CONVERSAZIONE NOTTURNA IN PRESENZA DI INTERLOCUTORE APPARENTEMENTE ASSENTE, prosa di Maddalena Di Marco
La vecchia vegliava un antichissimo padre morente, e mentre vegliava pareva che pregasse. A suo modo lo faceva.
Nella luce notturna dell’ospedale, quando il silenzio calò, al termine del giro infermieristico di turno, ascoltai e faticosamente annotai le sue parole:
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“nell’abisso io li vedevo il fulgore e la speranza, tutti i suoni del mondo che null’altro sono che un immenso e definitivo silenzio d’espansione, ogni lingua, ogni codice in assenza di mediazione e di legge. e vedo il bambino, quello al quale la madre deve dare attenzione, reclamata, comunque. lo stringo a me e lo faccio giocare, mentre piango lacrime di figlia sopra un piccolo fuoco antico destinato alla dissipazione. il desiderio si allontana da me, mi fugge, nella maternità e nella morte, il pudore mi rende rabbiosa come quella cagna che ti chiavasti a forza nell’erba e poi lì la lasciasti che stringeva le cosce e ti malediceva. voleva possederlo il bambino, non partorirlo ad ogni colpo conoscendogli il fondo buio del pozzo. i propri occhi iperriflessi non la facevano vedere oltre, nello splendore del nero. sono cieca di furore e dolore, succhiami via dal seno questo figlio egoista, chiamami sorella, raccontami ogni miseria per farne splendore. riempi i miei buchi di carne, la tua, sfatta, e di stelle, rendimi una speranza d’inesistenza e d’amore.”
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“ti chiamasti Gavino un tempo, poi fosti donna e vecchio, un vuoto immenso, perdesti padri, sorriso di madre e verginità di fanciulla. ti votasti al silenzio per una parvenza di lenticchie e di schermo. annaspasti nella luce in cerca d’ombra. disprezzasti le femmine della tua specie. senza un argine cui aggrapparti, con il tuo piccolo pene eretto, incontrasti me, che solo quello voglio, e il mio luttuoso nulla. avesti vent’anni un tempo, mi scopasti cinque volte inebriandoti del tuo stesso profumo. e fosti sardo.”
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“ha voglia di vita sepolto in quest’autunno lunghissimo che si è dato e scelto, costruito in un cumulo di foglie secche al bordo. fuori è maggio i suoi profumi dolci ricordi di scuola si tira le foglie sul viso, si riempie le nari di terra, si aggrappa alla croce per non sentirne il richiamo. l’hanno abbandonato, ogni volta, e lui abbandona la primavera. rugginosi colori affinché anch’essa non cessi, per saperla sempre lì, nel maggio, con i compagni e la ragazza della piazza. la croce conficcata nel viso. duole, la copre di foglie luminose che gli fanno candida la pelle. lo sfioro dunque nudo, ovunque, lo addormento e lo bagno di pioggia, gli tiro addosso altre foglie. per amore.”
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“un’architettura assurda ci crollava addosso ad ogni passo ne’ ci salvava guardare in basso, l’acqueo suolo, il riflesso che ci attraeva nel gorgo. nere sagome nel sole nordico. non ci piaceva fare l’amore, tu sognavi cazzi e io sognavo che mi uccidevi. voglio rivederla Amburgo senza i tuoi occhi.”
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“invidiosa di dio la scorsa notte ho creato anch’io una vita, in sogno:
ero ospite di un convento buddhista sulle montagne francesi, un convento abitato sia da monache che da monaci. uno dei monaci, del quale non era dato sapere il nome, aveva tratti orientali pur essendo figlio dell’occidente, così alto e di largo petto. un figlio di confine nel corpo e nell’anima, doveva amare il vento e parlare poco. ci guardavamo. da giovani quasi. ma negli occhi orientali è difficile individuare il desiderio, e in quelli di un monaco si confonde spesso con la contemplazione. soli nel camerone antico abbiamo spento lo schermo e ci siamo sdraiati, io ho avvicinato le labbra. lui le ha prese con le sue succhiandole. ha rifiutato la lingua più volte poi ha accettato anche quella, a lungo, finché ha parlato per dirmi del suo disinteresse per la cosa che mi fa donna. la gonfia durezza non era per le ombre facili. mi ha fatta dunque girare rispettando il momentaneo dolore e gioendo poi dell’accettazione per il lungo tempo che lui aveva stabilito. mi teneva coperta con una mano e non potevo darmi piacere ma non ho protestato. neppure lui ha raggiunto il culmine. si è distaccato prima e ci siamo lasciati così, nelle carezze e nei baci. non ci amavamo completamente e dunque non ci siamo concessi piacere completamente in simulazione nel corpo dello spirito. abbiamo per qualche momento resa visibile l’anima.”
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“a Budapest sono tornata. era cambiata lei, e pure io. è stato come un primo incontro, senza le tue paure e i tuoi pudori.
vorrei viaggiare sola adesso, ché ogni luogo lo ricordo attraverso il filtro del pene di un uomo.
o vorrei viaggiare con Varlaam, per essere io per lui un occhio ignorante e diverso.
chi è Varlaam, mi chiedi?
Nessuno.”
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“non sapevamo più chi eravamo né da dove venissero le nostre parole; gli altri, quelli biondi, ci guardavano come se non ci intendessero e bestemmiavano gli dei. provammo allora a scrivere, parole semplici, di uso comune: amore, amicizia, bellezza, pace, ci azzardammo a tentare con “conforto”, ma questi grugnivano rossi in volto, sempre più alterati, finché decisero di processarci. noi comprendevamo il significato delle accuse ma non il loro senso, tanto erano assurde e campate sul nulla: si trattava infatti di enormi efferatezze estranee alla nostra natura. tentammo dunque di difenderci e loro risero. non ascoltavano. poiché le parole non arrivavano provammo anche a sorridere in segno di distensione. ci picchiarono. poi tutto – tutta la poesia – finì nel buio e nel silenzio.”
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“vorrei avere la semplicità di un uomo fra le gambe, un bello strumento che non partorisca figli e che si drizzi fino a novantott’anni, come quello di mio padre. un bel pene egoista e vanitoso, abile a penetrare fiche e culi, anche a pagamento. ti butterei addosso cinquanta euro e ti farei girare. mi sentiresti entrare con forza maschia, indugiare a lungo in te, alitarti sul collo. poi dirti piangendo: sono femmina e ti amo.”
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“lo sai tu che Tyche forse si nasconde in una nube gassosa ai confini del sistema solare?
Tyche era femmina e teneva Pluto tra le braccia: un bambino non abortito simboleggia la ricchezza.
solo una donna è capace all’aborto. a dare la morte prima della vita in un lasso predeterminato di vita. Tyche passava frettolosa perché era donna, sapeva che la propria deità era a termine.
l’uomo si forma e sfalda gradualmente, non ha percezione di scadenza. La donna sa di essere larva fino ai tredici anni, di essere un’altra forma di vita fino ai 50 e un’altra ancora, privata di funzione divina, fino al ritorno al nulla.
ha il coraggio dell’inconsapevolezza l’uomo che parla di donne e da donna solo per un ritmo intrapreso come fossimo fiori o macchine volanti, senza entrare davvero nell’algoritmo di funzionamento di una rete neuronale dall’impostazione sublime, vede cosce, intuisce dolori, cieco si ribalta nel proprio ego. scrive, dice e fa come il serpente, che era maschio.
Tyche passava in fretta con Pluto tra le braccia, salvato alla deità. Ora si nasconde vergognosa.”
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“vorrei regalargli un giocattolo nuovo, una Barbie con un cappello rosso a larghe falde, bionda, alta, affascinante come vent’anni fa, sola. che appena arrivata ci avesse detto ho scritto sei libri ma ho cominciato a pubblicare dal terzo, è talmente bello che nessun lettore potrebbe non leggerlo…
vorrei che fossimo ancora bambini, nascosti in un angolo del cortile, in ombra, per permetterci la curiosa perversione di spogliarla insieme.”
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Tu sei come la prosa: non senti, non leggi, non ascolti, non rispondi. e sei come la poesia: vivi del tuo mondo ed entri solo nei prescelti. Sei l’essere mitologico della prosa poetica, Padre. E io sono sfinita.
Il respiro del vecchio cessò e la voce tacque.