Il filo che lega Il bianco delle vele e La firma segreta: Luigi Paraboschi su Franco Casadei

Il filo che lega due Libri di Franco Casadei “Il bianco delle vele“ e “La firma segreta” è lo stesso, di Luigi Paraboschi.

    

    

Un libro di poesie rappresenta sempre per un lettore appassionato al genere un impegno cognitivo non facile, se non vuole limitarsi al semplice ”mi è piaciuto” oppure ”non mi è piaciuto”.
Ed il maggiore sforzo di tale impegno è per me costituito dalla ricerca del punto focale dal quale l’autore esaminato prende avvio e sul quale egli costruisce tutto il suo lavoro, effettuando una selezione accurata dei testi da inserire in   una raccolta con i quali costruire la spina dorsale del suo scritto.
Io parto sempre dal principio che se in prosa si può anche inventare qualcosa, oltre che alla trama, alle storie, ai personaggi che non abbiano niente a che fare con il vissuto degli autori, questo non sia possibile farlo in poesia : qui non si può far finta che i versi non appartengano all’esperienza attraversata da ogni poeta,  egli può velarne l’aspetto più evidente, può nascondere dietro una accurata ricerca linguistica le sue emozioni, può intorbidire le acque del suo linguaggio allo scopo di nascondere una mancanza di verità del suo lavoro, ma se il lettore è attento, non cade nell’inganno e prima o poi centra la verità fondativa che sta alla base del lavoro.
E questo è successo a me quando mi sono imbattuto nei due libri del Casadei, ma ancora di più mi è stato utile per arrivare meglio al suo punto dolente servirmi di un opuscoletto (definirlo raccolta è eccessivo) dall’autore dato alle stampe nel 2009 e dal titolo ”Bruno e Rosalba” per celebrare la scomparsa di due suoi fratelli affogati nel 1949 dentro la melma di un torrente della campagna del Cesenate alla tenera età di 11 e 12 anni. Accompagnato dalla prosa della descrizione degli avvenimenti occorsi alla sua famiglia in quel lontano settembre del ’49 mi sono reso conto di come la formazione poetica (almeno a livello di interiorità) di Casadei abbia avuto inizio da quel giorno, anche se egli allora aveva solamente 3 anni, perché quella data è stata decisiva per le sue scelte di poesia degli anni che sarebbero venuti.

Egli scrive, parlando di allora:


quella sera, dopo la fiumana,
la riva sfaldata al gioco
delle vostre corse ingenue
non siete tornati 

e io di tre anni, tre giorni
sulle ginocchia di mia madre
abbracciato al suo dolore. 


e io, tre giorni su quel grembo
duro di singhiozzi

A me riesce abbastanza facile accettare che la giovane età di allora del nostro autore fosse tale da creare in lui una coscienza del dolore; so per esperienza di altre persone toccate nell’infanzia o anche nell’adolescenza da lutti famigliari che hanno riportato traumi lancinanti anche fino in tarda età, ed alcuni di essi, pur se quasi centenari, ne conservano una memoria lucidissima
Quindi è alla luce di quei ”tre giorni sulla ginocchia di mia madre” che ho ricavato il ”filo” che attraversa molte poesie dei due libri di cui vi parlo, ma in modo particolare, il primo dal titolo:

722Il bianco delle vele”

Il primo nodo nel quale ci imbattiamo leggendo è il senso profondo della morte che è vissuta come la visitatrice che toccherà a tutti noi, prima o poi:


noi tutti, come lei saremo presi/nel cuore di una notte, ribaltati e presi”

e più avanti:


nessuno è immune dalla sua fine/e ogni ora è per l’uomo l’ora estrema

       

e ancora:

Non c’è ragione al morire/si ha un bel dire :/è un decorso naturale/Sindone nera, la morte,/
buio fondale./
Dovremo comunque attraversarla/nell’attesa che la notte deflagri/e ci svegliamo dall’offesa

Ma se di fronte allo sgomento per la tragedia del vivere c’è chi trova le risposte dentro il fortilizio della ragione, facendo ricorso a quella filosofia illuminista che spesso è incapace di uno sguardo verso il trascendente, come in questa che riporto per intero

la pretesa di misurare il mondo,
il suo confine, come avesse inizio e fine,
scopo con furia perseguito,
la realtà ostinata
più estesa della mia veduta. 

Infitto nel mio perimetro di spazio
-nell’interstizio di tempo che è la vita –
alterno frammenti a voli,
Ci sarà un’orbita imprevista,
dopo questo viaggio,
un punto mio che resista

il nostro autore invece cerca di ritrovare dentro la fede l’origine del male e scrive questi versi dai quali si deduce la profonda convinzione, cioè che il male è dentro di noi

Un veleno inquina le falde della vita,
siamo malati dentro,
grano infecondo che non spiga.
Mischiata alla luce, innata
c’è una pulsione torbida nel cuore. 

Il male
è accovacciato alle mie porte 

Il constatare il proprio limite di essere umano, il conflitto permanente tra ciò che si vorrebbe e ciò che invece siamo lo porta a scrivere:

Vorrei lo spazio aperto degli uccelli
sfidare il peso della terra che mi attira
osare il volo senza alcun riparo
non mi basto più 

tutto mi spinge fuori

Ma dalla presa di coscienza del fatto che il male ce lo portiamo dentro scaturisce un’invocazione per un aiuto superiore:


tu che come l’ape/trasformi il sole in miele/e muti la pioggia in foglie,/fa che io lasci cadere il sasso di Caino/fiorirà la gioia nel fondo delle cave

e questa invocazione al Cielo appare ancora più chiara qui quando leggiamo:

ho bisogno di negarti,
voltarti le spalle,
sentirti assente
per cercarti 

non voglio abituarmi a te
voglio aspettarti 

scalfisci la pietra,
la mia,
dai forma al sasso 

lascerò spiragli 

E’ un’anima che cerca le risposte, e che passo per passo si sforza di ritrovare il senso di ogni cosa:

In questa vita di turbolenze
di svegli puntate alle ore presto
resta un soprassalto amaro,
il veliero ha incrociato un altro scoglio 

l’enigma irrisolto,
la mancanza sento,
la firma segreta che sta dentro le cose 

(evidenzio queste due parole perché saranno il titolo del libro successivo del quale parlerò tra poco)

Dentro questo spiraglio nella pietra si annida la sete, ma per saturarla egli sa che troverà l’acqua, ed infatti scrive:

Se c’è la sete
l’acqua si troverà
da qualche parte 

Ciò che manca
c’è. 

Casadei rivela un animo di cristiano tormentato, sempre alla ricerca di risposte a spiegargli questa vita che sembra volerlo deviare con risposte facili dalla sua ansia di liberazione interiore, che talvolta egli riesce a placare nei momenti di relax che possono anche derivare da una sosta in una chiesetta di campagna:

nella campagna solitaria
o nel tumulto di strade cittadine
trovare una chiesa con la porta aperta
in un giorno qualsiasi
che non sia di festa. 

Entrare in una chiesa
da soli in orari inusuali
per abitudine, per impulso
-piove e sei senza l’ombrello –
a chiedere, a starsene lì muti. 

Un cenno davanti al cero rosso,
alla Vergine, a quel crocifisso antico
che- dicono- faccia grazie
e guarda te, come ti aspettasse. 

Seduto ai bordi della panca
ti togli gli occhiali,
un caso sarà, sarà un miracolo :
uno c’è sempre – almeno uno-
che prega o non prega. 

In una chiesa, in un giorno feriale
non i fiori, gli ori, gli altari,
ma quel silenzio, la sua poca luce
da dove nasce tutta quella pace… 

Ma ancora la pace egli la trova quando ritrova le sue origini di uomo fondamentalmente “di campagna”. Anche se la vita e la professione che svolge lo costringono ad abitare in città, egli ritrova veramente se stesso in questi versi che hanno il sapore di una rivisitazione di una famosa poesia di Giovanni Pascoli:

Torno alla mia terra, alle mie colline
fra i colori di un’estate prolungata 

ho custodito questo sguardo largo
Bertinoro, la sua rocca
la Pieve di Polenta
le vigne che mani contadine hanno dipinto
fra case e macchie di boscaglie 

lontano, là
l’ultimo lembo di piana
e all’orizzonte infinito il mare
che nei giorni di chiaro
regala il bianco delle vele 

sono nato qui
e qui respiro

     

9788852604843_0_0_1000_80L’altro lavoro sul quale vorrei intrattenere i lettori è intitolato ”La firma Segreta”.

Se in una poesia precedente vi avevo pregato di annotarvi questi versi per fermare la vostra attenzione sulla ricerca che il nostro autore compie per scoprire il disegno che c’è dentro ogni piccola cosa del nostro vivere – ed egli è perfettamente consapevole su chi appartenga questa firma segreta – questo libro vuol fare riferimento ad una firma reale che figura essere la base ispiratrice delle poesie raccolte nel volume.
L’autore, nella presentazione, spiega che egli ha tratto spunto per il suo lavoro da numerosi articoli della giornalista Marina Corradi, i cui articoli sono motivo per una rielaborazione sintetica in forma poetica, di situazioni, condizioni di vita, stati d’animo che non possono non avere sedotto e colpito il nostro autore, considerando le premesse che abbiamo fatte nostre attraverso il libro precedente.
Casadei non può non riflettere sui mali del nostro tempo, tra quali la solitudine tra gli individui che vivono nella stessa città e talvolta anche nello stesso ambiente, è il maggiore.
Quante volte abbiamo sentito dire in Tv o letto sul giornale questa dichiarazione”era una persona normale, niente che facessi supporre”, ma l’autore, attorno alla banalità di questa affermazione desolata, riesce a costruire questi versi che ci dovrebbero far riflettere

     

Dietro a tante cronache dolorose
in realtà, più che una cattiveria
c’è un nostra assenza,
lo sguardo indifferente e distratto
di chi sta accanto, ma non vede. 

L’indifferenza non è un reato,
però corrode il nostro stare insieme
questo vivere in fondo per sé soli. 

Dentro una spesso diffusa solitudine
la routine quotidiana talvolta
s’inceppa fino a deflagrare. 

Attorno non sanno, non immaginavano,
non hanno visto nulla.
Ed è vero, ma è proprio
in questa collettiva diffusa distrazione
attenta solo ai propri pensieri,
che covano le tragedie,
quella di cui nessuno sa spiegare la ragione 

C’è una poesia dal titolo”Nighthawks”che riprende pari pari lo stesso titolo di un famoso quadro di Hopper che ritrae la solitudine cittadina degli ultimi avventori di un bar che sta per chiudere, ce n’è un altra che ritrae il rientro a casa dall’ospedale di una vecchia coppia di coniugi, il cui marito parla ancora alla moglie deceduta come se ascoltasse:


ma lui, – ignaro ? Continua a parlarle,/le dice che ha fatto la spesa,/in frigo c’è qualcosa d mangiare.//
I giovani lettighieri e io ammutoliti/per questo addio fra vecchi sposi./Il marito inizia a palarmi lieto, per un istante,di violare la sua murata solitudine//

Ce n’è un’altra intitolata ”I clochards” che dice:


Due, ancora giovani, piazzati/l’uno accanto all’altro i sacchi a pelo,/si mettono a contare una manciata/di spiccioli, la cassa di giornata.//
Un vecchio invece si è sdraiato, quasi dorme,/stretto a un cane come un bambino/che la sera stringe il suo pupazzo,/così che anche un uomo da tutti abbandonato/può avere, la notte, qualcuno da abbracciare//

Questa che segue invece è un come il ritratto che Boccioni fece quando mise sulla tela quel meraviglioso quadro dal titolo ”La città che sale” parlando di Milano.
C’è una serie di versi che descrivono con cura tutti i movimenti che gli individui compiono ogni mattina, prima in casa, poi uscendo per recarsi al lavoro, c’è il frastuono delle auto che si rimettono in circolazione, eppure in mezzo a questa frenesia l’autore fa una riflessione in linea con il suo pensiero di credente:


Eppure, nell’affrettarsi sui banchi e negli uffici/una grande domanda resta nell’aria/in questa mattina d’autunno, nel cielo di Milano//

E’ la domanda che tutti ci sentiamo rivolgere dentro, ogni mattina, quando cerchiamo, forse senza trovarlo, il senso delle cose che siamo costretti a fare, e Casadei non ha timore di dichiarare nella poesia che riporto per intero, quale sia la sua risposta, riallacciandosi dall’inizio alla tragedia che, come abbiamo visto, lo ha colpito fino dall’infanzia:

Già nell’infanzia
era passata la morte in casa mia,
ne riconoscevo le tracce dappertutto. 

Immaginavo che la salvezza dal dolore
fosse nella divina indifferenza di Montale,
nella siderale lontananza di certe statue
nelle piazze di provincia
nelle ore più calde dell’estate. 

Un giorno mi si è soffermato lo sguardo
su un crocifisso appeso a una parete,
in ospedale. 

Di dolore e di morte
ce ne sono ancora smisuratamente intorno,
ma si è aperta una faglia dentro il muro.
Mi si è insinuato il dubbio
che davvero in quella croce
tutta questa immensa sofferenza
sia stata strappata al nulla ed abbracciata. 

Dentro questo sguardo, comincio ad intuire,
hanno un senso anche le giornate amare.
Non è l’indifferenza delle nuvole
che ti permette di stare davanti al male,
ma quella croce forse
e l’accettarne ogni mattina
un piccolo frammento sulle spalle. 

Ci sarebbero altri testi attorno ai quali fermare la nostra attenzione, ma credo di averne riportati abbastanza per permettere di costruirvi un’idea precisa sul credo profondo di questo uomo e medico che, amando la poesia, attraverso di essa, è stato capace di andare oltre il trauma di una sciagura giovanile che avrebbe potuto costringerlo chiuso dentro uno scetticismo alquanto diffuso nella nostra società, ma che egli invece ha saputo superare e leggere servendosi di una chiave di lettura non frequente nel mondo della poesia, ed io, condividendola fino in fondo, mi sono sentito in dovere di far conoscere il suo lavoro ai miei pochi lettori di questo sito.
Sul piano stilistico, si può talvolta non essere sempre d’accordo con la scelte lessicali del poeta, o con il taglio dei suoi versi, però a me appare chiaro che si debba andare oltre questa differente sensibilità quando ci si rende conto della profonda umanità che intesse tutto il suo lavoro.

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