Caro padre, poesie di Maria Pia Quintavalla.
Maria Pia Quintavalla, nasce a Parma, dal 1983 vive e lavora a Milano. Poetessa e narratrice, si occupa anche di critica letteraria e collabora con l’Università Statale di Milano. Si è laureata in Pedagogia al Magistero di Parma.
È autrice di numerosi volumi di poesia. Cura seminari e laboratori sulla lingua italiana e sul testo poetico presso diverse istituzioni, tra cui: l’Università Statale degli Studi di Milano e di Parma, Archivi del ‘900, Libera Università delle Donne, Società Umanitaria di Milano, il Festival Nazionale “Donne in poesia”, l’I.S.U (Istituto di Studi Umanistici), “Poetiche”.
I suoi testi sono tradotti in diverse lingue: inglese, rumeno, serbo-croato, spagnolo, francese e tedesco.
Vi proponiamo una selezione dell’autrice di testi dai suoi “I compianti” Effigie ed. 2013 e “China. Breve storia di Gina tra città e pianura” Effigie ed. 2010:
Caro Padre
Caro padre
dal cappello e cappotto infagottato
come un uomo dell’ultima guerra
che fu soldato, maestro povero,
poi deportato; infine fu salvato
e ritornato, qui generò la sua secondogenita
uscita da un getto d’amore imprevisto,
un interruptus che mia madre non pensava,
facendola pregna –
Caro padre,
senza nessun foulard o corona,
si mantenne agli studi mentre lavorava,
che sgobbando ricordava
cosa è la fame –
Che la fame provò,
il tormento della tentazione
a morire scappando a piedi
dal campo di lavoro, coi russi alle calcagna,
i tedeschi dal fucile spianato;
che incontrò China e visse
più di un sogno una pittura come beltà
paesaggio che attendeva,
che della miseria fece modestia e vanto
tacitando la paura,
che rivoltò cappotti e tasche
per dare il pane a China, creatura
di regale aspetto mentre lui rude,
dal profilo adunco che allattava
e, per non essere affamatore
diventò affamato.
*
Il padre
Quell’altra bocca, quella intessuta al viso
e quell’acre odore stupito che sorride,
come una mezzaluna guarda affaccia
dove ti specchi,
acqua chiara, nube anche tu quel viso
sempre amato, capitato a te accanto,
icona più addensata e pura:
forse lo amavi perché lo indicavi col gesto
fiducioso della mano, esso lo specchio
di quest’altro più piccolo
sorriso a mezzaluna, della manina (lingua e cuore)
che gli si tendeva, t u a. Oh figlia strema
giù in attesa, saggezza a mezzogiorno,
filigrana alla finestra dei bei sogni,
e voci
su più tenui prati che su più bianca strada
un suo destino sogna.
*
Qualcuno dice che parlasse dall’erba
medica anche agli asini, e i suoi cani,
o cavalli non avessero più soggezione
di lui amico, che del maestro
in scienze e lettere.
Ma i sogni sono tanti e vani e
di colore azzurro chiaro,
e gli occhi suoi erano grigio cilestrino.
Così se lo ricordano, il naso lungo
le mani belle, il fisico da sano contadino.
Ecce vivo tu re – di un rosso
Amico – Vale, ad altri e
a noi nel cuore.
*
Nel pomeriggio,
prendendole le mani, neppure tiepide
ma profumate, e piene di un odore dei vivi,
le posavo sulla mia testa a riposare
coricando il mio viso sul liscio del lenzuolo,
le sue mani posandosi lì, morbide o vive,
un po’ docili nella posa,
ma non incerte sui miei capelli, quelle ore
di carezze immobili sono state
la nostra beatitudine prima.
*
Come sei bella, ti affrettavi a dirmi,
cominciava così il tuo testamento oscuro:
le carezze frequenti che facevo
da te sentite come addii
stimolavano una materna voglia di lodarmi.
avevo indosso una maglia sottile
e la formosità appariva snella,
fisicamente più del solito ti somigliavo
mentre attiravo a me il tuo polso sottile,
le mani piccole che ho amato tanto,
narrarono in un gesto di benedizione
quel testamento a cielo aperto,
giovane, inatteso come pioggia
su uno sconvolto
un già assegnato destino, mutava forse ora
le fondamenta di una vita
assuefatta al tradire di sé, al colpirsi sordo?
Così era scritto.
*
Come la storia del fratello prediletto, accompagnato a casa
già morto annegato, a braccia dai paesani,
poiché l’altro, il più piccolo non era riuscito a muoversi. a gridare
a trarlo in salvo dal letto del torrente Parma
dove era andato ad imparare il nuoto.
E tua madre nel riconoscerlo era impazzita,
si era strappata i capelli e già gridava non si sa quali grida,
Accorrete correte! e tutti tornavano lentamente a casa
dove lasciarsi fulminare poi dalla visione.
E il fratello maggiore, i parenti e amici tutti tornavano, dai campi
verso sera, ma lui solo Glauco non poteva tornare
il più dolce sensibile, il più a te vicino che ti aiutava
a proteggerti dal mondo.
E tu là ragazza, unica femmina incapace
d’avvicinare la madre, sempre lontana e dura
che strappandosi i capelli sulla scena di casa,
rendeva pubblico senza più remore lo strazio,
e sul dormiente urlava senza più fiato lo chiamava indietro,
e a te nessuno che prendeva le mani che calmava.
*