Cronache da un’impossibilità di Mia Lecomte, Quarup ed. 2015, recensione di Francesco Tarquini.
“…Perché la vita è solo una piccola parte di tutto ciò che esiste”. Questo verso del poeta danese Søren Ulrik Thomsen fa da esergo al libro di Mia Lecomte, che raccoglie racconti scritti nel corso degli anni a lato di un intenso lavoro poetico e recentemente pubblicati da Quarup: Cronache da un’impossibilità. Titolo che sembra rivelare un’affinità d’intenti con quello di Autobiografie non vissute, raccolta poetica del 2004 in cui Lecomte scriveva, come già dialogando con il verso di Thomsen, “Vita è quello che rimane / quando si è perduto tutto”. Un forte segnale di continuità fra poesia e prosa nella ricerca di questa scrittrice dalla scrittura “sradicata”, come lei stessa dice di sé, cresciuta in una zona di confine, fra due lingue, studiosa del rapporto fra comunicazione e culture, osservatrice attenta, anche in sede universitaria ed editoriale, della scrittura in italiano di autori provenienti dall’immigrazione.
Ma quale impossibilità evoca il titolo di questo libro? Titolo dal tono ossimorico, peraltro, se la parola “cronache” richiama connotati di veridicità, che l’accoppiamento con “impossibilità” dovrebbe escludere. Si tratta forse di un’impossibilità – una non verisimiglianza? – delle storie che vi sono narrate? “Credo che quello della verosimiglianza sia l’ultimo dei problemi”, afferma tuttavia la protagonista di uno dei racconti.
L’impossibilità in questi racconti risiede in qualcosa che viene, per così dire, prima della narrazione stessa, vale a dire in quella grave difficoltà di individuazione di sé che ne caratterizza i personaggi: una frontiera dell’essere per raccontare la quale la sola via è, sembra dirci Lecomte, la ricerca di un “assoluto possibile” della scrittura, che l’autrice realizza supponendo situazioni rette da un totale straniamento della realtà fattuale e psicologica. Non è allora tanto un’abile capacità tecnica, innegabile peraltro, ma piuttosto la stringente necessità di un mondo immaginato che anela alla propria forma, a strutturare la narrazione secondo modalità proprie della letteratura fantastica, evocando echi di Sudamerica al punto che è lecito citare, come qualcuno ha fatto, il nome di Julio Cortázar: direi soprattutto per alcuni dei racconti, come L’ospite, Al compleanno, Ritorna.
Cronache da un’impossibilità dice dell’amore. Della frontiera fra desiderio e realtà. Della frontiera interna allo stesso amore. E lo dice in una prosa tersa, asciutta senza secchezza, all’interno della quale trovano il loro posto un filo ironico e quell’attitudine al gioco spesso palesi nel lavoro dell’autrice. Una figura, quella della frontiera, al tempo stesso mito letterario e non evitabile prova esistenziale, ben radicata nell’esperienza personale di Mia Lecomte e nel suo percorso di poeta e di intellettuale che in più di un’occasione, del resto, si è rivelata studiosa e autrice di fiabe. E le fiabe ci dicono che di fronte a un “dentro” spazialmente limitato e per questo altamente protettivo, sta un “fuori” di grandi dimensioni, sconosciuto, pieno di pericoli ignoti. Su questo si basano le fiabe, esistono per questo. Andare dal dentro al fuori, e poi tornare ricchi di esperienza. Oltrepassare una frontiera, Jurij Lotman ci insegna, vuol dire lottare contro l’organizzazione del mondo. A partire, nel libro di Mia Lecomte, da un senso di essere fuori posto. Dalla difficoltà di “individuare un centro da cui espandersi”.“Come definiamo i confini di noi stessi”?, si domanda infatti la protagonista de L’ospite. La quale è uscita senza motivo evidente, e senza esserne stata cacciata da nessuno, dalla propria casa, come allontanata da un improvviso senso di esclusione. E dai bar e cabine sulla strada, o dall’anonimato della pensione in cui si è trasferita, continua a telefonare a se stessa, per sentirsi rispondere da una voce maschile sconosciuta e tuttavia nota; e su di essa affabula senza parlare, affabulare come evocare e ricordare, descrivere minuziosamente il corpo immaginato di quell’uomo che occupa casa sua, nudo nel bagno, fino in dettagli per i quali ipotizza varianti e al quale inventa una vita. In una strategia di avvicinamento senza altro risultato che continuare a udire quella voce al telefono, a intravvedere una figura maschile dietro le tende del proprio salotto. E poi, così come era cominciato, tutto finisce. La donna torna a casa. Dentro non c’è nessuno e tutto è rimasto come lei lo aveva lasciato.
Una storia di intenso mistero, che lascia tuttavia emergere il proprio senso profondo, la necessità di partire da noi stessi, di muoverci verso noi stessi per cominciare a costruire il percorso di apertura verso il mondo. Uscire dallo spazio protetto, avventurarsi al difuori, per riuscire a mettere in salvo – questo a me pare il senso generale del libro – ciò che rischia continuamente di perdersi, elementi preziosi della vita, delle singole vite, preziosi nella propria apparente insignificanza, parole dette o pensate, sentimenti incerti, “episodi della nostra vita più reale – viene detto nel racconto A episodi –, quella che non abbiamo mai vissuto e non ci somiglia per niente”. È proprio su questo tema del salvataggio della vita che si innesta un dualismo vita vs letteratura, vita vissuta vs vita narrata, caro a Lecomte e raccontato con leggerezza in Costrutti, il racconto che apre il libro: storia di uno “scrittore di parentesi”, nei cui scritti tutto ciò che davvero conta per raccontare in profondità e ricchezza una vita è messo tra parentesi, come espulso dal discorso letterario. Forse segnalazione di una frontiera dell’aridità come pericolo che incombe sulla letteratura, segnalazione che trova una sua risonanza in A episodi, dichiarazione di un intenso amore per la parola, di cui si denuncia la violazione e lo sfruttamento operato da ogni forma di potere.
I personaggi di queste “cronache” hanno a che fare, coscienti o no, con le loro frontiere; spesso perdendovisi, come accade al protagonista di Abitando: il muro che si è costruito intorno per isolarsi da quello che ritiene il disordine della vita, si infrange miseramente, travolto infine dalla vita stessa e dalle sue svolte imprevedibili, nella rivelazione forse solo ipotetica di un amore non vissuto. E anche l’atemporale Noè de La salvezza è destinato a perdersi dinnanzi alla frontiera invalicabile di norme imposte da un’autorità sconosciuta e lontana, abbandonando così la propria amata alla catastrofe in forza dell’editto cieco e crudele “moglie legittima e figli, animali accoppiati”. In Ritorna un uomo “non ancora assuefatto all’idea di esistere” scopre in libreria un libro sconosciuto che risulta scritto da lui stesso e che porta in quarta di copertina la sua fotografia. Intuisce, o capisce, o crede di capire mentre avanza nella lettura, che la vera autrice è una donna amata, che lo ha scritto perché lui potesse prima o poi leggerlo, e tornasse da lei. Il libro funziona dunque paradossalmente come una richiesta amorosa nella quale il protagonista vede rispecchiarsi il suo stesso desiderio.
La frontiera che attraversa il libro è dunque essenzialmente quella fra il maschile e il femminile: “Quel femminile, senza distinzioni, dell’insondabile inespresso maschile. Della memoria e dell’aspettativa”, è scritto ne L’ospite. Fra quell’ “inespresso maschile” per il quale solo esiste “la donna”, sintesi e ipostasi di tutte le donne, e l’identità femminile, come identità singola, personale, e come tale di volta in volta riconosciuta. La tensione fra lo spazio di dentro del maschile, e lo sconosciuto spazio di fuori del femminile, produce l’impossibilità. Così l’amore è qualcosa di continuamente desiderato e continuamente sfuggente: vivibile, appunto, nella solitudine del desiderio. È forse lecito qui un richiamo a Gli amori difficili di Calvino: storie di disincontri, dove però è il disincontro stesso a costituire l’essenza della relazione amorosa.
Dalla solitudine emerge tuttavia un elemento di salvezza: il corpo.“La carne che vuol essere allegramente eroica, o tragica – cito ancora una volta L’ospite – …la carne che sa della propria precarietà e ne trae piacere, prima di farsi strategia mediocre del vivere, arresa al solito purgatorio”. Pare a me che Lecomte invochi per il corpo analogo cammino a quello da lei preteso per la parola: la liberazione dal potere – che ne ha fatto, come dice Umberto Galimberti, “il negativo di ogni valore” –, come in un recupero della sua primitiva forza di irradiazione simbolica. Al corpo, alla sua unicità si appella dunque l’autrice, come un appiglio contro l’impossibilità e in un approccio denso di dettagli, in cui tutti i sensi entrano contemporaneamente in gioco, producendo un insieme di segni che restituiscono al corpo la sua identità di soggetto che comunica.
Ed è proprio la forza comunicativa del corpo a trionfare nel racconto che chiude il libro, In exitu, in cui un aspirante suicida recatosi in un paese straniero di cui ignora la lingua per ricevere la “dolce morte”, per un equivoco finisce per trovarsi non già nella stanza a lui destinata in una clinica ma in quella di un albergo a ore. Ignaro, viene preso in un istintuale, naturale rapporto erotico con una altrettanto ignara cameriera alla quale ha rivelato, non compreso, la propria vicenda, e al quale lei ha narrato, altrettanto incompresa, la propria. Il puro suono del linguaggio ha creato il rapporto amoroso: “Sono insieme, in fondo. Più in fondo. Come felici, intanto”. Un trionfo del corpo, che infrange la barriera della comprensione linguistica e si fa esso stesso, e consapevolmente, linguaggio. Ritorna nel finale l’immagine della pelle dell’uomo: “lei può ritrovargli quella pelle sottile, quel profumo che aveva sentito all’entrata”, ricongiungendosi idealmente all’immagine de L’ospite: “Degli uomini mi piace la pelle, l’involucro, il rivestimento… Non mi interessano le forme, le dimensioni. Solo la pelle che le riveste”.
C’è nei gesti di questa donna estranea e straniera un’immensa dolcezza. Un porsi davanti alla sessualità come davanti a un’epifania. In cui non c’è supremazia, non c’è possesso, ma un darsi e prendere che sembra portare le tracce di una forma del divino.
