Coordinate per la crudeltà di Fabrizio Lombardo, recensione di Giuseppe Martella
Alla libreria Trame di Bologna, qualche tempo fa, ho avuto modo di ascoltare la presentazione dell’ultimo libro di poesie di Fabrizio Lombardo, Coordinate per la crudeltà (Kurumuny, 2018), corredata da una lettura di brani da parte dell’autore. Ne sono rimasto coinvolto, tanto da acquistare il volume e da leggerlo un paio di volte di seguito, articolando e problematizzando così la mia prima positiva impressione. A partire dal titolo che mi richiama alla mente anzitutto il progetto di Antonin Artaud di costruire un “teatro della crudeltà”, uno spazio scenico eccessivo, arcaico, sacrificale, per mettere in questione anzitutto l’egemonia del testo sullo spettacolo, fondendo posa, movimento, effetti scenici e parola in un unico gesto simbolico. Uno spazio in cui attori e spettatori fungono da meri catalizzatori delle scariche di tensione che lo attraversano, soggetti insieme al rischio dello scambio dei ruoli, della proliferazione dei doppi, della lotta di tutti contro tutti, in quella che René Girard chiama crisi della violenza mimetica, e che sfocia infine nella caccia al capro espiatorio di turno, come espediente universale per abbassare la tensione disgregatrice di una comunità. La percezione di una violenza diffusa è presente infatti nel testo di Lombardo, sebbene non nei termini eclatanti voluti da Artaud, e piuttosto qui si tratta della violenza sorda e ordinaria, velleitaria e banale cui assistiamo nel teatro e minimalista di Samuel Beckett. Siamo di fronte a due forme di messa in scena esattamente agli antipodi: tanto esuberante, sinestetica, iperbolica la prima, quanto scarna, statica e reticente la seconda. Nel testo di Lombardo, questi due poli della rappresentazione risultano complementari come due facce della stessa medaglia, si incontrano in quella sua dichiarata poetica della sottrazione, dello scavo materiale della parola (che ricorda in qualche modo l’intenzione michelangiolesca di trarre la forma appena intravista nelle venature del pezzo di marmo grezzo che la contiene), e valgono infine come assi cartesiani su cui tracciare le “coordinate per la crudeltà” di cui recita il titolo. Un titolo che non mi pare però del tutto pertinente rispetto sia alla struttura che ai contenuti del volume. La struttura è evidentemente sbilanciata fra le prime due corpose parti antitetiche (“False partenze” e “Coordinate per la crudeltà”) e le rimanenti tre che appaiono come schegge di senso scaturite dal loro scontro che è anche quello fra due archetipi psichici e fra due modelli della narrativa occidentale: quelli dello stallo e della ricerca, dell’assedio e del viaggio, dell’Iliade e dell’Odissea. Le prime due sezioni articolano infatti questa tensione costruttiva, mentre le altre tre ne riprendono i motivi senza condurli peraltro ad alcun compimento. Lo sbilanciamento strutturale, più o meno intenzionale, non toglie però efficacia alle singole liriche, che operano come miniature autonome. Cellule ritmico-semantiche ripetute e riannodate in loop, come in una composizione musicale minimalista che non prevede la necessità di una chiusura formale. Siamo dunque di fronte a una poetica del non finito: sia nel senso dello svuotamento, dello scavo materico al fine di ritrovare una forma essenziale, che in quello opposto dello sfinimento della parola ormai incapace di dare forma a un vissuto che le sfugge continuamente in avanti nel spazio-tempo. Si può anche indicare dunque nella dialettica tra vita e forma uno dei tratti significativi di questa raccolta.
Che la struttura sia in qualche modo inclinata, pendente, aperta per così dire al processo entropico, lo dimostra, come si diceva, una semplice occhiata alla lunghezza delle sezioni che va diminuendo drasticamente dalla prima all’ultima. L’asimmetria strutturale evidente che caratterizza l’intera ricerca di senso negli spazi qui evocati ben si confà peraltro allo sviluppo dei temi della cancellazione (dei profili, della memorie, delle tracce di ogni vissuto condiviso) e della occlusione dei progetti esistenziali del protagonista e dei suoi comprimari. La prima sezione comunque privilegia la dimensione del tentativo, del movimento, della partenza (per quanto falsa), mentre la seconda verte sulla stasi, sul girare intorno in luoghi chiusi, case o prigioni, in una sorta di insuperabile stallo esistenziale. Spazi chiusi e asfittici, alieni e conflittuali vengono qui continuamente evocati infatti, e infine il dramma si conclude in un magazzino di Amazon (lo spazio disumano della merce), sotto un cielo simulato da Instagram. Si cominciano dunque a precisare le coordinate del male di vivere nei non luoghi in cui siamo costretti a operare e dove si producono quelle distorsioni e quei crampi della comprensione e dell’affetto che vengono evocati. La “crudeltà” riguarda dunque anzitutto una perdita di senso, una sottrazione di umanità e una diminuzione d’essere: è di ordine conoscitivo, etico e ontologico nel contempo. Ma specialmente essa colpisce il dialogo e la comunione con coloro che ci sono più vicini nell’ambiente domestico: tutta la seconda sezione è dedicata infatti alla corrosione degli affetti nel tran tran quotidiano, verosimilmente in una situazione di coppia in cui l’amore, che tuttavia pare resistere, viene messo a dura prova.
Se il pendolarismo (di schopenhaueriana memoria) fra il dolore e la noia sembra costituire la nota di fondo della raccolta, il taglio generatore di questa silloge, il suo ipogramma, sembra proprio consistere in quella barra inclinata in avanti che l’autore usa spesso, a ragion veduta, come pausa a mezzo verso ma anche e soprattutto come indice della pendenza strutturale della sua ricerca e icona dello squilibrio esistenziale evocato. Ma poi anche di un sollecito sporgersi in avanti, di una sorta di attenzione verso coloro che incontriamo negli spazi asfittici delle nostre dimore abituali e nei nostri occasionali, inani tentativi di fuga. Possiamo leggere dunque lo slash grafico come segno del pendolarismo esistenziale che dicevamo e che pare destinato a non concludersi mai. In questo orizzonte grigio e chiuso, fra disincanto e ostinazione, si svolge la ricerca dell’io poetico di una possibile minima comunicazione o addirittura comunione di affetti e intenti, fra pellegrini, colleghi, amanti, compagni di strada, avatar e funzionari, tutti prigionieri del medesimo sistema di simulazione e di dominio (quello del capitale finanziario multinazionale) che ha già da tempo omologato ogni varietà di spazio scenico e ridotto le valenze estetiche e cultuali dell’opera d’arte a quelle meramente mercantili, spogliandola così della sua Aura, come, con largo anticipo, ci aveva avvertito Walter Benjamin.
E si tratta di un percorso accidentato, fra false partenze e mancati arrivi, fra tentativi e ritirate, fra fughe e ritorni nella casa-prigione, in una variegata messa in opera di quella dialettica tra vita e forma che pur volendo giungere a qualche conclusione, rimane tuttavia inesorabilmente aperta, penultima, non finita. E nella dolorosa consapevolezza che nulla accade, nulla può accadere davvero (21) e che il discorso poetico, per quanto sorvegliato e sapiente, non può che comporre una “grammatica del vuoto” (20) e restituirci pose, gesti, passi solo accennati, rimasti a mezzo, conati, atti mancati. Oppure, al massimo, registrare la scia del risentimento, la violenza di un contraccolpo: “il rinculo sordo/il calcio di inizio che non ti aspetti.” (32) O il lavorio costante, inesorabile della cancellazione di tracce insignificanti oppure di cui ci si vergogna, come i “graffiti nazisti comparsi ieri”36 (quando?) o del file di un libro in cui più non si crede dall’hard disk del proprio computer (37). Il gioco sadomasochistico di iscrizione-cancellazione nella memoria organica e macchinica, individuale e collettiva, di breve e lungo termine, costituisce un tema fra i più importanti di questa silloge, che culmina nell’atto meccanico, cruciale della combinazione di tasti, CTRL+ALT+CANC che determina il Reset, l’azzeramento totale della memoria di sistema di un computer, ma forse anche di un progetto di vita, di un mondo possibile. (47) Con la conseguente presa d’atto di “un’altra partenza falsa” (49) come implicazione del mancato arrivo.
Alla figura dell’atto mancato, di un percorso non compiuto, fa riscontro poi il senso del tempo vissuto prevalentemente come mancanza, intempestività, perdita. La verticalità del kairos, della decisione fatale, propria dell’esperienza tragica del mondo, viene piegata (anche graficamente e ritmicamente, con la barra inclinata che segna il tempo della dizione) verso l’orizzontalità e l’inesorabile isometria del chronos. La possibilità stessa della scelta esistenziale viene preclusa, assorbita e cancellata nella pura ricorsività del metronomo. Il fatale inclina dunque verso il banale, nella filza dei traslochi, degli abbandoni e dei ritorni, tra le parole e i silenzi, i crampi e gli inciampi, l’appiattimento delle relazioni e l’usura degli affetti, nella demistificazione della sacralità della dimora nel via vai tra la camera da letto e la cucina (56), tra i residui e le tracce organiche dell’eros (72), nella spirale quotidiana dei giri a vuoto (69) che scandiscono “l’algoritmo della resa.” (71) Fino allo sfinimento dell’intenzione che vorrebbe trovare un termine al percorso, un senso al vissuto, una forma dell’esperienza; e alla disfatta dell’io poetico che si ritrova, alla resa dei conti, a dover censire la svendita al dettaglio e la bancarotta della propria vita, (99) la definitiva alienazione del sé, “in pronta consegna” (102), nel virtuale mondo-magazzino di Amazon, “tra la gastronomia e le casse” (103), sotto un “cielo da Instagram”. (105)