Canti di cicale di Silvia Secco, Samuele ed. 2016, recensione di Stefano Iori: la lingua pazza della cicala.
Dialoga Silvia Secco, nei suoi Canti di cicale (Samuele Editore, 2016). Con poeti morti e poeti viventi. Anche con fantasmi che hanno lasciato segni grigioblu (vedi poesia a pag. 36) su pareti che parrebbero semplicemente irruvidite dal tempo, se non avessero invece assunto il ruolo (pesante e pensante) di “tavola dei ricordi”. E prima di sedersi a tale desco non bisogna lavarsi le mani, ma sporcarle invece, con la polvere che ammanta quei muri: il residuale pulviscolo di chi siamo e di chi è stato. E se sporcare è una parola che evoca sensazioni sgradevoli ai più, diciamo, alludendo a Dante e parodiandolo, che nella polvere del tempo bisogna ficcar lo viso a fondo.
Si leverà così la cipria degli anni dalla superficie delle cose, quella venuta a contatto con il passato di altre vite? O questa, sfarfallando nell’aria, si trasferirà ai nostri polmoni e da questi alle nostre cellule?
Soffio e il suo opposto. Espirare e respirare. Fino a portare dentro il proprio sé, con costante (in)consapevolezza, un rarefatto mondo di segreti. Dentro. Dove sovrasta il buio (vedi poesia a pag. 38).
E dopo?
Vangami nella polvere, incalzami nel fango, io ti darò buon vino. Così recita un vecchio proverbio. Il buon vino, va da sé, è il nettare succoso che ci viene dalle poesie di Silvia Secco.
Poi torneremo a nascere bianchi e vuoti.
E smemori ci incontreremo accanto
al treno ancora stupiti. Convinti
che accada per la prima volta.
(dalla poesia a pag. 40)
Per la prima volta. Sì. Perché fare poesia è dar voce a un fremito aurorale, e mai un’alba somiglia a quella del giorno prima. L’accadimento poetico è inaugurale.
Un altro componimento, ora. Completo e compiuto (a pag. 45). Compiuto degnamente il fare di scrivere versi… con la propria parte pazza.
So dire la piena del mondo
con la mia lingua di carne
inabile al cielo e ho cunicoli
di ricordi e pori come fiordi
dove s’insinuano i detriti
e la bellezza
nuda svela la nudità
del mondo con la sua lingua
crespa adatta alle cicatrici
al segno indelebile del solco.
E la mia parte pazza scrive.
Con lingua-parte pazza, afferma di scrivere l’autrice, ma si potrebbe anche dire con lingua veritiera. In poesia, infatti, è impossibile mentire. L’unico vezzo ammissibile è quello di trattenere i propri segreti. Quelli cui il verso può solamente alludere, restituendone, comunque e immediatamente, una diafana istantanea che ciascuno farà aderire ai sussulti e ai fremiti della propria anima, accogliendo (assorbendo) l’idioma, sincero e originario, della poesia.
Ben venga la parte pazza di Silvia Secco.
Invece so tenere il fiato a lungo
come un segreto. Nel buio d’occhi
dove l’amore può ore e ore
senza bisogno di respirare.
(dalla poesia a pag. 52)
Interrompendo queste note di lettura (forse solo ineludibile controcanto) faccio cenno alla morte, che delle poesie di Silvia Secco è ospite frequente. Il finire, spettro sornione, aleggia, e i versi, qua e là, vi danzano attorno.
L’autrice, nella poesia a pag. 39, ammette di avere stanchezze mortali e in quella a pag. 55 afferma, in chiusa, Dillo che non hai paura di morire. Difficile supporre a chi si rivolga: a tutti noi, forse, che in merito sappiamo mentire da fasulli eroi, almeno fino al momento in cui l’approssimarsi della fine si fa concreto.
Altro necessario cenno va fatto per l’amore, pulsione forte nella tavolozza di Canti di cicale. Interpretato in caleidoscopiche fattezze, declinato spesso in modo allusivo e tuttavia mai ombroso.
Scavami e trova. le dita di chi ama
si sfiorano sui libri e sotto ai tavoli
e tu lo sai che sono scalza e nuda
davanti a te come davanti al mare.
(dalla poesia a pag. 60)
Poco più avanti, il cuore si sdoppia (poesia a pag. 70). Forse, qui, l’autrice intende affermare la duplicità dell’amore. Il suo farsi binario per spiccare un volo. Ogni cosa viene infatti dal due. L’uno non genera figli e muore solo.
L’altro cuore le spuntò senza rumore.
Erano sere che anche la luna cresceva
e i capelli lunghi sui cuscini
e la luce pochi secondi al giorno
aumentava l’ombra sulla strada. Quando
se ne accorse le sembrò normale:
non sono forse doppi gli organi del volo?
Doppie le pupille, le narici, due come le mani.
Quando se ne accorse fu felice.
Il verso lo sentiva nella pancia.
Quasi un fulmineo saggio sulla genesi della poesia, la lirica qui sopra riportata, che nasce dagli opposti: sere e luce del giorno, quella che aumenta l’ombra sulla via, tornando a richiamare il buio. Dentro la pancia gravida di chi scrive.
La raccolta, dopo il precedente componimento, si distende in altre poesie che acquisiscono un ritmo di senso (sensualità) in cui la parola bacio si ripete. Così come il tratteggio di nudità. Arrivano lobi e capezzoli.
Un secondo registro dove al grigioblu subentrano impavidi blu a perdifiato (dalla poesia a pag. 76) e dove accadono prodigi: Il cielo è capovolto a livello d’uomo (dalla poesia a pag. 85).
E come contrappunto, rispetto ai fantasmatici drappeggi d’amore, altre pieghe ancora nel gioco degli opposti. Il disamore e il rimorso: fatti della flebile sostanza dei ricordi e della disperante azione del dimenticare: Poi mi dimentichi. Non mi raccogli (dalla poesia a pag. 87).
L’ultima parola della silloge è Tacevamo. Il silenzio a chiudere.
Se la poesia nasce dal silenzio, l’opposto (ancora) della voce, è bello pensare che ogni verso, una volta sgorgato, dai polmoni, dalla bocca e dall’anima, compia una giravolta e torni a sfumare nel nulla del tacere, da cui ritornerà, nuovo e imprevedibile.
Ciclo senza fine.
È forse questo il destino del poetare: viaggiare e viaggiare, nel nulla, nel vuoto di inconosciute lande, dove un fantasma benevolo ci insegna una lingua ogni volta originaria. Idioma fatto di assenza-essenza silenziosa, capace di sfuggire alla presa della coscienza consuetudinaria.
E poi, ad ogni ritorno alla pagina, ecco la magia di un “altro” universo del dire.
Lascito garbato per i canti delle cicale.
Un sentito grazie a Stefano Iori per questa lettura che sottolinea tematiche a me tanto care e che desideravo riuscissero a comunicare in questo libro. Grazie per la sottolineatura della polvere e della parte pazza (poesia dedicata, attraverso la citazione, a Gianmario Lucini e – tramite la sua figura indimenticata – a chiunque sia sano portatore di questo “gene zoppo” (cito da Claudia Zironi) dell’arte). Grazie per aver concluso con la parola “Tacevamo”, messa proprio a chiusura, come una nuova apertura di silenzio.