Che spettacolo di natura! di Sergio Sichenze.
«L’occhio non vede cose, ma figure di cose che significano altre cose»
Italo Calvino, «Le città invisibili»
La suggestione iniziale vorrei affidarla a Gesualdo Bufalino, autore ufficialmente considerato tardivo nel suo affermarsi come scrittore, ma che, una volta fuoriuscito da Comiso e incoraggiato da coloro che lo ammiravano, ha potuto rivelare il suo mondo: l’infinita catasta di saperi che ha filtrato con un setaccio finissimo.
«Dicono gli atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri d’onore. Si avrebbe però voglia di dubitarne, quando si pensa che al concetto d’isola corrisponde solitamente un grumo compatto di razza e costumi, mentre qui tutto è dispari, mischiato cangiante, come nel più ibrido dei continenti. Vero è che le Sicilie sono tante, non finiremo mai di contarle.» (Gesualdo Bufalino, Nunzio Zago, Cento Sicilie. Testimonianze per un ritratto, Bompiani Editore, 1993).
Il titolo scelto, «Che spettacolo di natura!», trova conforto nel pensiero di Bufalino, il quale, partendo immaginariamente dalla Sicilia, ci conduce nel cuore della riflessione, poiché ciò che a prima vista potrebbe apparire: «la Sicilia è un’isola e sarà vero», insinua dubbi a tale affermazione.
«Gli atlanti sono libri d’onore», è il manifesto richiamo all’orazione di Bruto e Antonio (William Shakespeare – Giulio Cesare, Atto III, Scena 2), che pone il lettore nella condizione di ascolto, di essere disponibile a prendere in considerazione un altro punto di vista, una diversa angolatura della presunta realtà oggettiva. Il dubbio, che Bufalino instilla, è alla stregua della provocazione visiva de «La Trahison des images» (Il tradimento delle immagini) del pittore surrealista René Magritte, che raffigura l’immagine di una pipa con la didascalia: «Ceci n’est pas une pipe» (Questa non è una pipa), volendo rimarcare la differenza tra l’oggetto reale e la sua rappresentazione.
Questo articolo propone, proprio come qualunque revisione culturale, l’alterazione dei significati, che, in altri termini, vuole dire attribuire in modo non definitivo un senso nuovo a qualcosa di esistente.
Il termine ambiente, oramai lo sappiamo in quanto ne abbiamo fatto esperienza, è da tempo modificato, perdendo i suoi confini di “natura”, per conquistare spazi, territori e tempi, in cui la fragilità del pensiero disciplinare e determinista è evidente.
Ma a quale natura ci riferiamo?
I sistemi ambientali, in quanto reti complesse, sono un intreccio non separabile tra ciò che potremmo considerare naturale, prossimo naturale, coltivato, costruito alle diverse scale di urbanizzazione, tecnologico e artificiale. L’ecologia del paesaggio, ad esempio, definisce paesaggi culturali i sistemi ambientali massimamente diffusi in Europa, frutto della continua co-evoluzione tra uomo e natura, quali paesaggi armonici. Già così appare chiaro che definire ciò che è strettamente naturale rappresenta un tentativo che si avvicina a un esercizio teorico.
Sulla dimensione naturale e sul suo grado e livello di conservazione, preservazione e difesa, si fonda la politica internazionale delle aree protette. Valerio Giacomini (nato in Friuli e docente all’Università di Catania) in «Uomini e Parchi», (Valerio Giacomini, Valerio Romani, Uomini e Parchi, Franco Angeli Editore, 1982), riteneva che la conservazione della natura dovesse avere un andamento centrifugo, ovvero dall’area protetta riverberare verso l’esterno l’azione di gestione ecologica (oggi diremmo sostenibile) del territorio. Lo stesso Giacomini, precorrendo i tempi, concepì l’ecologia come «un discorso che rivoluziona le idee, le concezioni scientifiche e filosofiche su scala universale: è una nuova visione del mondo, che parte da realtà naturali e si eleva ai problemi delle più complesse responsabilità morali, che parte da infinitesime strutture della vita e della materia per espandersi in una visione cosmica. In un mondo dominato dalla frammentarietà, dalla dissociazione, dagli antagonismi distruttivi, viene rivendicata una grande solidarietà di tutti gli esseri, un comporsi delle contraddizioni entro il gigantesco disegno unitario della natura».
Seguendo le suggestioni di Giacomini, le domande da porsi sono: la gestione dei territori ricompresi nei confini dei parchi, ha contagiato l’esterno? La natura al di fuori delle aree protette come è rientrata in un progetto pianificatorio del territorio?
A ciò che possiamo oggi registrare, l’azione mondiale della conservazione della natura non sembra aver avuto influenza sulla gestione della maggior parte del Pianeta, sia se parliamo di terre emerse che di mari od oceani. Se solo ci riferiamo al nostro Paese, problemi come il consumo di suolo, il dissesto idrogeologico, gli impatti antropici massicci soprattutto nelle aree urbane, non hanno visto un arretramento o una modifica rispetto al passato, anzi è evidente l’acuirsi di tali problemi. Di conseguenza, i progetti territoriali di sostenibilità, i processi partecipativi nella gestione dei sistemi ambientali, fortemente interconnessi con la dimensione sociale ed economica, hanno richiesto metodi e strategie differenti, discostandosi, gioco forza, da prassi e attività che vedono la natura come centro della riflessione, natura intesa come naturalità degli ecosistemi.
Utilizzando la metafora della mappa di Alfred Korbyzki, l’uomo deve rendersi conto che la propria mappa mentale, che ciascuno costruisce per comprendere la realtà che lo circonda, è solamente un paradigma di fenomeni ben più complessi. Egli soleva ripetere che «la mappa non è il territorio», infatti i nostri sensi riescono a concepire la realtà solo in modo parziale perché funzioniamo in maniera tale che la nostra mente è soggetta a distorsioni, generalizzazioni e cancellazioni, così come accade per il linguaggio, visto che può indurre o auto indurre mappe limitate e generiche.
Sulla scorta di tale riflessione, anche la natura, il suo paradigma primordiale, è tenacemente ancorato a una visione stereotipata, che via via è stata utilizzata per essere camuffata, alterata, trasmutata in altre sembianze.
La natura si offrì come paradigma e come spettacolo nel periodo 1850 – 1890, lasso di tempo in cui gli Stati Uniti d’America combatterono una delle più atroci guerre civili e, contemporaneamente, compirono il pressoché definitivo sterminio dei nativi americani, per giungere con il loro “progresso” alle coste del Pacifico.
Nel 1872, fu istituito il Parco Yellowstone, il più antico parco nazionale del mondo.
La nascita dei grandi parchi naturali Nordamericani, nella seconda metà dell’800, costituisce un esempio a elevato valore simbolico. La muscolare esposizione della wilderness rappresenta un cambio culturale profondo, dove il selvaggio domato è, al tempo stesso, amorevolmente protetto e mostrato: uno spettacolo in piena regola. Una deriva secondaria della irrefrenabile conquista di vastissimi territori, sottratti ai nativi e alla medesima wilderness, orgogliosamente mostrata nelle aree naturali protette: dimensione di natura confinata e da esposizione. Quasi un atto compensativo della predazione.
Con un salto temporale copriamo la distanza di qualche decina di anni, che nella scala del tempo bioecologico è ininfluente, che, viceversa, rappresenta uno spazio temporale nel quale il rapporto uomo-natura è stato drammaticamente alterato.
Lo Svalbard Global Seed Vault (deposito globale di sementi delle Svalbard) esiste dal 2008 ed è il più grande caveau di semi del mondo: si trova nell’arcipelago delle isole Svalbard, sull’isola di Spitsbergen, a 1.300 chilometri dal Polo Nord, ed è stato costruito per «resistere al tempo e sopravvivere a disastri naturali e causati dall’uomo». Una sorta di “arca di Noè della biodiversità”: 13mila anni di agricoltura mondiale, conservata trai i ghiacci. Lo spettacolo è affidato a una natura conservata, sempre che i cambiamenti climatici in atto non provvedano a rendere vano anche questo deposito artificiale. Le chiusure hanno porte di acciaio di notevole spessore, e la struttura è costruita in calcestruzzo in modo da resistere ad una eventuale guerra nucleare o a un incidente aereo.
Dalla natura sospesa delle Svalbard alla natura artificiale delle Palm Jumeirah, il passo è breve. Palm Jumeirah è una serie di arcipelaghi artificiali antistanti a Dubai. Visto dall’alto, tale artificio, ha la forma stilizzata di una palma, ed è stata la prima area di sviluppo urbano di questo tipo realizzata sull’acqua, originariamente promossa come l’ottava meraviglia del mondo; forma purissima di spettacolarizzazione della natura, con tutti i suoi corollari evocativi.
Nel libro “Jurassic park” (1990), Michael Crichton, medico e romanziere, affida al personaggio di Ian Malcolm, matematico dei sistemi caotici, la riflessione e gli interrogativi sul modello di sviluppo dell’Umanità: «La vita vera non è una serie di eventi legati tra di loro che si verificano uno dopo l’altro come le perle di una collana. Gli eventi della vita sono in realtà una serie di incontri in cui un evento può modificare in modo imprevedibile, e talvolta tragico, tutti gli eventi successivi».
Crichton, pone una questione paradossale, anche se paradigmatica sul concetto di natura: la ricostruzione di un mondo evolutivamente scomparso per puro divertimento. Uno spettacolo di natura che avrebbe dovuto stupire il mondo, traendone, ovviamente, enormi profitti economici. La distorsione del mito del Titano Prometeo che dona all’umanità il fuoco, strumento fondamentale per il progresso della civiltà, fino ad allora detenuto dal grande Zeus.
Crichton, afferma un concetto di etica naturale, che è anche etica universale: «la storia dell’evoluzione ci mostra che la vita sfugge a qualsiasi barriera. La vita finisce sempre col prevalere. La vita dilaga in nuovi territori. Magari con fatica, sfidando il pericolo. Ma la vita è inarrestabile».
La natura dei luoghi, e i luoghi della natura, devono, dunque, disancorarsi dalla funzione di arredo urbano, di spazio organizzato in lotti dove dormire, lavorare, produrre, divertirsi. E, soprattutto, dove mostrarsi: giardini, parchi, riserve orientate, non orientate, speciali!
Il quadro culturale aderisce pertanto alla complessità delle dinamiche ambientali, sociali ed economiche in atto. «La periferia naturale» , come la definisce Giorgio Osti, delle aree protette, appare sempre più marginale, senza, come sopra richiamato, aver contagiato l’esterno, nella sua fondamentale azione di gestione ecologica del paesaggio.
Immersi in uno spazio sempre più digitale, la percezione della realtà si modifica. La natura è contemporaneamente evocata da immagini di paesaggi incontaminati, a costruzioni tridimensionali di videogiochi, a natura come sogno ed evasione turistica, a natura ricostruita.
Le città sono continue, secondo l’intuizione anticipatrice di Italo Calvino: «il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città (…) I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano».
Nelle città continue ritroviamo brandelli di natura, frammenti di ecosistemi banalizzati, invasioni di piante ruderali e aliene a quel contesto, così come sono presenti giardini di varie dimensioni, parchi pubblici, quali luoghi per lo svago e il ristoro. La città non termina, si espande, si sussegue, si ripete in schemi e strutture con una destinazione d’uso quasi esclusivamente abitativa: qualche supermercato, centro commerciale, rotonda.
All’interno delle città si assiste allo stridore tra quartieri, tra un centro come frammento storico e periferie smisurate.
Le città contemporanee, nella loro drammatica contraddizione, sono luoghi del cambiamento, così dichiarato dal produrre ferite. Ma è da quelle lesioni, come da una spaccatura sul fianco di un vulcano, che fuoriesce il magma, il ribollire, la vita nuova di coloro che non hanno scelto il silenzio. E così, per contagio, deve avvenire verso i luoghi falsamente statici: contrade sperdute, disattese, romite, che tali non sono, perché nulla è immutabile, ma, soprattutto, nulla è a sé stante: diviso, separato, altro.
Ed è qui, in questo scontro e incontro di dimensioni e di realtà contemporanee, che si posiziona il fronte della riflessione sulla natura. Dove la contraddizione è più viva, evidente, aspra.
La difesa del parco Gezi dalla speculazione edilizia, uno dei pochi parchi rimasti a Istanbul, innescò, nel giugno 2013, un’ondata di proteste che invasero l’intera Turchia, costituisce un nuovo paradigma. Sostenibilità vuol dire democrazia, e quindi diritti civili, partecipazione ed espressione di cittadinanza. Ed è in tale visione che la natura ritrova il suo spazio, non più separata, affidata alla cura e alla protezione in geografie distanti.
In Sicilia, Palermo è orizzonte di cambiamento con il «Parco Uditore (…) un bene collettivo affidato alla tua cura e fruizione, (…) un luogo di incontro e di scambio, un laboratorio urbano dove poter far circolare liberamente la cultura e far germogliare nuovi stili di vita basati sul benessere e sulla solidarietà. E’ un luogo dove poter ritrovare la pace e il contatto con la natura». Ecco concretizzarsi il cambio di paradigma, l’impegno di una cooperativa che si muove per promuovere «un percorso partecipato, unico nel suo genere, che sta vedendo coinvolti cittadini, professionisti, istituzioni e imprese, che hanno operato insieme con l’unico scopo del bene comune».
A Palermo, il «Laboratorio ZEN Insieme» nasce nel 1988 come «risposta alle esigenze che arrivano da una periferia, in cui gli abitanti avevano occupato abusivamente gli edifici di edilizia popolare appena ultimati, per sfuggire da un centro storico dove le abitazioni, danneggiate durante la guerra, continuavano a crollare per l’incuria delle istituzioni».
Un pensiero ultimo, che apre al poi, al nuovamente, all’Io non senza il Noi, lo dedico a Danilo Dolci, anch’egli del Nord-Est (Sesana, oggi in Slovenia, ma già provincia di Trieste), catturato dalla Sicilia delle lotte e del pane, della luce accecante, del diritto e della dignità del lavoro, del silenzio voluto, mai dell’essere ammutoliti dal timore.
«Rifiutati a sparare soluzioni:
senza dileguarti, apprendi
a riproporre agli altri le domande.
Rifiuta il disdegnoso volo:
cura fondare il fronte
più necessario
in cui ciascuno cresca».
…« ho avvertito netta la necessità di valorizzare la sottile possibilità della poesia per contribuire a rispondere all’interrogativo: di che qualità volevamo lo sviluppo per cui ci impegnavamo».
Dolci Danilo, Poema umano, Giulio Einaudi Editore 1974.