Come se gavessi gambe de albero impiantade nel scuro, poesie di Fulvio Segato (Venezia Giulia).
Fulvio Segato è nato nel 1959 a Trieste, dove vive e lavora. Negli anni ottanta ha pubblicato le sillogi: Io Narciso e I Canti della Fenice. Nel 2013 la raccolta di versi Vocativi in eco , con prefazione di Silvio Ramat, vincitrice Premio Casentino e La consuetudine dei frantumi, premio Faraexcelsior. Successivamente una raccolta di racconti dal titolo Cadono i cormorani. Ultimo lavoro la pubblicazione nel 2016 delle poesie in dialetto triestino ‘Sta mia difesa, Samuele Editore, con prefazione di Fabio Franzin, e già vincitrice del Premio Gozzano inediti.
Suoi lavori sono presenti in riviste web e cartacee e partecipa a letture e incontri poetici.
Non credo che la poesia in dialetto sia più colorata, viva o intima e spontanea rispetto alla poesia nazionale, come a volte si dice. La differenza è che la poesia in dialetto, appoggiandosi su poche centinaia di vocaboli, costringe ad una scrittura diretta, senza troppi giochi linguistici; più diretta forse, ma sicuramente più complicata da gestire. E’ difficile scrivere poesia in dialetto, è facile invece cadere nella retorica della nostalgia, nella parlata sufficiente, nel luogo comune, nello scontato ritorno al passato dove oggetti e parole sono fissi. Anche in dialetto la poesia ama la parola poetica. FS
da ‘Sta mia difesa (Collana Scilla, Samuele Editore 2016)
La difesa
Vien. ‘Ndemo su e seremose in casa
la porta seremo e lassemo
che el mondo vadi,
se gavemo difeso un co’ l’altra
e forsi basterà solo questo
forsi basterà el stecà che gavemo
impiantà torno
con qualche ginestra, ogni tanto.
E che ‘l mondo vadi,
forsi xe solo el nostro difenderse
e do mace giale profumade
che lo fa andar.
La difesa
Vieni. Andiamo su e chiudiamoci in casa/ la porta chiudiamo e lasciamo / che il mondo vada/ ci
siamo difesi uno con l’altra / e forse basterà solo questo/ forse basterà lo steccato che abbiamo/
impiantato intorno/ con qualche ginestra, ogni tanto. / E che il mondo vada / forse è solo il
nostro difenderci/ e due macchie gialle profumate / che lo fanno andare
*
El fil de la schena
El fil de la schena a volte
lo vedo andar oltre de mi
come fossi ‘na coda,
divento animal che ‘l se
balanza, che se scondi
che sbrana, se rampiga,
e ancora de più,
fin dentro de la tera
come se gavessi gambe
de albero impiantade
nel scuro de le grote.
Ma presto torno a esser
quel che va per la strada,
e ogni tanto me sento
o camino le man in scarsela,
ma voleria mover un toco de mi
che no go, e rinunzeria a altre robe
ma tute le me par necessarie
e anca i usei invidio
e me domando come i me vedi
mentre che li vardo
e che xe cussì strano tuti respirar
la stessa aria
tuti quanti che semo
impicai nel svodo.
Il filo della schiena
Il filo della schiena a volte / lo vedo uscire da me / come fosse una coda, / divento animale che si
/ bilancia, che si nasconde / che sbrana, si arrampica / e ancora di più, / fino dentro la terra /
come se avessi gambe / d’albero impiantate / nello scuro delle grotte. // Ma presto ritorno ad
essere / quello che va per la strada, / e ogni tanto mi siedo, / o cammino con le mani in tasca, /
ma vorrei muovere un pezzo di me / che non ho, e rinuncerei ad altre cose / ma tutte mi
sembrano necessarie / e anche gli uccelli invidio / e mi chiedo come mi vedano / mentre li
guardo / ed è così strano tutti respirare / la stessa aria / tutti quanti che siamo / appesi nel
vuoto.
*
No esser cressudi mai
No esser cressudi mai, un giorno
de la vita fermarlo, un giorno de furor
de sangue de ociade perse ne le robe
che le par nove, mai viste o sentide.
Fermarse un giorno de la vita,
e girar el resto dei ani coi stessi
vestiti, le braghe prima strente po
che le cala, la maia picia che la se slarga,
e sentir quel tamburo che te scassa
el peto, la fregola che te porta el stupor
– la maravea de conosserte ogni giorno
come fussi sempre quel giorno –
luna che nassi e la mori, estate
che brusa l’erba, vespe che se ingruma
sora la tola del prà.
Fermarse in un giorno de la nostra vita
respirar a boca verta tuto ‘sto vento
che ancora ne resta,
impinirse i polmoni
fin quando te gira la testa.
Non essere cresciuti mai
Non essere cresciuti mai, un giorno / della vita fermarlo, un giorno di furore / di sangue di
sguardi persi nelle cose / che sembrano nuove, mai viste o sentite. / Fermarsi un giorno della
vita, / e girare il resto degli anni con gli stessi / vestiti, le brache prima strette / che poi calano, la
maglia piccola che si allarga, / e sentire quel tamburo che ti scuote / il petto, la frenesia che ti
porta lo stupore / – la meraviglia di conoscerti ogni giorno / come fosse sempre quel giorno –
/luna che nasce e muore, estate / che brucia l’erba, vespe che si radunano / sopra la tavola del
prato.// Fermarsi in un giorno della nostra vita / respirare a bocca aperta tutto questo vento /
che ancora ci resta, / riempirsi i polmoni / fin quando gira la testa.
*
Inedito
Godot
Semo qua che ‘spetemo
‘spetemo sentadi, posadi
de schena sui muri, vardemo
e incastremo quel che vedemo
co’ quel che semo, ossi e carne
i va dentro la malta, ne le sfese
più strete fra maton e gronda
nei busi scuri de le tane
de le sariandole. Semo
bevudi da le case, dal tempo
da la furia de esser,
insempiadi e indifesi
da tuti ‘sti inizi
da ‘sto cominciar
ogni giorno ‘na roba nova,
dimenticandose de ieri
de l’altro mese
de l’ano ‘drio.
Senza gaver niente
in-te-le man,
gnanche ‘na cadenela
‘na medaieta col viso
de Cristo de profilo,
el limacioso che te resta fra i dedi
co’ te strenzi un fior,
dedi scortigai
per rampigarse fin qua
posarse sul muro
e spetar che qualchedun
qualcossa
de lontan rivi.
Godot
Siamo qui che aspettiamo /aspettiamo seduti, appoggiati/di schiena sui muri, guardiamo / e incastriamo quello che vediamo / con quello che siamo, ossa e carne/vanno entrano nella malta, nelle fessure / più strette fra mattoni e grondaie / nei buchi scuri delle tane / delle lucertole. Siamo / bevuti dalle case, dal tempo / dalla fretta d’andare / istupiditi e indifesi / da tutti questi inizi / da questo cominciare / ogni giorno una cosa nuova, / dimenticandoci di ieri / dell’altro mese / dell’anno passato./ Senza avere niente / nelle mani / nemmeno una catenina / una medaglietta col viso / di Cristo di profilo / il limaccio che ti resta fra le dita / quando stringi un fiore / dita scorticate / per l’arrampicarsi fino a qua / appoggiarsi al muro / e aspettare che qualcuno / qualcosa / da lontano arrivi.
*