Cinema e informazione:
mascalzoni, sciacalli e sacerdoti della verità.
Di RENZO TROTTA
Le fake news sono la sesta dimostrazione dell’esistenza di Dio, dal momento che, per un banale principio logico, se esiste la fake news allora esiste anche la Verità. E c’è chi ha il compito sacerdotale di annunciarla al mondo, la Verità: è il giornalista.
Le Fake News dominano la storia e le nostre vite, dalla donazione di Costantino all’invenzione del Purgatorio, dai protocolli dei Savi di Sion alla bomba atomica di Saddam. Le Fake News sono dunque la dimostrazione del potere divino della Menzogna. E nel nostro mondo c’è chi ha il compito sacerdotale di annunciare la Menzogna attribuendole tutti i sacri attributi della Verità. È sempre lui, il giornalista.
E così al cinema il nostro eroe si infila trafelato in tutte le storie, Mercurio senz’ali, messaggero degli dei e dio dei bugiardi, dei truffatori e dell’eloquenza che seduce e inganna, eroe della libertà o mascalzone, servo del potere o mastino della democrazia, dannato ficcanaso senza rispetto per il dolore e la dignità oppure fiero difensore dei deboli.
Ma il brivido metafisico sta ancora più in là, sta sul crinale fra il racconto del mondo e l’invenzione del mondo. Arriva quando il giornalista, stufo di fare il messaggero, vuole crearla lui la realtà. Delirio di onnipotenza o, se preferite, antica hybris. È proprio la frequentazione ossessiva della Verità, è proprio il potere della menzogna a dargli alla testa.
Guardate, nella pagina seguente, la strepitosa gigionata di Jude Law, blogger truffaldino nel profetico Contagion di Steven Soderbergh (2011).
Mentre una pandemia sconvolge il pianeta, lui guadagna 12 milioni di follower spiegando che le autorità mentono su cure e vaccini per servire le case farmaceutiche e gli amici, finge davanti alla telecamera del suo computer di aver contratto il contagio e mostra la miracolosa guarigione grazie a una medicina omeopatica. La menzogna funziona perché lui scopre davvero altarini e magagne del potere. Ma soprattutto perché adotta il più vecchio principio del teatro: mette in gioco il suo corpo. Pensate che faccia questo per i soldi ? Certo. Per vanità? Certo. Ma c’è ben altro nel suo sguardo di sfida al potere e al mondo: c’è il potere divino di ricreare la realtà. Io sono voi, io sono libero, la verità è nel mio corpo.
Del resto, la tentazione di onnipotenza appartiene fin dall’inizio agli eroi dell’informazione, a cominciare dal primo grande giornalista mascalzone della storia del cinema, Kirk Douglas in Ace in the Hole di Billy Wilder (L’asso nella manica, 1953), che per desiderio di scoop cambia il corso degli eventi, corrompe lo sceriffo e il direttore dei lavori per rallentare i soccorsi a un uomo intrappolato in una cava, finché l’uomo muore.
Poi si pentirà; ma più dei tormenti della coscienza dell’eroe, quel che rimane indelebile è il Big Carnival (altro titolo originale del film) che si crea intorno all’agonia, con migliaia di persone che accorrono, gadget, hot dog e musica country. Lì c’è l’orrore cannibalico del mondo, la società dello spettacolo che fin dai tempi di King Kong si insedia ingabbiando le sue vittime e le sue paure, per offrirle al nostro sguardo eccitato, sadico, scientifico, feticista e nobilmente commosso, convinto di dominare ciò che inevitabilmente sfuggirà al suo controllo. Ma nel film la gran fiera è anche un potente meccanismo drammaturgico moralistico, che contrappone in una sistematica rottura di tono il corpo sofferente dell’uomo che sta morendo nel silenzio profondo, e di sua madre che prega, al rumore gioioso e assordante della grande festa in superficie.
Quando, poco tempo dopo, la televisione insedierà il Big Carnival in tutte le case, proprio la novità assoluta che porterà con sé, la perentorietà documentale delle immagini (questa è la Verità, il mondo così vicino, così in presa diretta, così indiscutibile non l’avevate mai visto), renderà paradossalmente ancora più forte la tentazione di onnipotenza. E dunque, in Nightcrawler di Dan Gilroy (Lo sciacallo, 2014), Jake Gyllenhaal, strano animale che striscia nella notte, come dice il titolo, non ha bisogno delle parole, non ha bisogno di scrivere per costruire il suo impero del male.
Ladruncolo, diventa un operatore televisivo free lance, che vende immagini di orrori metropolitani notturni a un’emittente locale di Los Angeles a caccia di sangue. Finirà per ricostruire, a favore di telecamera, scene di incidenti, omicidi, provocherà assassini per filmarli dalla migliore posizione possibile, ucciderà anche il suo assistente per liberarsi di un potenziale ricattatore e per ottenere un grande effetto patetico in tv, in un crescendo melodrammatico anche qui esplicitamente moralistico. Ma l’ironia sta nel linguaggio di questo metodico e folle autodidatta, che impara su internet le regole del buon manager, lusinga il mondo e ne succhia velocissimo trame e segreti, alla fine riesce a realizzare il sogno americano e fondare la sua azienda. Una legge lui la conosce senza averla letta sui manuali e la insegna al suo assistente: “Sai come si alimenta la paura? Vestendo di verità delle false evidenze”. Lui sposta i cadaveri, monta rimonta e ricuce, ricostruisce la realtà, la certifica con la potenza della telecamera.
E tuttavia, in una filmografia sterminata, l’immagine più credibile del nostro Big Carnival sta forse in quel nostro immediato futuro immaginato da una commedia demenziale, The Second Civil War (La seconda guerra civile americana, 1997) di Joe Dante. Lì non c’è bisogno del grande protagonista in preda a hybris, perché è l’intero impianto del mondo che abbiamo costruito ad essere inevitabilmente destinato al caos. Nella sarabanda che nasce e cresce intorno ai bambini profughi da una guerra nucleare, coi confini che si sbarrano e i valori occidentali che si inalberano, l’oceanica risata nulla risparmia: governatori in calore, giornaliste sull’orlo di una crisi di nervi, inviati cow-boy, presidenti dall’occhio sbarrato, isteriche manager di ong, vecchi generali rimbambiti. Ma è il cortocircuito fra consulenti guru esperti di sondaggi e televisioni dall’audience multimilionaria a moltiplicare il delirio e a rendere alla fine inevitabile la guerra. La fake news interviene solo all’ultimo, questa volta è involontaria, è il frutto di un piccolo equivoco da telefono senza fili, una “succession” detta all’orecchio, che diventa “secession” e dà luogo alla tregenda. Ma è proprio quest’equilibrio sottilissimo che è angoscioso, proprio ciò che è più demenziale suona verosimile. Noi sappiamo che le cose funzionano così. Sappiamo che la fake funziona perché vogliamo crederci. E nella sua antica saggezza, il grande James Earl Jones, vecchio giornalista ormai impotente a fermare il mostro, saggio perché impotente o impotente perché saggio, ci spiega l’ultima, inappellabile verità: tutto è fake, perché un giorno questo che per noi oggi è solo uno sporco caotico inferno ci apparirà meraviglioso, mirabilmente lo racconteremo.
Non ha fatto così Griffith con la prima guerra civile americana, fondandovi la Nascita della nazione (Birth of a Nation, 1915) e la meraviglia del grande cinema epico? Non fece così Omero con la guerra di Troia, Shakespeare con Azincourt o Tolstoj con Borodino? Non ci apprestiamo a fare così con le guerre di oggi? Non abbiamo sempre raccontato la guerra come la gran madre di tutte le cose?

Renzo Trotta, già programmista e giornalista Rai, ha firmato una decina di regie teatrali. Ha pubblicato saggi su cinema e teatro. È stato docente di linguaggio televisivo al Dams di Imperia. Dal 1992 insegna Storia del teatro alla scuola di recitazione del Teatro Nazionale di Genova. Nel 2022, con Il sogno di un destino, ha vinto la 38esima edizione del Premio Adelio Ferrero per la critica cinematografica, nella sezione internazionale Videosaggi.