Cosa può dire ancora la poesia sulla morte? Una riflessione e poesie di Simone Sibilio
Cosa può dire ancora la poesia sulla morte, topos poetico universale per eccellenza? Come scriverla e cantarla? La morte, domanda poetica ‘viva e aperta’ per eccellenza.
Aperta dai primi verseggiatori della storia, aperta a infinite possibilità, forme e modalità rappresentative, aperta sulle ulteriori domande della vita, nostra e degli altri.
La si ritrova in ogni tempo e in ogni luogo, in ogni cultura letteraria, nell’espressione di ogni civiltà come tema fondante dell’elaborazione e della meditazione di cantori e poeti. In alcune tradizioni culturali è divenuta essa stessa origine di un genere poetico, dunque fonte prima della poesia che assurge a canone.
Da studioso di poesia araba e traduttore di numerosi poeti contemporanei ho dovuto osservare come uno dei generi preminenti della tradizione poetica araba – la cosiddetta al-rithà’ , l’elogio funebre, presente sin dall’epoca preislamica – abbia preservato nel tempo la sua forza attrattiva, attestandosi come modello di riferimento anche per i poeti moderni. C’è poi chi all’essenza della morte ha dedicato un’intera opera, penso al grande poeta palestinese Mahmud Darwish che, con Murale (2000) tracciò un nuovo orizzonte estetico, esplorando il tema in forme inedite. Tradusse abilmente un topos letterario convenzionalmente trattato nella sua dimensione collettiva o ‘comunitaria’ – Darwish è stato a lungo considerato il sommo poeta del dramma palestinese – a sua propria intima, sublime visione, dettata dall’esperienza privata del coma. Sulla soglia tra la vita e la morte, ci ha consegnato un’opera visionaria di respiro universale. Annuncia:
Un giorno sarò ciò che voglio.
Un giorno sarò uccello, dal nulla trarrò la mia esistenza.
Ogni volta che le ali bruciano avvicino la verità, rinasco dalla cenere (…)
E ancora con tono solenne e di sfida a Lei si rivolge:
Non dimenticarti mai di me, Morte!
In quante opere la morte è un espediente allegorico per riproporre e ricentrare la domanda sulla vita, sul senso dell’esistenza e delle sue battaglie. La morte come spettro da ricacciare, come detonatore di tutto il potenziale liberatorio, creativo, in certi casi persino rivoluzionario che la vita esige e significa. Forse è questa considerazione che mi ha spinto a esplorare poeticamente la morte come “contro-discorso”, per liberarla dalle tenaglie delle sue rappresentazioni più convenzionali, talvolta legate a immaginari non poco gravidi di retorica e cliché, se pensiamo alle grandi questioni attuali entro cui si articola, le guerre, lo sterminio di popoli e le distruzioni di società, il terrorismo o il fenomeno migratorio che lascia alcuni impassibili o incapaci di indignazione, e altri impotenti o incapaci di reazione.
Su quest’ultima annosa questione interviene l’ultimo testo qui presentato, In posa composta, che interroga i meccanismi speculativi della rappresentazione mediatica della morte e del lutto, come l’iconizzazione della vittima, in rapporto alla resa dello spettatore/fruitore passivo non solo di contenuti e visioni ma anche di quel “linguaggio universale” dei diritti umani, abusato e svuotato di senso.
Nei primi due testi ho invece cercato di sfruttare le possibilità offerte dalla tensione dialettica di questo motivo. Riallacciandomi in parte alla proposta di “Poeti in Itinere”, e rivisitando in modo personale il movimento dalla morte alla vita, ho provato a ribaltare la prospettiva per celebrare chi sull’uscio della morte ritrova l’abbraccio della vita. SS
Il dono
Vedo la riva, eccola
si protende ai nostri occhi, generosa
con cuore di colomba
e ali di cristallo
tinge cerchi nell’acqua
come scariche elettriche
che trafiggono il cervello
per riaffermare la vita.
Io la attendo.
Lambire il corallo che s’offre in omaggio
la attendo accogliermi come una madre
sull’uscio, al rientro dal viaggio
desiderarmi
come l’incontro mancato
che serra lo spazio tra terre in ascolto
ricevere la mia di offerta
il dono dell’approdo.
Ecco la riva
sorride al lampeggio del segnale
le ossa si calcificano
le labbra si umidificano
si rimescola l’aria
splendono le nubi nello specchio
dell’acqua
lungo il cammino generoso, anche loro
prodighe di forme aggraziate e gioiose.
Guarda il faro sorprenderci
con il suo arcobaleno
suona echi trionfali, profondi di storia
adesca la poesia sbocciata dal tessuto della vita,
questa nostra prigioniera del caso.
Raggruppiamo le vesti o i sacchetti
abbandonati negli angoli
e sui chiodi nel legno crepato
indossiamo scarpe, scialli o calze
le donne si truccano di pianto
i figli ci strappano le dita
ci avvolge il tepore di carne ammassata
come legna
respinge l’assalto del mare in tempesta.
La notte ha partorito l’alba senza doglie
senza aggravio di spesa
senza balie o fasce di cotone
sola,
ha reciso il cordone ombelicale del viaggio
ci investe, l’alba
e ci assomiglia,
quest’alba che ci gonfia di euforia
quest’alba siamo noi
siamo sagome mobili
tra le macerie del giorno che incalza
il segno del cammino
che non cede e non s’arresta
la prova della vita
la sua sfacciata intemperanza.
*
“Estratto vivo dalle macerie”?
“Estratto vivo dalle macerie”?
È questo il tempo di invocare segni e di obbedire all’eco del giudizio?
Non il tempo del castigo che precede il sogno redentore?
Restituirò ai profeti questo ossimoro non grato.
Lei non verrà
non avrà i miei occhi.
Domani, solo, per le strade, mi riconosco
porterò dentro la storia del mondo
dimorerò nelle pieghe degli alberi al vento.
Non ho terra da aspirare, né terra a cui tornare,
la terra ha invaso il corpo e mi ha forgiato
della terra, sono il prescelto.
*
In posa composta
Rimuovete i resti dalla pista
sbrigatevi, inetti, occultate l’ingombro
Giace sull’arena del vento
contro l’agguato torrido di un agosto smarrito
il ritmo stordente di pause eccitanti
la pagina sbiadita del vizio e del vuoto.
Ed è già modello di un discorso perverso
di retorica gravido, logoro
già strumento di affaristi avidi
che trangugiano il corpo e la memoria
per poi affrettarsi a pronosticare le tenebre.
Rimuovete i resti dalla pista
sbrigatevi, inetti, occultate l’ingombro
Che aspettassero lui?, volto d’innocenza abusata,
in posa composta… missione compiuta
la luce smagliante di una bara su tronco d’ulivo
il fardello tetro e sadico della civiltà oltre l’uomo
che ha chiuso i sensi prima dei confini
e gioca a dadi sulla vita degli altri
e gode a urlare diritti e doveri
Rimuovete i resti dalla pista
sbrigatevi, inetti, occultate l’ingombro
Ora, Dio, chiedono tutti di te
si affannano a invocare il tuo nome
si sbattono a cercare, faticano a capire, si dannano a dividere.
E se il segno migliore è in un esodo senza sosta né coerenza,
sospinto da un amore ostinato, un bagliore di speranza
se il dono più grande è una strada straniera che si gonfia
di sconfinata, sfacciata bellezza
allora riapri questo spazio e rendilo casa
restituisci le chiavi, l’ancora e la fune,
il vento, la sabbia, l’odore del sale
la carezza di una madre,
il coraggio di una figlia,
la luce degli occhi, la luce del cuore
e, soprattutto, ridona la parola.
Perché è da un linguaggio vergine
che dovremo rifondare.
Simone Sibilio, ricercatore di lingua e letteratura araba presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, poeta e traduttore. Esperto di questione palestinese e poesia araba, ha tradotto numerosi poeti arabi contemporanei in volumi e riviste. La sua ultima pubblicazione è In guerra non mi cercate. Poesia araba delle rivoluzioni e oltre (in collaborazione con O. Capezio, E. Chiti e F.M. Corrao, Le Monnier, 2018). Suoi testi poetici sono apparsi su riviste nazionali e internazionali, tradotti anche in arabo e francese. È in preparazione la sua prima raccolta. È inoltre il direttore artistico del Nazra Palestine Short Film Festival.