Mi fidavo del fiuto del suo sangue, poesie di Maria Pia Quintavalla

Mi fidavo del fiuto del suo sangue, poesie di Maria Pia Quintavalla.

    

    

Maria Pia Quintavalla è nata a Parma, vive a Milano. Libri: Cantare semplice (1984, Tam Tam), Lettere giovani (1990, Campanotto), Il Cantare (1991, Campanotto), Le Moradas (1996, Empiria), Estranea (canzone) ( 2000, Piero Manni, prefazione di Andrea Zanzotto ) Corpus solum, (2002, Archivi del ë900), Album feriale ( 2005, Archinto), Selected poems, Gradiva N.Y. 2008, China, (2010, Effigie), I Compianti ( 2013, Effigie), Vitae ( 2017, La Vita felice), Quinta vez (2018, stampa2009). Tra le antologie: Trentíanni di novecento (a cura di A.Bertoni, 2005, Book), Passione poesia, (2017 CFR). Numerosi i premi, finalista in cinquina al Viareggio. Dal 1985 cura Donne in poesia, le sue antologie e rubriche, fino a Le Silenziose Muse, Autori, Resurrezioni (Casa della cultura, Mi), Essere autrici /essere curatrici. Ha curato Bambini in rima (Atti su Alfabeta 1987). Conduce all’ Università degli studi di Milano laboratori di scrittura italiana. Tradotta in numerose lingue.

Le poesie qui proposte sono tratte da China (200-2002):

     

Nel pomeriggio,
prendendole le mani, neppure tiepide
ma profumate, e piene di un odore dei vivi,
le posavo sulla mia testa a riposare
coricando il mio viso sul liscio del lenzuolo,
le sue mani posandosi lì, morbide o vive,
un po’ docili nella posa,
ma non incerte sui miei capelli, quelle ore
di carezze immobili sono state
la nostra beatitudine prima.

*

Mi fidavo del fiuto del suo sangue,
della carezza ardente
che il suo piede indicava, all’inferno
era la storia per sempre risaputa,
di ragazze e gambe agili della pianura,
pezzo della sua strada al paradiso
quelle grida, sante dei giusti, oh madre
che riposi oggi nella conoscenza,
stai serena e guarda noi piccoli,
se salvatrice, accoglici –
sed libera nos a malo,
le chiavi della galera le tenevo anch’io
ma tu, uno scatto ripetuto nei secoli dei no,
divenuta carceriera, graziaci,
mettici in salvo – ripara.

*

Fiume riva strada, bruciano campanili
dietro la riva la infinita distanza, totem,
Piacenza campeggia serena.
siamo passati e non siamo morti,
siamo morti, e non siamo passati,
riva buia strada
il profumo del sisso, cacca buona
diffonde una dolce stesura
di note nel verde, decise suonassi:
mia madre scelse il pianoforte,
si sedeva in cucina, alla vista dell’ombroso giardino
del san Paolo, aspettava le mie note:
dovevano uscire stentate, a trilli brevi
nelle sonate a quattro mani non calavo il mio cuore,
altri suoni assembravano mi tenevano
a notte attenta.

*

Come sei bella, ti affrettavi a dirmi,
cominciava così il tuo testamento oscuro:
le carezze frequenti che facevo
da te sentite come addii
stimolavano una materna voglia di lodarmi.
avevo indosso una maglia sottile
e la formosità appariva snella,
fisicamente più del solito ti somigliavo
mentre attiravo a me il tuo polso sottile,
le mani piccole che ho amato tanto,
narrarono in un gesto di benedizione
quel testamento a cielo aperto,
giovane, inatteso come pioggia
su uno sconvolto
un già assegnato destino, mutava forse ora
le fondamenta di una vita
assuefatta al tradire di sé, al colpirsi sordo?
Così era scritto.

*

Come la storia del fratello prediletto, accompagnato a casa

già morto annegato, a braccia dai paesani,
poiché l’altro, il più piccolo non era riuscito a muoversi. a gridare
a trarlo in salvo dal letto del torrente Parma
dove era andato ad imparare il nuoto.
E tua madre nel riconoscerlo era impazzita,
si era strappata i capelli e già gridava non si sa quali grida,
Accorrete correte! e tutti tornavano lentamente a casa
dove lasciarsi fulminare poi dalla visione.

E il fratello maggiore, i parenti e amici tutti tornavano, dai campi
verso sera, ma lui solo Glauco non poteva tornare
il più dolce sensibile, il più a te vicino che ti aiutava
a proteggerti dal mondo.

E tu là ragazza, unica femmina incapace
d’avvicinare la madre, sempre lontana e dura
che strappandosi i capelli sulla scena di casa,
rendeva pubblico senza più remore lo strazio,
e sul dormiente urlava senza più fiato lo chiamava indietro,
e a te nessuno che prendeva le mani che calmava.

*

         

Paolo Figar, Prodigio, particolare, 2008

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