Chiamata a carico di Vito Panico, ed. Esperidi 2014, note di lettura di Paolo Polvani: i pomodori sul comodino.
Si annuncia come un’epopea di pianerottoli, con tutti quei richiami alle zie, e ai pomodori sul comodino, ma subito si spalanca l’alfabeto di una città, che poi è Milano, la Milano di un terremoto, con quei seni tremolanti come ugole su note alte, e allora comprendi bene che anche i pianerottoli hanno diritto di cittadinanza poetica, a patto che siano lucidati con la sana ironia che contraddistingue un destino che viaggia sulle soglie della disperazione, come a tanti giovani è toccato in sorte in questi sciagurati anni. Il libro si snoda attraverso una rigogliosa sequenza di paesaggi, riconoscibili nella loro quotidianità: si comincia con la foto su feisbuch, e gli entusiasmi digitali, e poi questo verso: L’amicizia l’hai tolta prima cosa. E poi: abbiamo quarantuno amici in comune, e nessuno di questi siamo noi due. E a seguire: una collezione di amori falliti fin dall’età della placenta. E subito dopo una digressione, o forse meglio escursione ziesca, con l’agenda che prevede cimitero il martedì e legumi il lunedì, e panni sporchi a volontà. E ancora paesaggi domestici, pane e pomodoro permettendo, in cui trovare un nascondiglio efficace: terrazze, corti, vicoli bui con l’odore di legna umida, e soprattutto nei pensieri offesi della gente.
E’ interessante percorrere le strade di questo libro seguendo due direttrici contigue, che si intrecciano e si rincorrono. La prima dal carattere sociologico, quella fitta trama di situazioni caratterizzanti un’epoca, una generazione specifica, quei luoghi comuni a un’intera fascia di popolazione giovanile: – Quando arrivai in Irlanda lasciai che il tassista parlasse / e non era l’inglese dei libri -; e le camere di Hanoi che offrono ragazze di bellezza così inutile che è scomoda e vendicativa; e la partita dell’Italia in stallo, col ragazzo che chiede: a che minuto siamo Pizzul ?, e la forte esplosione nel cielo terso di Cappadocia; e Gerusalemme madre / prima frontiera d’Oriente. E inoltre le rapide incursioni a Santorini, e soprattutto il seguente quesito:- Amore non so / amore cos’è -, che probabilmente caratterizza la confusione di un’intera generazione, il suo smarrimento esistenziale; e l’internet cafè di Ginevra, e la raccomandazione iniziale: queste poesie sono da leggere accompagnate da vino rosso, o su una corriera, o di fronte al mare. A me fanno tornare alla mente Gianna Nannini: ragazzo dell’Europa, non pianti mai bandiera. Ma immagino si tratti di citazione anacronistica e fuorviante, come chi schiacci il naso contro il vetro di un acquario per meglio carpirne i segreti ma sia destinato a restarvi per sempre fuori. Mi pare doveroso sottolineare che sempre più si affaccia alla ribalta della poesia contemporanea declinata su un versante molto giovane una promettente generazione di autori salentini che fanno dell’originalità il loro passaporto, che sperimentano voci diverse, ben definite, e tuttavia caratterizzate ognuna da una buona dose di felicità espressiva, da una curiosità esistenziale nutrita di buone letture e buone frequentazioni, aperte al mondo e ai suoi infiniti intrecci di esperienze, non immuni da una accattivante gergalità, non gregaria, non succube, ma sapientemente centellinata e ben dosata, una generazione anche generosa di slanci e di attività, sebbene fiaccata dalla precarietà del lavoro, da situazioni sentimentali sempre più complicate, dallo sfavore di una società concentrata solo sulle possibilità di profitto e disinteressata a sfruttare al meglio energie giovani, vitali, promettenti. Una generazione ripiegata sull’ironia come ultima frontiera del disincanto e della disperazione. E che trova in feisbuch il suo feticcio comunicativo rituale, il terreno di scontro e di incontro, ambiente irrinunciabile e onnipresente. La seconda direttrice di marcia in cui far convergere la gioia della lettura di questo libro è tutta nel livello estetico, nel suo proporsi come modello comunicativo, nella varietà della versificazione. Per esempio:
Mia madre cammina per lunghi decenni
e non si ferma mai,
è il suo modo di grattarsi.
Oppure di questa, calligrafica:.
Si tratta di un polpo
Inerme giace la gelatina di ventose
per un collasso di gravità muscolare
lo sbattimento di carne la cagione seconda
agonia per asfissìa la ragione prima.
Inchiostro ovunque.
Il mare evidentemente commosso
piangente, invero,
gli copre il volto con un telo di onde.
Una poesia arricchita da rimandi, da citazioni colte, che affiorano senza alcuna pretesa di sfoggio, di esibizione, ma come parte di un tessuto che si è arricchito lungo un cammino di ricerca, di apprendimento, di esperienze, e che lascia emergere lampi, bagliori, echi del suo terreno di coltura. Il dettato conserva un tono volutamente basso, colloquiale, e tuttavia si avverte quanta importanza rivesta ogni singolo rapporto umano e quale orizzonte di umanesimo delimiti il perimetro entro cui si muove l’atmosfera della poesia.
Una poesia aperta agli ampi orizzonti del mondo, di respiro vasto, dal ritmo duttile, flessibile, e tuttavia consapevole delle fonti primarie, delle radici da cui ha assorbito la prima linfa, fin da quei pomodori sul comodino, dalla ricerca di lumache e di muretti a secco, di ulivi malati e di vecchie zie con i guardiani della castità, e infine:
Il mare non conosce nessuno
tantomeno un muratore su una bici
di ritorno dalle profondità di un giorno asciutto.