da giulia niccolai ad emilio villa

E. V. BALLAD

                        per Emilio Villa

                               

Evening and the Everest

ist vers la poetry leaning. Er

isst er rit er tells a tale

des bear’s der splash! mit cul poilu

nell’acqua bassa um la forelle

zu farla saltar fuori

to make the trout jump out.

Puis il se léve la trota nella paw

und isst und rit und ist der dichter

every very big indeed

so froh und bär so rare und weiter.

Ça au National Park.

But all America la calzi

come un guanto

Zeus Rebelais

il t’amusait ce luna-park

you fed computers coded data

coddled eggs cod-fish balls

un causset la fricassee

un potage Dame Edmée des côtes

de porc grand-mère les couilles

du père and out came brunt

H ah quel frisson quel high-toned test

quel high-speed text

tapioca! un bel incest

er mejo the best.

Off Frisco uper the bay

when rose fingere’d dawn

shone forth that day

nach den orkan dem hurrican

su quella piramide di phoques

(es war Phil hip that west coast mentor

qui me l’a dit)

you saw Nausicaa and like a mountain lion

dal fitto groviglio dei rami

you broke a spray

Athena auch war da she touched your hair

in a certain way

shed grace

and combed it col pettinino azzurro.

Ma sul canto sesto there’s nothing more

to say.

Ich wollte ganz for ever

once and for all

à la manière de ev

von ev  erzählen et

sinon la v qui est si

véri table eventuell

evidenziar la e.

                   

the-tree-of-life-1948

                 

Questa E. V. Ballad (Ballata E. V.), dedicata a Emilio Villa, è la prima di 12 ballate polilinguistiche (scritte tra il 1975 e il 1977), raccolte nella sezione Russky Salad Ballads e  apparse in Harry’s Bar e altre poesie (1969-1980), Feltrinelli, 1981. Come dichiaro alla fine del testo: («Ho voluto una volta per tutte/ e per sempre/ raccontare di ev/ alla maniera di ev…»), questa ballata, composta come le successive con un’insalata russa di quattro lingue: (italiano, francese, tedesco, inglese), deriva dai testi pluringuistici di Emilio Villa, e attraverso di essa cerco di raccontare l’ammirazione, il divertimento, il senso di libertà e di gioia che lui personalmente e la sua opera, fitta di giochi di parole, mi sapevano dare.

Così, le prime due Ev di Evening e di Everest, come le successive, sempre scritte in corsivo, vogliono richiamare l’attenzione sulle sue iniziali: E. V. Questi primi due versi possono essere tradotti così: «E’ sera e l’Everest inclina alla poesia.» Essendo l’Everest la montagna più alta, la si può leggere come metafora del «poeta più grande» e questo concetto verrebbe rafforzato dalla desinenza inglese «est» che, come in «best» di «good, better, best», indica il superlativo assoluto, trasformandosi allora anche nel gioco di parole: «il più Ev di tutti»,  «il massimo Ev».

«…vers la poetry leaning» dà anche: «inclina verso la poesia» con quell’avverbio francese, moto a luogo  «vers», che come l’italiano «verso» è omofono e olografo di «verso» nell’accezione di «riga di scrittura poetica».

Proseguendo nella traduzione: «Mangia beve racconta una storia/ dell’orso che spalsh! col culo peloso/ nell’acqua bassa per far schizzar fuori/ la trota/ per far saltar fuori la trota».

Si era alla fine degli anni Sessanta. Adriano Spatola e io incontravamo Emilio e Teresa, la sua compagna di allora, sempre a cena, soprattutto  in trattoria, ma a volte anche nelle rispettive case. Emilio era tornato da poco dagli Stati Uniti dove era andato a trovare il figlio, fisico nucleare che lavorava per la NASA a Los Alamos. Gli Stati Uniti gli erano piaciuti moltissimo, si era divertito e amava parlarne. Il figlio l’aveva portato a visitare un Parco Nazionale dove Emilio aveva avuto la fortuna di assistere a una scena che l’aveva entusiasmato, per l’intelligenza e l’astuzia dell’animale, tanto è vero che gliel’ ho sentita raccontare più di una volta: un orso di vedetta su una roccia sopra un torrente, scorgendo una trota o un salmone nella vicina pozza d’acqua poco profonda, sotto di lui, ci saltava dentro (col culo peloso), facendo così schizzar fuori sul terreno la trota che avrebbe poi preso senza dispendio di energie.

«Poi si alza la trota nella zampa/ e mangia e ride ed è poeta/ veramente grande/ così felice e orso così raro e così via./ Questo al Parco Nazionale./ Ma tutta l’America la calzi come un guanto/ Zeus Rabelais/ ti divertiva quel Luna-park…».

L’entusiasmo col quale Emilio mimava questa scena, mi indusse a identificarlo con l’orso, ma subito dopo, cercando di spiegare quale sorta di piacere poteva avergli dato quel «Luna-park» degli Stati Uniti, lo definisco Zeus (sempre per associarlo alla grandezza, nonché alla sua traduzione dell’Odissea della quale parlo più avanti nel testo), e Rabelais (per gli eccessi, la sua voracità fisica e mentale per i pasti pantagruelici, i dizionari e tutte le lingue).

Emilio raccontava di avere sempre lavorato alle sue interminabili traduzioni (dell’Odissea  e della Bibbia in aramaico), in cucina, intento anche a sorvegliare sughi e intingoli, brasati, spezzatini o minestroni, comunque piatti a lunga cottura, mentre la sua compagna era fuori, al lavoro, a scuola o in ufficio. Egli amava praticare coi cibi associazioni inedite e bizzarre, tipicamente regionali e contadine: nelle minestre versava quasi sempre, a tavola, un bicchiere di vino, commentando che così arrossata, la zuppa diveniva uno «scattone». Non ricordo se questo termine (che non conoscevo e non avrei mai più sentito), fosse una sua invenzione, o l’avesse mediato da qualche dialetto… A una cena di Ferragosto a casa sua, ci servì un tipico piatto parmigiano e natalizio: zampone con una crema spumosa  di zabaione. Un ottimo incubo calorico, servito a una temperatura esterna di 35 gradi.

«…hai nutrito i computers di dati in codice/ uova in camicia crocchette di merluzzo/un cassoulet la fricassea/ una zuppa Dame Edmée delle costine/di maiale alla maniera della nonna i testicoli/ del padre e ne è uscito brunt/ H ah che brivido che testo dal tono alto/ che testo ad alta velocità/ tapioca! un bell’incesto/ er mejo il massimo.»

brunt H è il titolo di un suo poema, scritto prevalentemente in inglese (lingua che Emilio non conosceva) e che elaborò su uno dei computer con i quali lavorava il figlio alla NASA, inserendovi i più svariati dati in codice. Da parte mia aggiungo una lista di nomi di grandi piatti soprattutto francesi e che iniziano con la consonante «c», per dare maggiore forza ai quei «testicoli, o coglioni» del padre, pietanza allegorica che vuole simboleggiare in Emilio un suo possibile rapporto edipico con il nutrimento, l’oralità e la parola.

Quel «tapioca!» con l’esclamativo vuole avere un comico valore di bestemmia e «er mejo» è romanesco puro.

«Al largo di S. Francisco sulla baia/ quando l’aurora dalle rosee dita/ fece luce quel giorno/ dopo l’uragano/ su quella piramide di foche/ (è stato Philip quel mentore della costa occidentale/ a dirmelo)/ vedesti Nausicaa e come un leone di montagna/ dal fitto groviglio dei rami/ ne spezzasti uno/ c’era anche Athena ti toccò i capelli/ in un certo modo/ ti inondò di grazia/ e ti pettinò col pettinino azzurro.»

«uper the bay» è scritto in corsivo perché è una citazione dal suo testo brunt H, in un inglese parzialmente inventato (uper non esiste, ma l’ho interpretato come over, sopra). In certe stagioni, è possibile vedere, ammonticchiate sugli scogli della baia di S. Francisco, delle piramidi di foche che abbaiano i loro richiami amorosi. Emilio le vide in quel suo viaggio e ce ne parlò con lo stesso piacere e senso di meraviglia con cui ci aveva raccontato dell’orso. Sempre in quella città egli fece la conoscenza del santone degli Hippies, Philip Lamantia. Nel mio testo separo e scrivo in corsivo phil hip, connotandolo così come il mentore degli hippies.

Le tipiche espressioni omeriche come «l’aurora dalle rosee dita» ecc. si riferiscono alla traduzione dell’Odissea di Emilio (pubblicata da Feltrinelli) nonché alla sua teoria che Ulisse, quando, nudo come un  verme, dopo il naufragio, incontrò Nausicaa, non spezzò un ramo fronzuto per coprirsi le vergogne di fronte alla giovane principessa, ma scelse piuttosto un ramo a «Y», per posarci sopra e mettere  in mostra gli attributi della sua virilità! Secondo Emilio, la versione del ramo ricoperto di foglie che servisse a nascondere (come una foglia di fico), i genitali di Ulisse, era invenzione bigotta e purgata dei monaci amanuensi che nel Medioevo avevano tradotto il poema dal greco.    La presenza di Atena, protettrice di Ulisse, avrebbe poi benedetto quel felice incontro.

Emilio ogni tanto estraeva, anche in pubblico, da un taschino posteriore dei pantaloni, un pettinino di plastica azzurro, non particolarmente pulito, e si dava una velocissima ravviata ai capelli. Poiché quel gesto, anche allora, alla fine degli anni Sessanta, non veniva più fatto da nessuno, ho voluto ricordarlo con affetto e ironia, attribuendolo però alla dea Atena, che diviene così protettrice, non solo di Ulisse, ma anche di Emilio.

«Ma sul canto sesto non c’è altro/ da dire.» Dove il Canto VI° si riferisce ovviamente al Canto dell’incontro di Ulisse con Nausicaa nell’Odissea.

A questo punto mi ricollego ai versi già tradotti all’inizio di questo scritto: «Ho voluto una volta per tutte/ e per sempre/ raccontare di ev/ alla maniera di ev », che così proseguono: «e se non la v che è così/ veritiera eventualmente/ evidenziar la e». Pronunciando in francese «la v», avremo lo stesso suono di «lavé» e potremo leggere la frase anche come «se non lavato», in riferimento alle magliette di Emilio, spesso ricoperte di macchie e patacche che egli si procurava mangiando o cucinando.

Per poterne raccontare il contenuto, la traduzione in italiano che ho fatto della ballata è letterale, ma si sono perse così le rime e la cadenza veloce.

Mi spiacerebbe se qualcuno considerasse irrispettoso ora, dopo la sua morte,  questo ritratto di Emilio Villa, ma se ciò avvenisse, me ne scuso. Come ho già detto, il tono della ballata (quando la scrissi quasi trent’anni fa), voleva essere ironico e gioioso, e trasmettere il senso di allegria e divertimento che la sua presenza dava sempre agli amici.

Le persiane dell’appartamento di Emilio erano sempre chiuse, anche di giorno, e in casa sua si vedeva solo grazie alla luce elettrica. Non gli ho mai chiesto se questa sua mania di isolamento avesse a che fare con un suo forte desiderio di privacy, avesse lo scopo di mantenerlo al riparo dai rumori della strada, o servisse ad astrarlo dall’ipocrisia del mondo. GIULIA NICCOLAI

                        

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