dall’opera teatrale Io sono la bestia, di Andrea Donaera

dall’opera teatrale Io sono la bestia, di Andrea Donaera.

   

   

Andrea Donaera è nato nel 1989 a Maglie (Lecce). Vive a Gallipoli e studia presso l’Università del Salento.
Ha pubblicato diverse raccolte di poesia, tra cui Il latte versato (Sigismundus Editore, Ascoli Piceno, 2012); Certe cose, certe volte (Marco Saya Editore, Milano, 2012); L’amore, a dirlo, è una cosa difficilissima (‘Round Midnight edizioni, Campobasso, 2013). Si sono occupati della sua scrittura, tra gli altri, Valerio Grutt, Stefano Guglielmin, Elio Pecora, Nicola Vacca. È presente in numerose antologie e diversi suoi componimenti sono stati pubblicati e segnalati su riviste web e cartacee nazionali; è tra i vincitori del concorso permanente “Unpoeta.com”, finalista al “Premio Centro per la Nuova Poesia d’autore” 2014, semifinalista del “Premio Rimini” 2014 e 2015.
Da diversi anni si occupa di regia e scrittura teatrale. Nel 2013 ha creato la sua compagnia, il Gruppo Teatro 4e48. Suoi spettacoli sono stati rappresentati in rassegne nazionali e locali. Dal 2009 cura i Laboratori Teatrali presso il Liceo Quinto Ennio di Gallipoli. Collabora con le riviste “NoSun Entrainment” e “Nuove Finzioni”. È tra gli ideatori e organizzatori del Festival della Letteratura di Gallipoli “Il Mestiere di Scrivere”.

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Questo testo è un estratto dal lavoro teatrale di Andrea Donaera “Io sono la Bestia”, che verrà messo in scena per la prima volta il 10 maggio 2015 nel Teatro Garibaldi di Gallipoli (Le), per la regia di Alessandro Solidoro e con gli attori Alessandro Zezza, Giulia Pede, Domenico Carusi.

Nicole è una ragazza, non ancora una donna, non più una bambina. Viene sequestrata dalla Sacra Corona Unita e portata in un luogo nascosto dal mondo, sperduto nelle campagne salentine. A farle da carceriere un uomo che non sa usare bene le parole, ma sa guardare il mondo, con gli occhi buoni – di quella bontà ferita che Nicole sa subito riconoscere, perché le loro “colpe” sono simili e intrecciate, oltre ogni probabilità: anche l’uomo, in realtà, è costretto a restare recluso in quel luogo. Tra i due si accende qualcosa che è più di un legame: è un’iniziazione alla leggerezza e all’unicità della vita, tra gli orrori della loro condizione. “Io sono la bestia” non è soltanto un attacco alla violenza e alla criminalità che progetta la morte come un affare di ordinaria importanza: è un elogio all’amore e alla vita, che possono e devono essere un’arma, forse sempre la più letale.

In questo estratto Veli svela la passione segreta che lo legava ad Anna, la figlia del boss locale Mimì.

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SCENA III – Con una rabbia disperata

    

Luce.

Seduto su una sedia al centro della scena, Veli è solo. Parla con slancio e fermezza tanto inusuali da sembrare irreali – perché il ricordare non può mai avvenire con voce propria, ma con l’ebbrezza disperata della confidenza. Veli sembra rigettare la memoria – non è soltanto un raccontare.

VELI: Io e Anna avevamo i giubbotti dello stesso colore. A vederci eravamo tutta la nostra gioventù rappresentata, seduti accanto, vicini, su un autobus, su seggiolini scarabocchiati da tutti gli altri esponenti di una generazione dolorante – del dolore di vivere all’ombra di quattro alberi, cinque panchine e una manciata di comandamenti da rispettare, il dolore dell’essere sottomessi a voleri e poteri che non accettavamo; quel dolore che però noi, in quel momento, non provavamo, perché dissipato davanti all’attesa delle cose belle, davanti ai presagi che portavamo dentro: il presagio di un bacio, di un toccarsi forse un po’ il corpo, di un rivedersi il giorno dopo. Io e Anna tornavamo da Lecce, città che era un rifugio: tra le mani una birra che bevevamo tre sorsi ciascuno, la mia gamba sinistra che toccava la sua gamba destra, i miei occhi che mai avrei pensato avrebbero potuto guardare di sbieco un corpo tanto bello come il suo. Arrivati davanti alla casa dei suoi genitori ci fermammo. Lei aveva gli occhi stanchi. Mi disse “Vattene non voglio che ti vedano”. Io provai a baciarla, lei si voltò, disse “No”. Poi una voce alle mie spalle. Mimì, urlava: “Ti ho detto che mia figlia non la devi proprio calcolare, te”. E con lui c’era Luigi. Luigi, il fidanzato di Anna. E Luigi mi guardava con una rabbia disperata, con l’orgoglio tradito e ferito – tremendo, per uno che nella vita ha come unico valore il proprio l’orgoglio. E poi non fu come morire, no, fu più misterioso, più incomprensibile: fu come un ritornare in quel posto dove si sta prima di nascere. E quando poi sono tornato nel mondo, nel bruciore di una secchiata d’acqua gelata schiantata in faccia, mi faceva male tutto e avevo ferite ovunque. Solo dopo molto tempo presi coscienza, sorprendendomi di essere ancora vivo. Non mi hanno voluto morto, perché la morte mi avrebbe reso una vittima, e forse anche un eroe, un simbolo da sventolare contro le loro azioni. No. A mia madre dissero che ormai lavoravo per loro, le dissero che stavo bene, le dissero di non cercarmi.

Mi chiusero in questo posto. Del resto del mondo non ho più saputo nulla.

Buio.

                         

Daniele Pezzoli, "Ore quattro" - in apertura "Ore due"
Daniele Pezzoli, “Ore quattro” – in apertura “Ore due”

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