Chjova ! Chjova ! Chjova ! di Angela Caccia.
Chjova ! Chjova ! Chjova !
a Madonna cogghia i fiori
e li cogghja ppi Gesù
e dumani u’ cchjova cchjù.
Capita, discorrendo magari di un tema squisitamente culturale, che scappi un’inflessione dialettale. Alcuni inorridiscono a quella che, a tutti gli effetti, potrebbe connotarsi come una caduta di stile. Altri, invece, intimamente se ne compiacciono, ed io tra questi. Cercare quale la motivazione di tanta ostilità verso il dialetto – voce imponente nei nostri paesi – esigerebbe, forse, un lungo viaggio nella psiche, ma da lasciare agli addetti ai lavori. Io comunque mi diverto da morire a cogliere le reazioni che balzano dagli stridori di quel meticciato linguistico.
È indubbio che l’italiano forbito faccia status. Se postillato da personali licenze è decisamente dandy. Eppure il dialetto regge da sempre il peso di dipingere questo mondo di carne e sangue: suoni buffi, alcuni così onomatopeici, in qualche modo ci raccontano tutti in tutto, e viene facile abbozzare all’errore di sintassi o grammaticale.
Se dovessi accostare il dialetto a un dipinto sarei indecisa – anche per la mia conoscenza superficiale in materia – tra Rembrandt e Van Gogh. I ritratti del primo hanno tutta una narrazione senza veli: dalla pelle unta del naso al liquido lacrimale dell’occhio paiono catturare, al pari del dialetto, non solo l’essenza ma il particolare che la esalta. Le folgorazioni del secondo sono invece pezzi di emotività che ben si accostano a un dire dialettale, anch’esso estremamente “colorato” come, nell’immaginario collettivo, sono le emozioni.
Qui dalle mie parti, la Calabria, alcune ricorrenze religiose godono di un originale breviario: il testo dell’intera novena, canti inclusi, è in dialetto. Ecco perché, da sempre, non mi è difficile immaginare il volto della donnina che ancora oggi recita una delle sue giaculatorie preferite: un sospiro o un lamento fa da nota al verso dialettale. In quella recita la più antica e sagace manutenzione di affetti e sentimenti.
E se è vero che un’inflessione dialettale in un simposio all’insegna dell’italiano più puro a volte sorprende come il cucù di un vecchio orologio a muro, è anche vero che quell’incursione è il segno che di colpo cambia il vento: diventa più caldo, sa di casa, ti sfiora, ti cerca e vuole accomunarsi, accomunarti.
Rara e fugace circostanza in cui ti senti ricca nel poco.