Spiccioli
racconto di Julka Caporetti
Mauro di lavoro fa il casellante. I suoi turni sono: dalle 06:00 alle 14:00, dalle 14:00 alle 22:00, dalle 22:00 alle 06:00. Quando gli capita il turno del pomeriggio, al mattino può dormire un paio di ore in più, ma non fa in tempo a mettere su il caffè che lo sente urlare. Mauro vive con suo figlio diciannovenne da quando sua moglie, tre anni fa, è morta investita da un’auto. Sua moglie era andata in tabaccheria poi era entrata al forno lì accanto, ne era uscita con una pagnotta profumata e si era incamminata lungo il marciapiede. Sigarette e chiavi di casa in una mano, pane e portafogli nell’altra, quando una piccola automobile grigia le era piombata addosso sbagliando sorpasso, sbagliando velocità, sbagliando marciapiede, sbagliando bersaglio. Avrebbe potuto schiantarsi contro il palo della luce, un metro più in là. Invece lo aveva fatto in quel punto esatto, e aveva travolto portafogli e pane, vestito giallo e sigarette, due gambe e due braccia, due occhi azzurri, un nome, Margherita, sua moglie, lei. E così era cominciata la convivenza con suo figlio Massimo.
Non che prima non vivessero insieme, vivevano insieme, certo, soltanto non così: operati, monchi.
Mauro e Massimo hanno dovuto conoscersi. Era lei a mantenere analizzata la triade. Lei oliava le giunture con i come stai, lei spolverava l’esilissima memoria diadica di quei due maschi con i suoi chiedilo a tuo padre, con i suoi parla con tuo figlio. Lei responsabilizzava l’amore dentro quella casa alternando impasti di pazienza a ottimi caffè, poi era morta.
Qualche settimana dopo il funerale Massimo si è fidanzato, ha smesso di andare a scuola, ha cominciato a far finta di cercarsi un lavoro, ad essere molto nervoso.
Mauro lo sente gridare dentro il telefono: sono inequivocabili litigi con quella nuova ragazza. Avverte chiaramente i pugni tirati alla scrivania, all’armadio, al muro.
Bussa alla porta, dice calmati, non sa cos’altro fare. Poi si reca all’autostrada, è pagato per vedere le auto passare. Si siede alla sua postazione, apre la finestrella. Quanti soldi si scambia con i padroni delle macchine grigie. Quando capitano le macchine grigie piccole deve persino sporgersi un poco, allungarsi, andare incontro al braccio del padrone della macchinetta assassina, collocare il suo invisibile dolore infinito sul sedile di dietro facendolo passare dal finestrino abbassato, sfiorare una mano, pochi spiccioli di resto, quel che resta di uomo. Dalla sua finestrella osservare il suo infinito dolore partire, dire arrivederci, vederlo tornare ogni giorno.
Quelli che guidano le macchine grigie non lo sanno che la settimana scorsa Massimo voleva guardare la partita di calcio in TV, invece Mauro voleva vedere un documentario e così Massimo per la rabbia ha scagliato il telecomando lontano, ha sbagliato bersaglio e ha centrato il piede di suo padre che è finito all’ospedale e, per proteggere quel figlio anagraficamente già perseguibile per legge, ha dichiarato di essersi fatto male da solo spostando una cassetta di mele in garage.
Quelli che guidano le macchine grigie non lo sanno che il casellante, che ogni giorno allunga il braccio dalla finestrella, ieri ha telefonato a una psicologa perché suo figlio è una carogna presuntuosa e non si fida di lui, suo padre, che gli dice basta, gli dice fermati.
Non possono conoscere il DNA indistruttibile del casellante, che adesso salva i suoi perimetri, quel figlio orfano, la sua stessa consistenza, quella membrana sottile tanto capace di gridare, quel gioiello nato intero che ora fa brillare i suoi filamenti mostruosi, quell’adolescente così fiero dei suoi pugni, un barattolo che si crede cisterna, la maestosità della nascita legata ad un tasto. C’è la partita, voglio vedere il documentario, muori. E’ così che si muore: per un tasto sbagliato.
Dietro la finestrella c’è un essere umano che ha chiesto aiuto. Occhi marroni, camicia blu. Cinquanta centesimi, il suo dolore. Mauro, lui, il suo nome.
Passano i giorni, le settimane, i mesi. Massimo attua il suo cambiamento dapprima a spiccioli, poi a banconote.
Tante automobili vede transitare il casellante, ma piano piano ricomincia a fare caso anche a quelle nere e grosse, a quelle rosse, a quelle bianche, ai furgoncini. Incassa, saluta, le guarda andare. La smette di buttare sui sedili posteriori il suo infinito dolore, lo sguardo si alza sempre più spesso, va al di là del vetro, si chiede come sarebbe partire, si chiede dove vanno le persone, da dove arrivano, se hanno pagato per restare, se desiderano farlo, o se ne sono costretti.
La sua finestrella ritorna ad essere il suo biconolo per guardare lontano. Era così, prima che il mondo diventasse tutto grigio.
Oggi Mauro fa il turno di notte. E’ estate, e dal suo abitacolo vede tramontare il sole. Il tramonto dura a lungo in serate come questa, e lui sogna di ficcarsi lì, sotto tutto quel rosa e arancio, nel punto esatto e lunghissimo di quello spettacolo. Pensa che bello che sarebbe, essere così tanto larghi da accogliere il tramonto intero. Pensa sto diventando vecchio, cosa sono queste romanticherie da femminuccia? Sono attimi corti, sotto di lui ci sono le persone con le monetine. O le banconote. Un’infinità di uomini e donne, milioni di arrivederci in anni e anni di lavoro, da una vedetta di settanta centimetri. Quel mattino, a casa, propone a Massimo di fare un viaggio. Massimo gli risponde di no, che loro due da soli no, tra qualche anno magari, adesso no. Mauro capisce, dice ok.
Sognerà quel viaggio per tutto il resto della sua vita, e lo farà ogni giorno, da lì.
La sua postazione una siepe.
Molto bello, Julka, grazie. Suscita una speranza di tipo leopardiano (checchè si parli solo del suo pessimismo), un po’ malinconica.