Capriole finite bene di Julka Caporetti, Il seme bianco Ed. 2017, nota di lettura di Silvia Secco: io voglio la pancia piena e le guance rosse, Missis Colibrì.
Definire qualcosa significa limitarla, rinchiuderla all’interno di confini netti, impermeabili all’esterno. Posto che sia possibile dare definizione di ogni cosa – che non significa semplicemente nominarla, ma piuttosto distinguerla da ogni altra attraverso la nominazione – viene da domandarsi se questo sia non solo sempre necessario, ma addirittura a volte insensato. Come in questo caso, ad esempio. Abbiamo fra le mani un libro che abbiamo letto. Lo nominiamo libro, ne dichiariamo il genere – poesia – ed automaticamente lo riduciamo ad un oggetto contenente una aspettativa univoca: attraverso la definizione attuiamo una diminuzione, una semplificazione. Ciò che Julka Caporetti ha raccolto nell’ottantina di pagine di Capriole finite bene (Il seme bianco edizioni), invece, è molto altro da un diminutivo: è parola in quanto mondo, vivere vissuto, amore amato, flusso di coscienza. E’ poesia prosastica e prosa poetica. E’ scrittura, trascrittura, quaderno, appunto, registrazione. E’ consiglio, sorpresa detta, aforisma. E’ filosofia.
“Scrivo.
Cose mie. Cose per me. Cose per te che tengo per me. Non te le do. Non adesso. No no. Verrà il tempo, ma non è adesso.”
Cominciamo, allora, da questa onestissima, quasi bambina, dichiarazione di intenti dell’autrice, che attua da se stessa una completa rivoluzione lunare di ogni moralismo poetico e dice, controcorrente tanto ai poeti delle accademie che a quelli delle piazze, che si scrive prima di tutto per se, cose proprie. Se accettiamo – e forse dovremmo cominciare, ammettendolo, a farlo – che il principio motore della scrittura, così come di ogni urgenza di creazione artistica, si origina nel seno del proprio interno sentire, nel punto più profondo del taglio e nello strato epidermico più profondo e soggettivo, non ce ne stupiamo: rimaniamo in attesa delle rivelazioni, come fossero confidenze, doni per noi.
“Queste righe sono la prova di scrittura di una bimbetta delle medie, un fiume cascato
in fretta, un errore di stanchezza.
Sono voglia di te.
Nient’altro”
Per questo, per parlare di Capriole, chiameremo “righe” i versi e “testi” le poesie e le prose, la loro alternanza e compresenza. Alessandro Dall’Olio, nella breve nota al testo, parla di Capriole finite bene come di un taccuino aperto, ed è in effetti questa la prima sensazione che si ha al cospetto delle righe e dei testi. Eppure è l’autrice stessa a dirci di fare attenzione. Julka Caporetti, nella lettera di presentazione al libro, scrive: “La poesia è il mio input, la mia canalizzazione, il mio suggerimento soffiato nelle orecchie dal cosmo, l’idea iniziale; poi si trasforma. Sa trasformarsi, a volte. Altre volte restare”. Allora, se prendiamo questo dono di parole come autentico umano, generosamente esposto, condiviso, dobbiamo guardare al lavorio di levatura di testi come questo, più tradizionalmente poetici, pieni di liriche corrispondenze (con la splendida “corona” che non può non riportare alla memoria Paul Celan – poiché dopo Celan ogni corona, poeticamente, rimanda il suo nome -):
“ma l’oro si deposita sul mio capo
e ciò che avviene
è semplicemente
un incontro
tra corolla e corona.
I nostri gioielli si fondono
e nasce un serto
splendido
un’alternanza di indaco e bianco
è il nuovo colore
che fa di noi
noi:
una miscela inimmaginabile
una venatura di aurora boreale
l’impossibile che diventa possibile
un alto tasso di occupazione per la gioia”
tanto rispettosamente come al “lascito” di immediatezza di queste righe: piccoli elementi del flusso del pensiero, liberazioni:
“Fotografami adesso, adesso che mescolo la macedonia con le mani, adesso che infilo
tutte e due le mani nella frutta, adesso che mi sporco col succo delle more, adesso che
ne esco con le dita fresche e immerse, ne esco ma immerse, le dita, immerse, ne esco
ma non ne esco, dalla frescura. Fotografami adesso, adesso che non si capisce niente
di quello che scrivo. Avanti, su. Scatta.”
In entrambe le modalità di espressione, ciò che troviamo è ciò che ci rimane sulla lingua: una diffusa dolcezza. Un affinamento – l’olio essenziale – frutto ed estratto del lavoro di scrittura, che in questo caso parte dal vivere quotidiano per tornarvi, dopo la riflessione, la rilettura, il ricordo che ne sublima la contingenza e la fa universalmente comprensibile.
“Accendo le candele. Prendo il flaconcino del mio olio essenziale di patchouli e
origano, metto la solita goccia sul piede sinistro, la solita goccia sul palmo destro.
Eseguo il mio breve rito per sanare la ferita dell’abbandono, rito che forse un giorno ti
spiegherò.”
La poetica di Julka Caporetti si lascia scoprire, in questa pluriscrittura, come intensamente femminile – fanciulla e donna, figlia e madre insieme –, capace di incantesimi, di piccoli colibrì, di pollini succhiati e nettare profuso.
“E allora sa che faccio Missis Colibrì? Esco a comprare qualcosa di azzurro.
Un respiro nuovo è un’opera di alta stregoneria, una sciocchezzuola col turbante in
testa, un’apparizione fluttuaria, un ocello esibito sulla copritrice di un pavone in
calore, un labaro frangiato di oro. Un respiro nuovo è la notizia di una vittoria,
dovrebbe essere accolto con danze propiziatorie, con ‘Hooka Hey’ e occhi cerchiati di
giallo, con donne trecciute vestite di lino bianco che imbandiscono banchetti, con
vino rosso e carne e fuoco.”
Una poetica prima di tutto delicata, capace di gentilezza.
A lungo essa profuma.