Utopia e poesia civile di Pasquale Vitagliano.
L’utopia può svolgere una funzione catalizzatrice di passione e azione. Ma la traiettoria che essa traccia è senza meta, o meglio indica un traguardo siderale, immaginabile, non so se almeno visibile, sicuramente irraggiungibile. Per questo lo “stato nascente” delle utopie difficilmente si stabilizza e si struttura in una “Città del Sole” reale e concreta. Non è un caso che fino ad oggi abbiamo solo sperimentato disincanto e delusione. Ci siamo rimessi tutti alla ricerca di una nuova Utopia, ma con la consapevolezza, spero, di poterne ricevere energia e alimento, non certo nuove e inedite strutture.
A maggior ragione non credo che la poesia debba e possa dialogare con l’Utopia. Credo in una poesia concreta, potente nella sua capacità di de- e ri-strutturare linguaggio e realtà, ma fortemente legata alle “cose della vita”. Non voglio votarmi certo a una poesia “realista”, ma “viva”, più che con l’Utopia, che dialoghi con Una rivoluzione. E, mi dispiace, tutt’altro che indulgente verso lo “smisurato e la profondità”. Chiedendo aiuto a Leonardo Sciascia, cerco una poesia “superficiale”, nel senso illuministico della parola: capace cioè di portare in superficie ciò che si trova in profondità. Insomma un’operazione opposta.
Da qui il rapporto ineluttabile e ineludibile con i luoghi della vita. Da qui una riflessione sulla poesia civile. La poesia civile è per mandato anti-utopistica.
La poesia civile è in bilico tra due vuoti. Da una parte l’invettiva e la maldicenza, dall’altro la performance. In entrambi i casi il rapporto con la realtà è autistico. La poesia civile, ammesso che di poesia civile si possa parlare, così rischia di ballare da sola.
Fare poesia civile, allora, è impresa ardua. E’ un’operazione ambiziosa, che dialoga continuamente con il fallimento e la caduta. Si può essere retorici e vuoti anche senza dire Patria. Questo, per esempio, è accaduto quando al formulario poetico del trono e dell’altare si è sostituito quello della strada e della lotta.
La poesia senza aggettivi può permettersi di essere inerte. La poesia civile, invece, deve muovere all’azione. L’azione non può essere il gesto, addirittura la mossa, come spesso accade dietro il nuovo filone della poesia-azione, la poesia che si contamina con la musica, il teatro, il canto. Si tratta di legittimi tentativi di rianimare la parola poetica. La poesia civile, la realtà stessa, però, è in tutt’altra direzione. La poesia diventa civile se si radica su un territorio, se diventa parola di una comunità. La poesia civile non è indistinta, ha una propria identità. Non può rifarsi a luoghi senza vita, ad utopie senza storia, a mondi senza terra.
I tedeschi hanno fissato nella lingua questo legame tra cultura e territorio. Loro, infatti, usano due parole distinte per dire patria: heimat e vaterland. Heimat è la casa natale, il luogo degli affetti, la lingua madre e la terra natia. Vaterland è la terra dei padri, la Patria, la Nazione. In Italia è mancata una riflessione seria sulla nostra Heimat. E dunque la poesia civile è stata sempre costretta tra la retorica della vaterland e quella antipatriottica e rivoluzionaria, altrettanto conformista.
Lo sguardo della poesia in realtà si traduce sempre in azione civile. Anche quando si diffonde dalle torri d’avorio di biblioteche cieche. Il poeta civile, dunque, non può essere indifferente. Ma non è la poesia che può cambiare il mondo. Non può confondersi né con l’azione politica, né con il linguaggio della politica. Deve piuttosto indicare un luogo. Scuotere il cuore e indurre ad una visione collettiva. Se l’anima è il luogo della poesia, la propria terra è il luogo della poesia civile. Di quella poesia civile che non voglia essere declamazione retorica di identità sulle quali costruire appartenenze ideologiche. La poesia civile non è necessariamente poesia politica. Ovvero lo è al più alto livello. La crisi della modernità deriva dalla perdita del legame ombelicale con la propria terra. Siamo tutti alla ricerca di un posto dove poter stare. Dove sentirci a casa.
Sottoscrivo i versi di Mark Strand. La poesia civile serve a tenere insieme le cose. In un campo/ io sono l’assenza/ di campo./ Questo è sempre opportuno./ Dovunque sono/ io sono ciò che manca.// Quando cammino/ divido l’aria/ e sempre/ l’aria si fa avanti/ per riempire gli spazi/ che il mio corpo occupava.// Tutti abbiamo delle ragioni/ per muoverci/ io mi muovo/ per tenere assieme le cose.