Bruno Di Pietro, intervista e poesie a cura di Rosa Pierno
Nei tuoi libri, fin dagli esordi, il tema del mito è sempre presente. Quale ruolo svolge il mito all’interno della tua opera?
Occorre, per rispondere a questa domanda, una breve premessa. Allora. Una anafora, contenuta nei primi due versi della mia intera produzione e che primi resteranno in qualsiasi futura sistemazione, rende conto e ragione del mio scrivere. Sto parlando dei primi due versi della “Prima Eleatica” che apre il volumetto “Colpa del mare” (Edizioni Oèdipus , 2002) oggi quello edito nel 2018: “forse l’indisciplina degli eventi / forse l’incerto dire inesistenti”.
“forse” …”forse”. Se, poi, questi due versi vengono letti alla luce dei primi versi di “colpa del mare” (la viii. dell’omonimo poemetto (“Colpa del mare / del pendolare dubbioso / tra il frutteto in rigoglio / e l’orgoglio della scienza”….) sono ancora più chiari la condizione e il modo di guardare di chi scrive e l’oggetto del suo scrivere. A ciò va aggiunto l’uso del “ma” ( “ma com’è disadorno il divenire” o anche nella Quarta Eleatica “ma quale origine gli vuoi trovare”) quasi a revocare costantemente in dubbio l’assunto.
La condizione del mio scrivere è pertanto il “pensare”, “riflettere”. L’oggetto del pensiero è il pendolo fra la passione, l’istinto (“il frutteto in rigoglio”) la parola del Mito da un lato e la ragione, il calcolo, il pensiero scientifico, il Logos (“l’orgoglio della scienza”). E questo pensiero viene esercitato dubbiosamente nell’epoca (la mia scrittura data la fine degli anni ’80 anche se la prima edizione è solo del 2002) del possibile tramonto, del minacciato “naufragio” (da qui “colpa del mare”) della parola scientifica che è il tratto essenziale del pensiero Occidentale.
Il mio riflettere in versi si radica quindi proprio nel momento ( e parlo del VI secolo a.C.) in cui Mito e Logos si separano. È bene ricordare che in Omero mùthos significa “pensiero”, ma anche la parola in cui il pensiero è contenuto ed espresso. Quindi, non soltanto il suono della parola, ma anche il pensiero contenuto nella parola. A partire dal VI sec. a.C. nella lingua attica il termine assume un altro significato come contrapposizione al significato di lògos. Assume cioè il significato di “leggenda” di “fantasia” (così anche in Platone) narrazione di eventi divini, primordiali. Laddove lògos è la parola che esprime il pensiero, la parola della scienza. E questa è la concezione del Mito nel pensiero greco antico. E così ancora nel lessico bizantino e fino all’inizio del ‘900.
Il momento della separazione tra mùthos e lògos è il momento in cui si situa l’inizio del mio scrivere. E il luogo non può che essere Elea patria di Parmenide. Da qui le “Eleatiche”. Ma proprio in questo evento si radica anche il mio “dubitare”. L’anafora che apre il tutto. Ed è in questo stesso esatto momento che nasce il mio riflettere sulla Storia. Che poi è una riflessione sulla nozione di “tempo”.
Col progredire cronologico delle pubblicazioni, la storia però sembra prenderne il posto e collocarsi come unico scenario di riferimento.
Più che prenderne il posto, l’attenzione alla Storia è quasi coessenziale all’interrogarmi sulla separazione mùthos/lògos. L’avvento del lògos fonda la civiltà occidentale così come ancora oggi la viviamo. Che ha una idea del tempo siccome progredire unilineare e unidirezionale in un progresso immaginato come privo di “limite”.
Qual è la “colpa del mare” ? Quella di indicare a Ulisse (quello di Dante, intendo) ad intraprendere la rotta della conoscenza (che è un bene) ma senza immaginarne il limite (il che ha in sé il germe del possibile naufragio). Nel poemetto eponimo “Colpa del mare” è esattamente questo il dubbio che tormenta il soggetto narrante. Ed è da qui che nasce lo sforzo di scrittura di tutti i tre poemetti che seguono la pausa direi intima dell’originario volumetto. In cui la Storia è protagonista nel senso di indicare un diverso modo di intendere il tempo, diverso sia da quello lineare unidirezionale sia da quello circolare. Utilizzo piuttosto la categoria “tempo storico” che non è né il tempo degli orologi, né il tempo che abita nell’interiorità di ciascuno. E non è nemmeno il tempo in cui tutto quanto accade deve necessariamente accadere. Ma è il tempo proprio di tutte le attività umane che prescinde del tutto dalle condizioni materiali in cui maturano. E’ la categoria per intenderci che usa Karl Marx (partitamente nella Introduzione ai Grundrisse) quando parla della sopravvivenza ad es. del diritto romano al modo di produzione schiavistico al punto da essere caposaldo delle codificazioni borghesi quindi a fondamento di un modo di produzione del tutto diverso. Ed estende poi il discorso all’Arte.
Considero quindi la Storia un immenso “repertorio di possibilità” per la definizione di una “utopia ragionevole”, di una apertura, di uno sguardo di “speranza” nel futuro, di un “sogno ad occhi aperti”. E quindi tutti i nomi-simbolo del mio lavoro (i presocratici di Elea, i Pitagorici Liside e Ippàso di Metaponto, l’ Ovidio “relegato” sul Mar Nero, il poeta Massimiano all’alba del VI sec. d.C., l’eretico Francesco Pucci, tutto il brulicare di nomi e di Imperatori in “Impero”, i personaggi degli Undici distici per undici ritratti) sono di soggetti di “confine” frequentatori di margini in cui domicilia il “dubbio”. Mettere in dubbio ogni attimo del presente, metterlo in discussione, in gioco è, secondo tale lettura, l’unica clausola di uscita dalla “catastrofe”, dal “fallimento” (su questo le Tesi di Benjamin sono a mio avviso essenziali, messianismo a parte).
Insomma tornando in argomento non amo la poesia ripiegata nella intimità dell’”io” (salvo rarissime eccezioni) e cerco costantemente una mediazione fra l’epica e la lirica. Non amo la poesia per pochi poiché se scrivo una qualsiasi sciocchezza non la scrivo per me stesso, ma perché vorrei fosse ricordata da tutti. Mi rivolgo al paradigma della “vita in versi” (per me Giudici è un Maestro) poiché ritengo essenziale l’osservazione e l’“ascolto” della realtà. E quindi anche delle passioni, dei sentimenti, delle relazioni sottratte però ad un esercizio di triste elegia, e, proprio per questo mi rivolgo alla Storia. Che è lo spazio in cui viviamo, la casa, il paesello, la città, il mondo.
La collisione tra ragione ed emozione appare non risanabile, se non per sprazzi, del tutto puntualmente. Un rapporto irricucibile, il quale fa intendere che nemmeno su una diversa scala, come quella storica, ci possa essere una saldatura.
Forse è proprio su quella che chiami “diversa scala della Storia” è ipotizzabile una ricucitura fra ragione ed emozione, fra ragione e istinto. Perché una tale ricucitura avviene o può avvenire solo se si è nella condizione di ascolto dell’Altro. E questo può accadere in quello spazio che appartiene a tutti, lo spazio della polis. E quindi della Politica. E puoi immaginare il disagio in cui mi trovo nella attuale situazione in cui proprio tale spazio, per me essenziale, affronta il proprio deperire.
Ma credo la domanda intenda indagare anche la mia condizione individuale. Ebbene credo sia abbastanza semplice comprendere quanto mi agiti il conflitto ragione/passione. Bastano tre versi per dirlo “Tu greca portata fin qui dal mare / non guardare chi fa ricerche dotte / astrae chi studia il cerchio dal tuo seno”. Io sono proprio quello che studia il cerchio, e in me tutti hanno sempre cercato (e qualcuno apprezzato) la parte superiore del corpo quando non soltanto la testa. Mi sono sempre però terribilmente sforzato di tenere le conseguenze (spesso nefaste) del conflitto lontane dalla mia scrittura. Non mi piace il “vomito dell’anima”. E quel genere di poesia che è una lunga sequenza di sofferenze, proprie o altrui fatte proprie, di perdite, di eventi luttuosi onestamente e francamente mi ripugna. Piuttosto trovi in me più volte la descrizione di “fughe strategiche” perché quando prevale la ragione sono un velocissimo decisionista, così come quando entra in gioco la Passione sono un temporeggiatore formidabile. E poiché sono il tipo che all’Altro “consegna immediatamente le chiavi della Città”, l’attesa, l’indecisione è foriera di epocali disfatte.
Forse l’ironia, sempre così affettuosa e premurosa nei confronti delle cose e delle persone è comunque strumento di presa in carico, impegno, a prescindere dalla valutazione degli eventi e dei comportamenti?
Sotto molti aspetti è vero. Anche perché è soprattutto (e in primo luogo) auto-ironia. Esagero scherzosamente e volutamente sui miei difetti proprio come “offerta” all’Altro. Ma è anche una delle modalità del confrontarmi con le cose e con le persone, insomma con tutto quanto mi circonda. In “Impero” , che precede il volume “Colpa del mare e altri poemetti”, ma lo segue quanto a tempi di composizione, è abbastanza evidente l’ironia sugli avvocati (il mio mestiere), su aspetti dell’esoterismo gnostico (il mio Eupsichio di Alessandria), sui poeti (sedicenti soprattutto). Guardare quanto ti circonda con una buona dose di ironia è anche il mezzo per “mettere a distanza” perfino i propri stessi sentimenti. Ed è un esercizio utilissimo nella scrittura in versi per evitare il “vomito dell’anima” di cui parlavo prima.
Ancora. L’ironia è un mezzo per mettere costantemente tutto in discussione, esercitare su tutto il beneficio di inventario, confrontarsi in modo dialettico con l’Altro (e con ciò che ti circonda) senza postulare necessariamente verità possedute. Insomma è una modalità per uscire da quello stato, che descrivo in un verso, per cui “l’accaduto accada perché deve”. Infine l’ironia è quasi coessenziale a una mia tendenza all’epigramma che si manifesta fin dalle prime scritture e trova in “minuscole” (edito nel 2016 ) una sua prima sistemazione consapevole anche teorica.
L’attenzione alle cose più infime e risposte, anche segrete, come le percezioni, le sensazioni, ha una grande importanza nella tua versificazione, rapida, come un occhiello fugace di sole su una superficie mobile.
Ti ho appena detto della mia tendenza all’epigramma e ti ho citato “minuscole”. Ebbene il minuscolo è un mio chiodo fisso da sempre. Possiedo perfino una bella collezione di libri in edizioni minuscole. E ciò per diversi motivi. Il primo è che sono convinto che nell’infinitamente piccolo, nelle cose infime, riposte, come dici tu, puoi trovare la tana del segreto.
Il secondo è una mia aspirazione a una sorta di restitutio in integrum di fronte alla frantumazione esistenziale, sociale, linguistica che ha segnato la seconda metà del ‘900 – e quindi la mia vita. E’ ricerca, quindi, di senso che, a mio vedere, è rintracciabile in quel che è nocciolo, nucleo, “rosso dell’uovo” (come dico in “acque/dotti” edito la prima volta nel 2007) : “ora che un po’ di polvere/ si è tolta di dosso / posso pensarti evolvere/ insieme verso il fosso / verso il rosso dell’uovo/ (a noi serve un passato nuovo) . Detto qui per inciso quel verso “ a noi serve un passato nuovo” è da tener presente per il discorso fatto prima sulla Storia . Insomma una utopia del passato o se vuoi il ricordo come si presenta nel momento del pericolo (la Tesi VI di Benjamin o ancora il noto verso di Hölderlin).
L’era attuale segna la prevalenza dell’aria sugli altri elementi (la vittoria del finanziario sull’industriale), il trionfo dell’astratto sul concreto, dello scambio fine a sé sull’uso. Io provo a convocare gli altri elementi: la terra (ragione), il fuoco (passione), l’acqua (il “mio” mare). In questo c’è lo spazio per il linguaggio poetico che ferve negli interstizi, negli anfratti, nelle baie nelle pieghe discrete. Laddove il linguaggio normativo – in senso ampio quello delle relazioni della vita civile- tende alla “generalità ed astrattezza”, il linguaggio poetico guarda al particolare, al dettaglio, al più piccolo spazio nelle pieghe del possibile, nelle plaghe che confinano con il silenzio e con il buio.
Sull’argomento chiudo con quella che amo di più fra le me “minuscole”, in cui, ironizzando su Leopardi, ironizzo in fondo su me stesso “non ci sono più siepi / ad escludere lo sguardo/ e l’ultimo orizzonte/ è ai tuoi piedi / (siedi / e guarda per terra)”. C’è almeno un ultimo motivo che mi spinge alla versificazione breve. A parte la considerazione che tutto è già stato scritto: io dico che “se molte persone, in luoghi diversi, in tempi diversi” (sto parafrasando Vico) “ricordano” un verso, un solo verso, chi lo ha scritto è un Poeta. Ne basta uno solo. Et de hoc satis.
La gentilezza nel porgere anche considerazioni amare, presuppone una grande tolleranza ed esperienza riguardo ai rapporti umani, forse, derivata in parte anche dalla tua attività politica e dirigenziale?
Sono tollerante per fede. Nemico giurato di ogni autoritarismo specie se derivante da pretese Verità detenute. Certo la attività politica e sindacale mi ha formato alla attenzione alle idee altrui, all’ascolto delle altrui ragioni. Ma anche quella professionale: il meglio di me – mi viene riconosciuto – è nella contrattualistica laddove contemperare gli interessi di più parti è attività di mediazione complessa. Poi in genere sono abituato a dire la verità su me stesso (in questo attento studioso e seguace dell’ultimo Foucault) il che mi procura quasi sempre il riconoscimento di tutti quanto alla chiarezza delle mie posizioni ma anche disastri sentimentali di non piccola portata (un mio amico dice : la verità non esiste, però fa male).
“Ma se mi toccano dov’è il mio debole” divento, come dice Rosina nella cavatina del Barbiere di Rossini, peggio della vipera. Non sopporto nessun gesto di intolleranza, di autoritarismo, prepotenza, sopraffazione ma soprattutto odio le bugie dette per trarne vantaggio. Chi usa simili strumenti con me può anche vincere una battaglia, ma deve sapere che la guerra sarà lunga e che, in tali casi, io non faccio prigionieri.
Stai attualmente curando la presentazione al pubblico della tua antologia poetica “Colpa del mare e altri poemetti” Òèdipus, 2018, ma stai anche lavorando a una nuova raccolta?
Se pensi che nel 2016 è uscito “minuscole”, nel 2017 “Impero”, nel 2018 “Colpa del mare e altri poemetti” comprenderai la mia difficoltà nel rispondere a questa domanda. Sento ancora oggi “Impero” come una sorta di fine di un percorso lungo quasi trenta anni. Ed è anche per questo che ho voluto sistemare “Colpa del mare e altri poemetti” (che non è una antologia, ma una risistemazione ragionata di buona parte di ciò che ho scritto – basti pensare che le “Eleatiche “, in origine sette, in questa edizione sono dieci e le ultime tre sono successive alla edizione del 2002) .
Poi io ho un limite: non riesco a ragionare in termini di “raccolta”. Per me un libro è un libro. Deve avere un senso, deve dire qualcosa a chi legge. E quindi io devo avere qualcosa da dire. Certo qualcosa la sto scrivendo. E magari ogni tanto ti riesce il frammento dignitoso se un Arcangelo si prende il fastidio di venirti a trovare in una breve vacanza dalla volta celeste. Ti posso dire che sto cercando i colori, i sapori gli odori di quel “frutteto” che oggi è meno in “rigoglio” , cercando di mettere un po’ a riposo “l’orgoglio della scienza”. Ne gioiscono i quaderni e, soprattutto, il cassetto. Ti posso dire anche che sto scrivendo d’amore. Puramente e semplicemente senza, come mi ha consigliato una cara amica, cercare di nasconderlo dietro filosofici fumi. Forse perché ho bisogno di amare. Ma molto di più, ne sono consapevole, di essere amato. Il mio filosofo delle “Eleatiche” si è perso qualcosa per strada.
Prima “Eleatica”
forse l’indisciplina degli eventi
forse l’incerto dire inesistenti
l’identico la trama la ragione
concedono alle volte un’occasione
ma com’è disadorno il divenire:
gettati alle correnti senz’appiglio
nei rumori dell’acqua sempre al ciglio
dell’essere del dire del non dire
cosa accadrebbe poi se il maestrale
venisse a dirti al termine del giorno
che il sentiero in fondo è sempre uguale
e non c’è altra via che del ritorno
“Colpa del mare” (V)
Quando vedo i traffici in aumento
prosperare di vigne e di colture
immagino nuove istituzioni.
Necessitano subito misure
magistrature per le liti
e riti che propizino il frumento.
In tanto penso che dovrei baciarti
averti bruna nella luce discreta
prima di mettermi a battere moneta.
“Colpa del mare” (VIII)
Colpa del mare
del pendolare dubbioso
tra il frutteto in rigoglio
e l’orgoglio della scienza.
Colpa della tua assenza
se il barlume di aprile
non lucida i capelli
di giallo di arancio
e costringe al bilancio
al conto del fare
e disfare il disegno.
Colpa dell’ingegno
che chiude le sere
fra poca luce
e un pugno di olive nere.
Grazie per avermi fatto conoscere questo poeta colto che osa esplorare il mare magnum tra il poema di Parmenide e l’epigramma.
Mito e Logos si separano, è vero, ma talvolta nei tuoi scritti, sia poetici che di riflessioni filosofiche come questa intervista, sembrano unirsi. Il pensiero diventa la tua poesia, intima e densa di memorie. Il Mito assurge a pretesto per rivelarti e le anafore inducono a pause volute, come anche l’avversativa ricorrente. Leggerti è piacevole, in ogni tuo scritto si comprende lo studioso impegnato, attento ai dettagli, alla cura della parola.
Leggerti è bello ! In ogni espressione convinta ,che sembrerebbe logos c’è sempre spazio per miutos . Direi che alle spalle , forse alla base è ” miutos ” .