Controvento o nella scia: la lunga presenza delle madri nella poesia italiana. Antologia Matrilineare

Controvento o nella scia: la lunga presenza delle madri nella poesia italiana, di Loredana Magazzeni, Fiorenza Mormile, Brenda Porster, Anna Maria Robustelli, curatrici di Matrilineare. Madri e figlie nella poesia italiana dagli anni Sessanta ad oggi (La Vita Felice, 2018).

     

     

Questa antologia nasce a seguito di un nostro precedente lavoro di ricerca, La tesa fune rossa dell’amore. Madri e figlie nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese, (La Vita Felice, 2015, prefazione di Silvia Vegetti Finzi, postfazione di Anna Salvo) incentrato sulla relazione madre-figlia, e riprende in esame la stessa tematica nella tradizione italiana, comprendendo anche testi di autrici migranti che hanno scelto di scrivere nella lingua d’arrivo. Sono più di cento i testi poetici, rappresentativi di 67 autrici, selezionati secondo il criterio prioritario della qualità, ma anche in base all’interesse tematico. Il disegno risultante riveste una valenza comparativa, oltre che letteraria, mostrando interessanti differenze fra i due mondi esplorati. Se in area anglofona prevalevano poesie di madri in difficoltà a “lasciar andare” le figlie, di norma precocemente separate dal nucleo familiare per ragioni scolastiche o lavorative, in Italia prevalgono all’opposto quelli di figlie sempre a stretto contatto con la figura materna, e per questo a volte insofferenti, e alla ricerca faticosa di una propria autonomia, pronte ad accudire lungamente le madri anziane o malate, ma anche testimoni del loro declino, cui guardano con sentimenti diversi, talvolta ambivalenti, ma in genere recalcitranti a “lasciarle andare” e inclini a dialogare idealmente con loro anche dopo la dipartita. Come spiegare la schiacciante maggioranza di testi dedicati alle madri, rispetto a quelli dedicati alle figlie, in sostanziale  parità nell’antologia precedente? Se col supporto degli Women Studies  nella poesia di lingua inglese inizia prima la riflessione critica su questa relazione, trascurata dalla psicanalisi e ignorata dal canone, essa viene elaborata in Italia solo negli anni Settanta. Troviamo però qui anche poesie risalenti agli anni Sessanta, precedenti ad una presa di posizione polemica (Frezza, Romagnoli, Spaziani), forse anche grazie alla pervasiva esaltazione del ruolo materno di tradizione cattolica.

Questa antologia ha raccolto la sfida, seppur impari, tra la costruzione di un grande edificio simbolico materno  indagato in quarant’anni di pensiero femminista e il patrimonio della poesia italiana degli ultimi settant’anni. Dal dopoguerra il tema della vita quotidiana delle donne, i loro sentimenti ed emozioni, la sessualità, la protesta contro costumi patriarcali familiari millenari ha invaso le pagine di romanzi, racconti e poesie. Una ricerca tematica su questi aspetti della parola poetica, l’indagare come la poesia contemporanea abbia rappresentato la madre, nel filo rosso del rapporto con la figlia, è il punto d’avvio della nostra indagine.  Ma è difficile staccarsi dalla potenza delle madri?

Nella prima parte del libro, denominata Nella scia, tre sottosezioni (Lineamadre, Lingua madre e Archetipi) indagano le voci, gli oggetti, le lingue della presenza materna. Ma la potenza materna include nella sua aura, oltre ad oggetti simbolici e linguaggio, tutte le forme di vita vegetali e animali. La lingua materna è corda della memoria, in lotta contro la fragilità del ricordare e la necessità di farlo. È per questo particolarmente importante la presenza di autrici migranti, che hanno scelto di scrivere in italiano (l’argentina Langtry, l’austriaca Pumhösel, l’italo-somala Ali Farah) e altre che usano l’italiano mescolato al dialetto o alla lingua d’origine (il siciliano di Basso, il veneto di Molesini, il modenese di Gentilini, il ladino di Dapunt). Nella sezione che conclude questa prima parte del libro, dedicata agli  archetipi materni, abbiamo voluto inserire quelle poesie che si rifanno ad elementi e luoghi emblematici e simbolici di un materno tradizionale, come l’utero o l’acqua, fluido vitale e amniotico, o la figura materna per antonomasia nella cultura occidentale cattolica, ovvero Maria, rivisitati però con originalità, da visuali poco ortogonali, inclinate, diagonali, e ortodossie capovolte.

Il rito

Mia madre celebrava la mattina
con un caffè solitario.
Filtravano dalla cucina
neri aromi in un chiaro di gesso.
Toccavano rumori la parete
per farsi indovinare
da me, che silenziosa
sorridevo nel buio «vi conosco!».
Mia madre la mattina
stava sola di là, come Dio
sta sulla terra e sul mare.
Prendeva il giorno nelle sue mani rosse.
Ribattezzava oggetto per oggetto,
assegnava alle cose il loro posto.
Come farà adesso, che adesso
sola fatica delle sue mani
è stare incrociate sul petto.

     

Fernanda Romagnoli
da Il tredicesimo invitato (Poesie 1968-1978), Garzanti, Milano 1980.

*

e-mother

sei nuovamente
il tramite col mondo:
se non è l’ombelico
è il cavo ottico
adesso, altra
fibra
che regge i nostri acidi,
le tue parole
colostro contro il buio.

     

Elisa Biagini
da AA.VV., Poesie dall’inizio del mondo, premio Antonio Delfini, Luca Sossella Editore, Roma 2003.

*

Le tre sezioni della seconda parte, intitolata Controvento, includono testi sul lato in ombra della relazione madre-figlia e illustrano tanto l’inevitabile conflitto di separazione quanto lo sforzo di superare circostanze avverse soggettive, oggettive, o epocali  che la minano o costringono ad  una sua riformulazione.
La prima sezione distingue tre diversi gradi di separazione: in Assenze figlie migranti (de Oliveira, Minga e Serdakowski) raccontano in italiano la nostalgia per madri geograficamente lontane, in lontananze (Maraini, Tarozzi, Carpi, De Gregorio, Albertazzi, Quarenghi) esprimono il disagio di averle sentite emotivamente distanti anche quando fisicamente presenti, inabbandoni Lamarque, Rovigatti, Calandrone rielaborano l’antica ferita di esserne state abbandonate. L’interesse è qui anche nell’indiretto flash sullo sfondo, che per un attimo illumina madri non necessariamente egoiste e anaffettive ma in difficoltà perché infelici, malate, disperate e per questo causa di altra sofferenza. La seconda sezione, La fine dell’influenza, mette in discussione la lineamadre ereditaria di geni e atteggiamenti. A volte sono i tempi a generare nuove modalità di relazione (Bergamin, Accerboni), più spesso le figlie attuano  un consapevole e polemico cambio di passo, sia per la necessità di individuarsi, allentando un legame troppo vincolante (Sicari, Ortese, Albertazzi, Ulbar), sia per rimarcare la mancata condivisione del modello materno (Bologna, Basile). La terza sezione, Spine, presenta un ampio cahier de doléances: sia madri (Insana, Basso, Accerboni, Carnaroli, Gentili, Lamarque, Paraskeva, Tosi) che figlie (Giovannelli, Roberti, Bianchi Mian, Alaimo, Langtry) rivelano le proprie problematiche, lacerate da diversi motivi di afflizione e  impegnate nella faticosa riconquista della serenità.

Mia madre

Mia madre era lontana col pensiero:
non era mai dov’ero. Ritornava
a un altro tempo, nella vecchia casa
dalle finestre in alto, fiorentina.
Lì da bambina
guardava il cielo — se lo ricordava
cilestrino, leggero. Quel colore
pastello era rimasto nel suo cuore
insieme a un’altra immagine di allora
— la sua —  nella réclame della Nestlé.
L’anno era forse il Novecento e tre.
Un montaggio: lei stessa singhiozzava
senza la cioccolata che quell’altra
— la bimba fortunata —
mangiava impiastricciandosi la faccia.

Réclame del malaugurio! E certo lei
senza piangere più, pure ebbe in sorte
d’essere sempre dove non voleva,
di non avere quello che cercava
eccetto il cielo dipinto nella mente,
cilestrino, leggero, il cielo sempre.

     

Bianca Tarozzi
da Prima e dopo, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle Donne di Milano, Mantova 2000.

*

Preghiera delle mamme
che hanno involontariamente mancato
nei confronti dei propri figli

      le poesie possono aspettare
non possono aspettare le persone care.

     

Oh lasciati figlio
al mille per mille di interesse
per ognuno di quegli anni risarcire
per quando avevi un anno
per quando avevi due tre sette anni
per gli anni della nostra assenza
per quando avevi un anno
per quando avevi due tre sette anni
per gli anni della nostra assenza
per quando ci chiamavi e non c’eravamo
o c’eravamo ma eravamo perse a noi stesse
o c’eravamo ma non vedevamo
perché stavamo male
perché stavo male stavo male
figlia dolce mia.

     

Vivian Lamarque
da Poesie 1972-2002, Mondadori, Milano 2002.

*

Nella terza parte dell’antologia, Separazioni (che si divide a sua volta in tre sezioni: Lasciarle andare, Malattia, morte e Dialoghi post mortem)  sono le figlie a declinare il tema dell’abbandono forzato, rovesciando il mito di Demetra e Persefone: le poesie registrano l’estremo distacco dalla madre provata dalla malattia e in prossimità della morte. Scattano, a volte ancora tra i conflitti, il desiderio di protezione e la pena per l’allontanamento inevitabile (Annino, Cardona, Frabotta, Gualtieri,) e persino, tra ricordi più o meno cocenti, il baluginare della possibilità di porre fine a una situazione di degrado e sofferenza difficile da sopportare (Gualtieri, Quintavalla).
Si ribaltano paradossalmente i ruoli madre-figlia: qui la figlia è costretta a indossare i panni della madre. Prevalgono particolari realistici nella descrizione dei processi di deperimento fisico e psicologico (Ballerini, Borio, Dapunt, Lamarque). Le donne non sono le prime a parlare del male e della fine della vita, ma lo fanno insistendo su dettagli corporei che le pongono sulla scia di una tradizione femminile angloamericana che non si è fatta scrupolo di affrontare questi temi in una prospettiva nuova, strettamente legata alla  fisicità del corpo in generale e al decadimento nel caso della malattia e della morte.
Infine, nel ricordare la madre, sorge ancora il desiderio di parlare con lei o di parlare di lei, strappando qualche forma di conforto al meccanismo spietato della perdita (Alleva, Spaziani,  Zampiga). Le donne si rivolgono ancora alle loro madri riprendendo  ricordi più o meno belli (Bettarini, Langtry, Serragnoli), sottolineando il disagio della mancanza della persona cara (Frezza, Policastro, Pumhösel,  Quarenghi, Tarozzi) e tessendo una maglia di legami, nodi, testimonianze, difficili da dimenticare, che rimangono a disposizione di chi leggendo riflette  la propria storia e la propria sofferenza.

Precari

Mamma tu lo sai
che a un cialtrone qualunque
se va a leggere su un palco
(li chiamano slam poetry)
gli danno quanto meno cento euro
(lo chiamano gettone di presenza)
e se lo vince ci può campare un mese,
certo senza pretese
Mamma mi ricordo quando non camminavi
papà a spingerti giù nel corridoio
overlook dice un poeta di oggi, come in shining,
e tu battevi i piedi, invece,
come un bambino al mare
Mamma tu lo sai che oggi
se va bene mi rinnovano il contratto
ma devo sorridere, carina e ben vestita,
– da ricercatrice a tempo, che hai capito, da velina –
Mamma ti ricordi com’eri bella nelle foto
in cui ci somigliamo,
– meno disoccupata tu,
meno gettone di presenza
una supplenza e già tre figli,
mamma mia com’eri bella –,
e lo leggevi Céline?
– l’atroce farsa del durare –, ma lo sai che adesso
puoi lavorare gratis, se ti dice male,
e un fidanzato a tempo lo rimedi:
precario oggi è come postmoderno ieri,
come il nero,
si mette dappertutto che non stona
Mamma tu nelle foto eri bella,
bella e felice,
ma ora che ci guardano le telecamere,
ti prendi, magari, un’ombrellata e se ne muori,
almeno sai chi è stato
Mamma gli altri miei amici hanno le mamme
che sorridono, a volte, e tutte vive,
(le tue medicine impilate,
più il potassio per ripristinare i liquidi),
e adesso, sì, ti porterei dove volevi andare,
dappertutto,
in quel posto molto chic a s. Lorenzo
dove paghi dieci euro e mangi una, due prese,
e alla terza ti guardano male (lo chiamano happy hour),
o ti farei leggere quello che scrivo
quando dicevi:
la dobbiamo far vedere, non è normale,
e ti potrei presentare i fidanzati,
pure quel curdo di cui diresti non sia mai
Mamma ti vengo a prendere, alzati,
dai aria alla stanza e, soprattutto,
fatti trovare

     

Gilda Policastro
da Non come vita, Aragno, Torino 2013.

*

La quarta parte dell’antologia, Sguardi indietro e avanti, costituisce una sorta di galleria di ritratti, dove rivisitiamo alcune delle tematiche delle parti precedenti, qui trattate in maniera riccamente immaginifica. Nella prima sezione troviamo i ritratti materni, un passato riposto nella memoria delle figlie. Dopotutto, un ritratto della propria madre è per una donna una specie di autoritratto sottotraccia, un posizionarsi nei confronti della sua immagine: difatti, in questi testi troviamo una grande diversità di posizionamenti, che vanno dalla quasi fusione (Ferramosca) al netto distacco (Carpi), mentre la maggioranza delle autrici dimostrano profonde contraddizioni, disegnando ritratti sfaccettati e persino contradittori (Annino, Tarozzi, Cavalli, Vezzali). Interessante è notare come la poeta argentina Romero ritrae una madre sempre in movimento, laddove le madri italiane sono solitamene più stanziali, al punto di diventare immagini stesse dell’immobilità (Romagnoli) o del dolore (Frezza).
Sono le figlie ad essere ritratte nelle due sezioni seguenti – al momento presente nella seconda sezione e proiettate verso il futuro nella terza. Le bambine neonate (Frezza) o ancora piccole (Passannanti) sembrano creature arrivate da un mondo altro, portatrici di una dimensione quasi cosmica che dona maggior senso alla vita (Calandrone); mentre i conflitti delle figlie più grandi, che lottano per guadagnare la loro autonomia, sono visti con amoroso compiacimento (Anedda, Romagnoli). Nella terza e ultima sezione, Lo sguardo al futuro, troviamo madri che esprimono stati d’animo assai diversi tra loro nel prevedere l’inevitabile allontanamento delle figlie, dalla paura per la vulnerabilità della propria creatura espressa da Frezza, a una visione del futuro vissuto come avventura (Anedda), a un tenero augurio per un futuro avvolto dalla morbidezza (Romero).

Più non riconcilierà Abele e Caino 

[…..]

Pasqua è passata e il fornello è spento
e più non mi soppeserà compunta
come fa la gatta che lecca
e accarezza con gli occhi la mìciola smunta
non pregherà più
e la sua requie materna in pace
non riconduce più il latino
al grembo della madre
con le sillabe affrante del cuore
più non punterà dritti gli occhi
sulle facce degli amici e dei nemici
sulle feci e i pidocchi dei marmocchi
scrofolosi itterici e picciosi
sul sangallo e la fiandra
sulla tela di agave lavorata
nella contrada del camposanto
o sui dolcini di ricotta e gelsomini
e più non darà consigli
e non mi dirà non fare la baccalara
che inghiotte a bocca aperta
perché tutti si fanno i conti in tasca
con qualche rarissima eccezione

e tu non hai imparato e mai imparerai a contare
e la vita è appesa a una foglia di frasca
non mi proteggerà più
e più non si attarda in ciabatte sulla soglia
quando sfrenato di voglia il cuore mi dice di andare

[…]

      

Jolanda Insana
da Tutte le poesie, Garzanti, Milano 2006.

*

Anna, tutto quel senso 

Com’era fresco il mondo che portava
sulla bocca al mattino, ancora verde
d’erba sognata, come la innamorava
quella piccola mela che oscillava
come un rosso pianeta
sul melo nano dietro la finestra, che corona
di foglie misurate una per una le metteva
sulla chiara fontana dei capelli
l’ombra grande del pesco e come tutta
l’acqua giallo-ginestra
che era stata spalmata
dal sole nel mattino della sua nascita
sulle pareti della casa
era un annuncio della tua larghezza, Anna, tutto quel senso

è stato
fatto sulla misura del tuo cuore.

    

Maria Grazia Calandrone
da Il bene morale, Crocetti Editore, Milano 2017.

*

       

Paolo Figar, Angelosirena

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