dell’imprenditore?

Su queste domande chiudevo Le strade di Gerico fresco di stampa e una prima istintiva e probabilmente risolutiva risposta la dava il mio essermene dovuto assumere i costi di produzione, la cruda verità? L’ozio letterario come non mercificazione non esiste o meglio esiste, sonnecchia nei taccuini inviolati di qualcuno, sopravvive nel fondo dei cassetti, fa della morte in oscurità un valore, mi sembra oggi prendere le distanze dalla gloria.

    

II Vengo da una sacca della storia, una di quelle cittadine della fonda provincia italiana dove nelle librerie arrivano solo i classici, i primi libri di poesia finiscono dallo psicologo e non su qualche palco con vallette e microfoni e alle presentazioni il farmacista supera ancora in autorità il poeta locale. La vita letteraria è dominata da logiche turistiche e le associazioni di negozianti fanno da padrone, se ti va bene lì, nei mesi invernali puoi fare da richiamo per qualche cliente e poco più e come da secoli il posto per le poesie è il margine dei quaderni di scuola. Non c’è niente da fare, se vuoi imparare a scrivere non ti puoi iscrivere al laboratorio del poeta di mezza età, devi andare interrogato per primo a latino o matematica o storia e poi armarti di pazienza e bianchina. Credo che i miei compagni di allora fossero felici che io da grande volessi fare il poeta: ho stornato molti cinque.

Vengo da una sacca della storia, dove d’inverno dovevi nascondere il libro comprato di troppo sotto il giubbotto pesante prima di tornare a casa e sperare di riuscire presto a scrivere bene per giustificarne, ora lo so, soprattutto ai miei occhi, l’acquisto. Lì al cinema vero ci si va poco perché il cinema d’essai è dei preti, il teatro è chiuso da tempo e la biblioteca non fa più acquisti da anni. Da quelle parti si usa glorificare per poco, subito chi scrive un libro diventa una piccola gloria cittadina, ma ci si ricorda bene che il poeta confina con il matto e che, in fatto di letteratura, il sogeto è un poco di buono.

Vengo da una sacca della storia dove savi professori di lettere disperdono come pula le poesiole dei sedici anni e invece di scrivere un’ammiccante prefazione ti rimandano a scapaccioni a studiare; è il loro modo di salvarti, se sei bravo. Nonostante tutto questo e forse proprio per tutto questo mi crescevo nella testa vizi come l’idea della gloria letteraria, erano ancora lontani i giorni in cui dovevo sapere che tutta la gloria dell’uomo è come un fiore di campo.

Vizi, ma anche virtù come l’ozio letterario, virtù certo perché l’ozio di cui parlo ora non è l’ozio reale di cui ho parlato sopra, ma un ozio tutto ideale, immaginario come solo può esserlo nella mente di un adolescente ma in sé ricco dei migliori resti del grande ideale della bildung borghese e dell’umanesimo, confusi quanto si vuole a pubblicità (la tv arriva anche nelle sacche della storia, i libri nuovi no), brani evangelici e pietà omeriche, ma in questa fase è forse proprio la compresenza dei tempi, lo schiacciare tutto su un unico piano di verità fuori dalla storia che può determinare il sorgere di un valore, perché è la verità che si cerca.

Non bisogna sottovalutare assieme ai rischi la grande forza di educazione della lettura casuale che questo tipo di ozio letterario porta con sé, spesso è un grande antidoto contro lo smarrimento, la mancanza di empatia, la paura della diversità. Quanto a me in sostanza, magari senza dirlo o dirmelo, la pensavo come Victor Hugo: sarei stato Chateubriand o niente, ed è per questo che più tardi avrei accettato tutto sommato di buon grado di essere niente.

Per provare ad essere Chateubriand bisognava però leggere molto e io leggevo molto e di tutto, l’impenetrabilità della provincia mi poneva al riparo dalle manie e dai risultati peggiori, come dai migliori certo ma il gioco valeva la candela, della poesia contemporanea. Potevo leggere i grandi poeti europei senza farmi illusioni e l’obbiettivo era essere Chateubriand non per fama o per tirature, ma avere almeno una pagina mia che potesse stare alla pari con le sue.

Consiglio ai giovani che vogliono diventare poeti di nascere in provincia, quando possono, da lì è molto più facile guardare le colline della poesia per quello che sono, dopo aver provato a scalare le montagne. In più in provincia, si sa, c’è più tempo per oziare.

    

III Uno dei testi più stancati degli anni di scuola è stato il breve carteggio tra Marco Coen e Manzoni, la situazione è tipica, un giovane aspirante letterato chiede consiglio allo scrittore famoso; Coen è tutto preso dalle fantasticherie sulla letteratura, vuole avere successo, diventare un grande poeta e dedicarsi completamente alle arti, ma il padre vuole che faccia il banchiere. Così Coen chiede a Manzoni che metta una buona parola per lui con il padre e lo assicuri che, insomma, anche quella dello scrittore è una professione dignitosa.

Manzoni, travagliato tra l’altro da numerosi problemi riguardanti i suoi allora incerti diritti d’autore, rispose al giovane senza troppi fronzoli di fare il banchiere e lasciare perdere le sue fantasie e che peraltro gli sarebbe stato molto più utile avere una posizione ben piantata per terra da cui osservare la realtà. Provo a immaginarlo adesso: Manzoni allunga il braccio attorno alla spalla del ragazzo: «Chiamami Alex» e sfogliando distrattamente un esile fascicolo di versi: «ma lo sai che sei proprio bravo? C’hai talento! Tu devi scrivere! Domani andiamo a leggere a Piazza San Marco e poi ti presento io ai migliori salotti di Milano, c’è della gente che devi conoscere!», a ciò il poeta aggiunge un paio di espressioni sacramentali sulla poesia prima di rispondere a una telefonata e allontanarsi. Il risultato? Con ogni probabilità il povero Coen finirà sotto un ponte o alla peggio in banca ma molto più incazzato e deluso, quel che è certo è che non scriverà mai una poesia bella neanche per sbaglio.

Confesso che all’epoca anche la risposta originale mi parve un po’ crudele ma col tempo ho capito che, con grande sapienza, conteneva due verità. La prima è che non è possibile rappresentare in arte una realtà che non si conosce in qualche modo (persino l’inattingibile aldilà dantesco è tutto pieno di costanti rimandi a ciò che si sa del mondo terreno), la seconda, più sottile, è che l’arte è come il sabato: è l’arte a essere fatta per l’uomo e non l’uomo per l’arte. Chi sogna di darsi interamente alla rappresentazione che l’uomo fa di sé non può che smarrirsi.

L’uomo per l’arte è l’artista professionista, il poeta che si sa o si pensa tale; non è affatto vero che la riduzione dell’uomo a funzione non abbia luogo per le professioni artistiche o intellettuali, lavoratori della testa li chiamava Brecht e Marx nell’Ideologia tedesca ricorda giustamente come, in una società non alienata dalla divisione del lavoro e senza classi, non ci saranno e non ci devono essere poeti e pittori, ma uomini che scrivono poesie, uomini che, tra l’altro, dipingono. L’appiattimento dell’integrità umana sulla funzione produttiva, sia pure artistica, sia pure di livello altissimo, è sempre segno di un’umanità alienata e oppressa. Ricordando quella grande pagina di emancipazione dell’uomo non ho potuto non provare sorpresa e terrore quando mi sono reso conto che niente appassiona e inferocisce i poeti quanto il bisogno di sentirsi considerati tali dai propri simili, anche rivali, il minimo dubbio di questo riconoscimento scatena ire inenarrabili e rancori violenti. Ho visto più di un dibattito finire in sterile discussione di ore su chi meritasse la sospirata funzione all’interno dell’apparato di produzione ideologica (il quale peraltro la dà a tutti indistintamente anche se in forma diversa).

Invece di rivendicare l’impossibile ma desiderabile non produttività dell’ozio cerchiamo a tutti i costi, soprattutto quando questo sorprendentemente non è connesso in alcun modo a ragioni di sostentamento, la messa a produzione totale della vita, la specializzazione in umanità. Questo è il segno di quanto sia spessa oggi la cortina della mistificazione.

      

IV Recentemente ho visto a una lettura una signora già avanti con gli anni alzarsi e chiedere, come se fosse la cosa più normale di questo mondo, «Lei che è un poeta mi dica, qual è il senso della vita?»; ho pensato che gli organizzatori fossero impazziti e ora vivo nella paura e nell’imbarazzo che qualcuno vedendo il mio nome sulla copertina dei libri possa domandarmi il senso della vita invece di cercarlo insieme a me, sarei tentato di rispondere davvero «Io sono solo il ragazzo che leggeva Keats».

Ogni volta che finisco un libro ho la sensazione di non averlo scritto io, non mi capacito di come possa esserci riuscito, credo piuttosto che l’ozio esista e mi ci figuro nel mezzo. Fu così alla fine delle Strade di Gerico, libro di fatto precocissimo, finito a meno di vent’anni e che per estraneità di temperamento agli ambienti della letteratura quasi non presentai. Ogni volta che finisco un libro viene da me un amico fraterno e mi dice: «Hai scritto un bel libro, ma adesso cosa farai?» si offrì gentilmente di aprirmi i salotti buoni della poesia e io gli risposi che sarei partito per il Cile e non avrei più pubblicato. Lui sorrideva dicendo che non si deve morire di purezza e che non si può «cantare la canzone dell’infinito in un pollaio».

Ogni volta che finisco un libro lui torna, mi fa la stessa domanda, e ogni volta gli rispondo che forse di versi non ne scrivo più. Ho sempre pensato che sbagliasse qualcosa, che cercasse una stanza dei bottoni che non c’è; oggi penso di aver sbagliato anch’io: la stanza dei bottoni c’è, il suo vero errore è stato non aver capito che la canzone dell’infinito si può cantare solo in un pollaio e che io non avrei, in fondo, mai accettato di cantare altro: ero il ragazzo che leggeva Keats.

Mi chiedevo dunque se non sarò costretto a una continua contraddizione: da una parte l’ordinaria e quasi burocratica amministrazione della vanità degli autori (inclusa la mia ovviamente) tra libri, festival e presentazioni e dall’altra la lotta combattuta quasi interlocutore per interlocutore per cercare assieme un margine di autenticità per il lavoro letterario.

Seguito a non conoscere ovviamente alcuna risposta alle questioni ultime, ma per quel che riguarda la condizione degli ozi letterari contemporanei e il loro più immediato annullarsi nella fine del dilettantismo per come lo avevamo conosciuto e le nuove forme di riduzione a funzione dello scrittore credo oggi che la risposta a quelle domande sia la risposta a quella che mi pongo insistentemente: perché se tu conosci tutti i limiti della poesia, se ne diffidi, se sai che per contrastare le ingiustizie servono leggi e organizzazioni e non versi e che la lotta è una lotta politica e non letteraria, perché scrivi poesie?

Ho scoperto che le sottigliezze d’acciaio della dialettica non hanno schiantato in me il ragazzo che leggeva Keats, no, quel ragazzo si è alleato con Marx, si è negato perché sapeva che solo negandosi avrebbe avuto la forza e gli strumenti per combattere per il suo sogno, la sua visione umanistica che ora assumeva in termini chiari di «naturalizzazione dell’uomo e umanizzazione della natura». Ancora amo il verde che mi tranquillizza, lo scorrere delle acque, le rose. Scriviamo sulle rose perché nel fiore vediamo non l’essenza del fiore ma il nostro soggetto che lo guarda e in esso vede, statico e dinamico ad un tempo, il conflitto natura e cultura che ci anima, risolto a vantaggio della prima dove la seconda significa essenzialmente razionalizzazione del capitale.

Anche la bellezza è la posta in gioco di una lotta per l’uomo e se le forze che gli sottraggono il frutto del suo lavoro sono le stesse che gli sottraggono la poesia essa merita di essere difesa con le stesse armi. L’umanesimo letterario non si dà senza uomo integrale e non alienato: non la difesa dell’ozio per sé ma una conquista di dignità per tutti, questo ritengo il senso del «bread and roses» che con grande lungimiranza era lo slogan delle operaie tessili durante gli scioperi del 1912.

I grandi massacri sono un fatto di cultura e la similitudine omerica che fonda la poesia occidentale porta una dissonanza tanto quanto una somiglianza, così come tutti i morti del secolo non fanno appassire ma sbocciare le rose delle nostre poesie. Che tutta la gloria dell’uomo è come un fiore di campo non fu scritto a sottolinearne la vanità, ma la finitezza e la grandezza insieme.

Di fronte a due pensieri la mente vacilla: il primo è il grande universo di merci creato dall’estensione mondiale del capitalismo, nel quale i confini del lavoro sono sempre meno chiari, le produzioni simboliche diventano capitali esse stesse e noi oscilliamo tra consumatori e forza lavoro divisa per funzione, un sistema totale che non contempla altro da sé senza riassorbirlo, l’altro è il mistero che congiunge in un unico punto «ciò che per l’universo si squaderna». Contro il primo non vi è luogo al vecchio ozio e per il nuovo anche scrivere sulle rose è una forma di difficile e doverosa resistenza. Quanto al secondo forse un giorno saremo beati, dopo tanto travaglio in una rosa, ma per il momento siamo come foglie al vento e qui le parole si fermano.

     

Ringrazio dunque quanti in questi anni mi hanno aiutato a fare chiarezza su tutte queste questioni, a loro, la parte migliore di me, sono dedicate queste pagine.

Alice, opera di Leonardo Lucchi
Alice, opera di Leonardo Lucchi

One thought on “BREAD AND ROSES : Perché scrivere sulle rose. Editoriale di Luca Mozzachiodi”

  1. Articolo molto ben costruito, ironico e verace al tempo stesso,
    ARTICOLO DI CUI MI COMPLIMENTO CON L’AUTORE, LUCA MOZZACHIODI

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