Dentro la o di Anna Maria Farabbi, Kammer ed. 2016, recensione di Milena Nicolini: in limine, ovvero poesia di frontiera.
La poesia è necessariamente cucita al corpo che la scrive e al mondo in cui diventa suono e pensiero. Anna Maria Farabbi nella sua poesia ha sempre mostrato con evidenza fortissima questa giuntura. Qui, nella silloge dentro la O, si manifesta specialmente, con un’energia che fa sentire davvero di essere sul confine tumultuoso dove verbale e materico si confinano e sconfinano. Cominciando dalla scelta strutturale, per cui anche qui, come in Abse, e in altri testi che precedono cronologicamente[i] (ma restano in costante rapporto di stretta adiacenza e interconnessione con dentro la O), la poeta non esita a porgere motivi e situazioni della sua scrittura come parti essenziali del testo e della poesia. Con il “viatico per dentro la O”, ad esempio; che è posto alla fine del libro, in modo da non sovrapporre con troppa aderenza luoghi e situazioni ad una poesia da sentire innanzitutto glocale e universale: in cui ci dice che, se alcuni testi arretrano anche di decenni, dentro una ricerca che impegnava Anna Maria a cercare una espressione stilistica capace di rendere “l’essenzialità lirica corrispondente a quella meditativa, in grado di contenere la sua velocità e il suo nitore”[ii]; però l’architettura finale, con “gli squarci di prospettiva all’interno di una unità manicomiale, la concezione di un amore inteso in ritmica congiuntiva, esistenziale politica spirituale, di sensuale lievità e rispettoso nomadismo reciproco” nasce dal 2015. Da quando, cioè, Anna Maria pratica una sua “umile via creativa”, creativa per sé e per gli ospiti, nella “comunità psichiatrica di Torre Certalda, per Asaad con sede a Perugia” e “dell’Associazione Il Pellicano di Perugia” che si occupa di disturbi alimentari di anoressia e bulimia[iii]. Certamente questa duplice esperienza è vissuta intimamente nel profondo. Anna Maria dice:
l’amore dei matti mi ha riportato l’amore per l’umanità – occorre andare all’inferno per rinascere [iv]
e ancora:
mondo durissimo – quello delle anoressiche – tra la vita e la morte e io che mi sembra di essere a casa
Esperienza che si è riverberata su tutti i testi della silloge, spingendo voci sul fondo del silenzio e facendone emergere altre al suono brevissimo dell’ascolto, essenziali. La ritmica presenza che narra del manicomio indubbiamente è come se sfolgorasse su tutti i versi la sua tensione drammatica, così come la meditazione su ogni vocale affonda le parole delle poesie nel silenzio degli spazi bianchi, accese di echi e riverberi che fanno denso il vuoto.
Nella “convivenza tra più registri di scrittura”, sono tre i ricorsi in prosa: la narrazione che si alterna tra le cinque vocali messe a fuoco, la meditazione su ogni vocale, le esplicazioni all’inizio (il ringraziamento alla “maestra profonda”, “l’ordito della tramontana”, l’introduzione alla “meditazione”, il “narrando l’interiorità del piccolo manicomio”, “il canto perché”) e alla fine (il “viatico per dentro la O”). Il pensiero, anche il più profondo come quello dei maestri Aldo Capitini e Walter Binni, (e la prosa che lo porge, non in antitesi, ma solo in modo più effuso/effato dei versi poetici) non è staccato dall’emozione, dalla carne, dalla matericità, è fisicamente stretto, abbracciato interiormente, bastone contro la tramontana, portato “come le donne con la cesta in testa”. E la “tramontana” che rade “freddissima” teste e pietre, è il non fare abbastanza “resistenza”, è il non disubbidire abbastanza al “re”, è il non seminare “i campi incolti”, è il dimenticare “la preziosità della cosa pubblica”: “Il telaio è privo di mani: la sua interiorità di fili è immobile. Cerchiamo e indossiamo cineseria a basso costo.”. Ma la “tramontana”, la si può trasformare con atto ribelle in “vento rapace in corpo”, che prosciuga, rende essenziale, fulminea l’interiorità e la rovescia fuori: così, dice Anna Maria, il “mio andare nella cruna elettrica dei matti, nel silenzio cementato dei sordi, nel buio fossile dei ciechi, nell’espressione epifanica dei bambini, nel mutismo cerebroleso, nel labirinto degli ergastolani, nella desertificazione degli anoressici, nell’esilio di ogni sofferenza, è un’ulteriore tramontana che mi ha eroso e insegnato (…) Fondo la gioia negli inferni.” . Infatti dentro la O è la continuazione di un itinerario di impegno nella scrittura intrecciata magmaticamente con la pratica fattiva politica dentro il mondo, che attraversa la ricognizione profonda di un io uno, e poi si dirama nella ‘coda di rondine’: una pinna è quella dell’amore a due, dove proprio nel rapporto profondo con la creatura amata comincia ad essere meditata ed appresa quella disponibilità aperta all’altro che soffre, di cui ci dice l’altra pinna, quella del “manicomioarca”.
La poesia “dentro la O del mio amore” si inoltra nella concreta vita extratestuale dei corpi e dell’identità e la porta dentro al segno, alla vocale, alla parola, la fa canto e ricerca, pensiero e passione. Dice Anna Maria:
lo so che l’amore può passare per il cervello e fare ricerca – così è una bellezza – questo registro d’amore che mi interessa cantare è l’amore della tenerezza che non ha niente a che fare con una mistica relegata alla mamma e al bimbo e a stati di sofferenza assistiti ma sprofonda in una cultura altra nutrita – sì – di meditazione, di rispetto del tempo e del corpo dell’altro, di serenità tensiva e vasi comunicanti, di linguaggi in reciprocità – tenerezza verso se stessi e verso la creatura amata – manca della disperazione passionale, della possessività sessuale e psicologica verso l’altro, ma si nutre dell’altro come creatura dell’esistenza e della propria esistenza, nella propria esistenza presente – ha la sua fisicità forte ma al tempo stesso delicata e soprattutto continua come se l’orgasmo venisse distribuito in tutta la giornata: un po’ come in quelle vie orientali in cui l’intensità è trasformata non diluita – è un capitolo nuovo del mio studio del mio canto della mia vita che sto praticando – ci ho lavorato tantissimo – l’unica frontiera che mi sembra di avere attraversato è dichiarare che la poesia d’amore è poesia civile – non è sdolcinatura romantica ma credere nell’altra creatura malgrado tutto – c’è una cosa reale e fortissima: la mia forza la mia luce la mia energia vive solo se è umida – umida nel senso sacro del termine – amare mi riporta con umiltà all’impermanenza della vita: dovevo cantarlo ancora quest’amore proprio ora che vivo anche le bave degli ultimi
L’altra pinna, infatti, della ‘coda di rondine’ ci dice la moltiplicazione dell’amore all’universo creaturale: primi tra tutti gli ultimi, appunto. Dice Anna Maria:
viviamo questa terra con amore anche quando l’altro è malato – così mi dico e vi dico: questa è la sorellanza che pratichiamo – vivo con gli ultimi sto dalla loro parte tra le barricate invisibili – mi sento una responsabilità e una lievità soffiata – sono bombe atomiche che esplodono davanti a me e non posso narrare agli altri fino in fondo – è il mio modo di amare e il mio modo di fare politica e di essere sorella finché si può
Su questo itinerario la sospinge e la sostiene “la maestra profonda” che Anna Maria ringrazia nell’exergo e di cui ci dice:
la madre soffia – non so cosa voglia la grande madre da me ma una cosa è certa: mi mette in bocca ciò che devo mangiare – senza scelta – questa grande madre mi sbaraglia
Da questa maestra viene l’energia, per la resistenza civile, per la poesia, per chi ha bisogno; e deve essere cercata e trovata in una profondissima meditazione. Ma tanta forza viene anche dall’amore stesso:
la gioia di un amore per cui devo dire grazie a nostra madre mi concede generazione e mi azzera – mi porta nel cuore del mondo e mi scaraventa all’inferno come un’altalena – senza quest’amore non ce l’avrei fatta non ce la farei al ritmo di questa intensità
Trovare questa energia, riconoscerla, attivarla nella pratica della vita, nell’impegno con gli ultimi, non è né indolore, né garantito. Dice Anna Maria:
per me non è stata una giornata facile: sprofondi e schiume di nuvole auree – sprofondo negli abissi e riemergo – non è facile gestire fuochi atomici – mi sento di riprendere energia dopo un palmo di giorni – ho avuto uno spostamento – quella perplessità nella settimana dentro cui mi sono trovata solissima alla frontiera – la mia concentrazione aveva dei muri e poi poi – molta meditazione molta preghiera molto pianto interiore che mi ha lavato fino al recupero della gioia – devo essere cauta e temperata in me – lavoro per un’interiorità morbida come chi va scalza e funambolica per terra – solissima con i morti e con un amore a rovescio – davvero il mio segno è diventato solissimo – dall’altra sponda difficilissimo al limite della leggibilità – a forza di meditare e di amare non atterro più umanamente sul foglio evidentemente – mi sembra davvero una disciplina zen praticata a sangue
Perché, infatti:
dentro la O è il mio canto zen – fanno eccezione le due sillogi della coda di rondine: l’amore e la follia escono dal tao e spostano l’asse cosmico
Ma dentro la O è soprattutto poesia, e la poeta ci dice che il suo “io femmina nasce e diviene in poesia/ corpo a corpo con tutto questo”, capace di riconoscersi ed aprirsi:
io sono preistorica ancora con un corpo troppo vivace che crede animalmente nella relazione e nella madre grande – ho questa fontana ormonale della non rassegnazione – ancora vado corpo a corpo con chi amo – come adolescente vecchia che fa l’amore a tutto spiano con la vita e le creature
Per Anna Maria, come si è detto all’inizio, poesia significa “entrare nel corpo, nel mio corpo, impegnarsi in una creatività organica da cui può sorgere il segno scrittorio ma anche oralità quotidiana dentro cui gesto e parola sonora sono scelti e coniugati verso qualunque tu, anche un tu apparentemente immobile e sprofondato: quel tu che la società ghettizza e consegna definitivamente alla rinuncia.”[v] La poesia con cui Anna Maria va incontro ad anoressiche, carcerati, non vedenti, “matti ni” (così li chiama), sordi, sofferenti, non è fatta semplicemente di versi da proporre all’ascolto o alla scrittura; il suo “lavoro poetico agisce attraverso postura, gestualità, voce colloquiale dentro cui la parola musica significativamente una narrazione studiata a secondo delle problematiche dell’individuo o del gruppo, sostando nell’accezione, aprendo suoni e significati in corrispondenti affacci e specchi esistenziali”[vi]. Perché la “lingua è organica: agisce anche nei nostri interiori strati ‘geologici’: contiene e diffonde il dominio della cultura di cui facciamo parte, imprime dettati di comportamento, può confermare barriere architettoniche sociali, ruoli, scarti relazionali in una rassegnazione di definitività del proprio stato. Riaprire la parola, la sua pancia, risveglia l’individuo, lo accende, mettendo in moto viaggi di conoscenza e meraviglia in cui può attraversare sì occhielli autobiografici rielaborandoli, ma anche possibilità di acquisizione di nuovi strumenti di lettura e sostegno, portarsi nella dimensione del colloquio. (…) Coinvolgo ogni sensorialità, dall’olfatto al tatto, all’odorato, al gusto, alla vista, utilizzo strumenti etnici, oggetti quotidiani che rileggo richiamandone un significato non abituato, elementi della natura, una lavagnetta da viaggio con gessetti e lettere magnetiche, fogli e pennarelli, pagine di capolavori letterari, estratti epistolari e diaristici di maestri e non, brani di musica (…) Dichiaro immediatamente la mia disposizione interiore che è un vero e proprio baratto esperienziale: tutti imparano da tutti, nella spola dall’io profondo al noi.”[vii]
Nella “meditazione” che apre alle altre meditazioni di dentro la O dice Anna: “Rumino le vocali”, e non è una metafora. Perché le vocali e le parole e la lingua, che ci sono venute nel corpo insieme alle cose del mondo, mediate dal corpo-ventre e corpo-voce e corpo-latte della madre, non sono concetti astratti di un’empirea mente: senza rischiare nessun tipo di realismo nominalistico, si vuole solo far sentire come la lingua sia organicamente di un tempo, di un mondo, di un’esperienza corali, così come organicamente espressione e parte di un corpo individuale che pensa e sta –nel pensiero e nel mondo: “C’è una soglia vivissima tra il silenzio prolungato, come stato interiore di digestione/ruminazione dell’esperienza, movimento del sentire, e la parola. Dopodiché la parola viene pronunciata con intensità potente, drammatica, desiderosa del confronto, del con-tatto. La parola è desiderio e fiducia e affidamento all’altro. Qui sta la madre. In una nominazione che non è dominazione del mondo, possesso del conosciuto e del pensato, ma estensione del sè, affaccio e ri-nascita, es-posizione aperta, umile, nella relazione con il mondo e con l’altro.“[viii]
Può essere significativo il modo con cui Anna Maria ha, ad esempio, meditato sulla parola ‘tenerezza’, peraltro centrale per la comprensione dell’amore che propone in dentro la O:
la parola comincia con un ‘te’ che non è soggetto, cioè un ‘tu’ in posizione autonoma, ma subito è in una relazione complementare con un altro, come oggetto di relazione o determinazione di un rapporto con quest’altro – e poi viene il ‘ne’, particella molto forte dell’inclusione, del nostro lasciarci prendere dentro – e poi la ‘nerezza’, con quel suono rotondo della ‘erre’ e poi quello un po’ acuto della doppia ‘zeta’, con cui la parola finisce in una sonorità schiumosa e dolce, che ammorbidisce e rovescia l’oscurità della ‘nerezza’ – la ‘nerezza’ è l’interiorità dell’altro – e anche la mia – ma che non è nera, nel senso di buio, oscuro, indistinguibile – solo indefinita, nel senso di non confinata non chiusa non soggetta a possesso – piuttosto, misteriosa, profondissima, fossile – a questa ‘nerezza’, a questo ‘te’ mi piego con la mia ‘nerezza’, il mio ‘te’, per guardare studiare sentire – le due ‘te-nerezze’ si incontrano si toccano come nell’icona che ho preso nella casa della dormizione della madonna in turchia – le due guance si toccano si uniscono: lì la tenerezza[ix]
La meditazione ha portato il respiro a giacere e lievitare profondamente nel “ventre”, “dopo averlo suonato nei polmoni”; la poesia di Anna Maria “contiene la ciclicità ritmica del respiro” e sono le “vocali respirate” che “permettono il ritmo nella lingua, tra le consonanti”. Per una lingua, sì: che è, fisica, di relazione, con gli altri e col mondo e con se stessi. Che si fa anche capace di raccontare la meditazione. Diventando essa stessa meditazione.
E capace di raccontare il manicomio.
L’incipit della narrazione del manicomio – che sarà sempre un “narrando”, sospeso in un tempo-spazio di vita che si pensa e si scrive mentre accade, come spesso le narrazioni di Anna Maria – non solo ricorda, ma si ricollega, quasi presume leièmaria : “Nevica. (…) il bosco è bianco. La valle, un chiarore lontanissimo. La strada non esiste. La mia auto è solo ferro immobile, inghiottita dalle falde. Rientro nella casa matta. (…) Chiedo ospitalità per la notte. (…) Lupi, cinghiali e gocce gelate di luce attorno a me”, qui. E là: “Il paesaggio si svuota, diventa qua e là astratto, freddo nevicato. (…) tra la caduta dei fiocchi,… il tergicristallo impazzito mi apre alla luce (…) Lascio l’auto. (…) Lupi e vento corrono dentro il canalone da cui sorgono le pietre dell’eremo. Prima o poi si calmeranno mentre la neve dilaterà la chiarezza dell’alba.”[x]. Qui e là la sospensione dal quotidiano per l’incontro col dolore. Per disporsi all’“ascolto assoluto” delle “sirene” della sofferenza, “mie sorelle e sentinelle” – qui nell’appennino, là in terra slava – e quindi “corpo a corpo” con loro, ma senza farsi legare, perché “Non sono ulisse” e queste sirene “non seducono, ma allarmano e rivelano”: “la loro mostruosità, la loro radicalità, per me sono bellezza”. Là, nel manicomio, era rimasto in sospeso un impegno (“mi mancano le mani, la voce, il corpo interiore, in grado di toccarli, stendere la pubblica denuncia, scriverla fino in fondo, testimoniando”[xi]) che qui comincia a compiersi: “Decido di sentire” (gli “ululati” dentro e fuori, nella “stessa fame”) e “Scriverò qui l’opera”. Nella gola dei “matti ni” “gravitano cellule esiliate i a e u o.”, “vocali a coltello che squarciano”: “Imparo”.
Già in questo introibo alla narrazione i nomi, i primi, dei “matti ni” sono minuscoli. Come in seguito, anche aldo – Capitini – e auschwitz e altri. Ma non sempre. Perché? Più in là, già nella “meditazione” della i, si trova una possibile risposta: l’uso del “carattere minuscolo” “per incidere una certezza” di “relatività permanente, una necessità di abbassamento verso la linea terrestre per forza di gravità sacrale, per forza di gravità sociale”. Anche se è rivolto all’io, quest’invito ad abbassarsi – l’io, si presume, che sta ancora di là dal baratro –, perché i “matti ni” già ci sono rasoterra, il senso di tutte le minuscole si riconferma ed esplicita nel primo canto che incontriamo, quello di “anna lirica e recuperante”, che cammina con “la mula” (è la stessa “mula” di leièmaria: “Entriamo nel tramonto. (…) mentre il fiato della mula si condensa, creando figure. Lei in inverno parla così. Mi assomiglia.”[xii]) sull’orlo rischioso della montagna: “il vento” che “rade la schiena” lo fa a “tutte e tre”: mula, anna, montagna. Che fanno essere assieme, che, nel plurale dell’io, “ raccogliamo i residuati bellici”, del dolore, dell’esclusione, dell’emarginazione, della violenza; che fanno esplodere “il silenzio minerale”, in cui sta il nonascolto, l’apartheid, la rinuncia al recupero, “tra il sangue dei morti”, ancora lì ad aspettare visibilità, scoperchiati dall’esplosione. E’ la lettera minuscola che significa un’appartenenza così solidale alla vita di tutto e di tutti, da farla diventare, l’identità, interscambiabile, semplicemente creaturale. Dice Anna Maria:
non c’è luogo privo di dolore – per me quello lì, l’istituto, è pari a qualunque altra terra, perché la poesia in corpo non conosce le definizioni e le barriere architettoniche – sono lì per questo per cantare – come nel letto in cui faccio l’amore
Le maiuscole compaiono per luoghi o nomi che, pur in sintonia col canto, sono fuori contesto, fuori storia, come Lucio Fontana, Zone o Petit. Oppure perché fanno di Tamara, la protagonista della narrazione, quella figurina che si deve ritagliare uno spessore di rivincita sullo spaventapasseri. Oppure, terribili, perché esprimono la perdita atroce della irripetibilità creaturale, quando ricalcano univocamente l’identità di un “matti no” che si è dato la morte o una devastante amputazione.
Il canto di dentro la O “sorge da un crogiuolo” in cui si intreccia il “mantice meditativo”, la pratica di poesia nella piccola comunità psichiatrica di Torre Certalda e, in orizzonte più lato, la pratica di un’idea dell’arte, che viene intesa non come qualcosa di immobile a sé, tutt’al più specchio riflettente, ma come uno strumento potentissimo che è capace e che si vuole fare entrare dentro alla polpa della vita, del dolore, della gioia, in condivisione con gli altri: per sentire insieme (con-pathire), innanzitutto, per testimoniare, e per farla diventare, la poesia e l’arte in genere, atto politico. L’arte e la poesia non possono essere coinvolte senza lasciarsene segnare e modificare in modo indelebile, pur senza perdere, comunque, la loro specificità. Penso ad esempio a Mondrian che, dopo gli orrori della prima guerra mondiale, rinuncia alla figurazione, per lui possibile mediatrice di passioni anche nazionaliste, e si apre ad una diversa prospettiva più sicura, astratta, ma che comunque è ancora arte e grande arte. Anna Maria lo sa e pratica, nel suo fare con gli ultimi, una lingua di poesia che si libera di tutti gli orpelli, che si assottiglia all’essenziale sibillino, che anche si scarnifica del rumorio del mondo per farsi meditazione, ma che non viene mai meno alla bellezza del canto. Perché la bellezza del canto non offende le creature della sofferenza cantate – ricordando una polemica di anni fa a proposito della possibilità di fare arte su Auschwitz. Il canto è capace, infatti, di una “via seminale” che trova “l’ombelico”, l’io di un qualunque altro tu “disperato, isolato, sprofondato”, ghettizzato nell’abbandono alla rinuncia; quella via che da una torre all’altra passa sopra al baratro della ‘u’, coniuga, dirige al noi. “La mia bocca cantando crea un nido sonoro nel corpo dell’altro”: la comunicazione non è una freccia lineare, ma “un’onda sensuale” che avvolge loro, i “matti ni”, la creatura amata, e lei, la bocca che canta. Se così diventa politica, la bellezza del canto, e “rivoluzionaria di pace”, e “democrazia dal basso”, e “lirica nonviolenta, potente più del re, delle sue mura culturali e dell’ignoranza che, consapevolmente, genera”, non è per una funzione appiccicata a posteriori, ideologicamente elaborata altrove e incollata ad un medium, magari in nome di un ben visibilizzato ed esibito mediaticamente impegno intellettuale. Se diventa politica è proprio perché la con-divisione, la con-vivenza è fattiva, è nel segno dell’appartenenza ad una comunità responsabile, reciprocamente responsabile, nel senso affermativo che i “matti ni” possano essere – anche solo in una prospettiva di sogno – veri mattini, non solo tra noi, ma con noi, di noi, proprio noi. Così è chiaro il senso del primo canto di “anna lirica recuperante”, che apre il fluire lungo le vocali: “la mia poesia animale pratica gli ordigni/ e la mia resistenza matta la fa cantare”.
Nonostante la scansione divisoria delle vocali, l’impressione complessiva è di un poema, di un canto che fluisce ininterrotto, ritmato dal bianco e dal fruscio della pagina che si volta. Testi veloci, che si richiamano in corrente e controcorrente; anche i titoli, se ci sono, come guizzi di fulminea esplicazione, mai esornativi, piuttosto versi speciali, postati più in alto, in rilievo; anche sibillini per gli squarci che aprono, mai oscuri: la radice, ad esempio, precede ed illumina “la mère/ la mer l’aimer”. L’impressione è pure di un galleggiamento sul vuoto, in una sospensione di tempo e spazio che non scarnifica né il mondo né l’esperienza, perché si tratta di un vuoto come abse, che, se “sancisce l’impossibilità (…) del dire fino in fondo”[xiii], però permette l’emersione di un paese, in cui ritrovare “i nodi pubblici” del noi attraverso la propria “cruna interiore”[xiv].
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[i] Anna Maria Farabbi, Abse, Il Ponte del Sale, Rovigo 2013; leièmaria, LietoColle, Como, 2013; Adlujè, Il Ponte del Sale, Rovigo 2003; La magnifica bestia, Travenbooks, Merano, 2007.
[ii] Se non diversamente segnalate, le citazioni virgolettate, come questa, vengono da “viatico per dentro la O”, p. 131, da ringrazio la mia maestra profonda, p. 5, da l’ordito nella tramontana, p. 8, da meditazione, p. 10, da narrando l’interiorità del piccolo manicomio, p. 11, da il canto perché, p.12, anna lirica e recuperante, p. 13, in dentro la O, Kammer edizioni, Bologna 2016.
[iii] Oltre alle esperienze più strettamente intrecciate a dentro la O, vorrei qui ricordare quelle
–con i non vedenti e ipovedenti: ha lavorato per la creazione dell’opera Luce e notte, Lietocolle, 2008, presentata con la partecipazione degli autori stessi a Orvieto presso il Laboratorio Teatro di Orvieto e a Rovigo, nel Museo dei Fiumi. Ha collaborato con l’Istituto Cavazza di Bologna. Ha scritto un’opera lirica, rappresentata anche al Festival della Letteratura di Mantova, incentrata sull’assenza della vista.
-con i carcerati: nel 2008, nell’ambito de Il Progetto Casina, ideato da Antonella Ortelli presso la sezione femminile del Carcere di San Vittore a Milano, ha avuto un lungo incontro con le ergastolane. Nel 2015, presso il carcere di Terni, ha condotto un’esperienza incontro con gli ergastolani e curato una serie di pubblicazioni di loro testi per la rivista on line Cartesensibili, di cui era redattrice.
-con i sordi: nel 2007, ha partecipato al festival Suono e Pace a Villa di Montruglio, per un pubblico misto di udenti e sordi, con la traduttrice in LIS Stefania Berti. Nel 2015, ha scritto la sceneggiatura finale di una rappresentazione teatrale rappresentata da sordi con la sua diretta partecipazione. Sta lavorando con Clarissa Bartolini, sorda ex Presidente Provinciale ENS di Perugia, per un’opera intervista relativa alla sua esperienza autobiografica, e anche per una narrazione dei mondi dei sordi. Il testo sarà pubblicato nel 2018 nella collana Signature che Farabbi cura per Terra d’Ulivi.
Le esperienze che hanno partecipato a dentro la O sono: con persone sofferenti di gravissimo handicap psichico presso la Comunità di Torre Certalda, Umbertide (PG) – Asaad. Più precisamente, conduce, da giugno 2015, un seminario settimanale. Ha creato con tutti i partecipanti una mostra di scrittura su uccelli origami e tovaglie su cui hanno mangiato insieme. Tra gli ospiti, ha lavorato singolarmente per un anno con Carmela Pedone, ospite ritenuta irrecuperabile e gravata da una pesante malattia, per cui è morta, nella notte tra il 28 e il 29 ottobre 2016 tra le braccia di Anna Maria Farabbi; nel tempo di lavoro con Anna Maria, Carmela ha vinto un premio di poesia e partecipato alla premiazione; sarà pubblicata una sua opera di poesia e narrativa nella collana Una via altra di pane, vino, tavola e molto silenzio che Farabbi cura per Lietocolle. Altra esperienza è quella con persone anoressiche, presso l’Associazione Il Pellicano di Perugia, con cui ha tenuto un seminario quindicinale, che ha voluto aperto a ogni pubblico. Con alcune ha stretto importanti rapporti di collaborazione ancora in corso.
[iv] Le citazioni di questo genere riportano parole da conversazioni di Anna Maria Farabbi, che ha dato il suo consenso alla loro proposizione in questo saggio, nella forma qui adottata.
[v] Dall’inedito: “L’ombelico vivo di ogni creatura”.
[vi] Ibidem
[vii] Ibidem
[viii] Dall’inedito “La lingua mia”.
[ix] Sempre in tal senso, si rimanda a quella riflessione intorno alla parola abse, che compare alla fine dell’omonimo poema, cit., pp. 139-40: “Il titolo per me è una soglia sensibile, il guado che contamina i piedi di un lettore per sempre (…) Ho voluto una parola dialettale (…) abse si apre con un largo di a, ma subito si contrae in bs con una schiena consonantica (…) Abse è il nulla (…) abise è matita (…) abside e qui sento la prua del tempio (…) ab e qui leggo direttamente dal vocabolario: preposizione, ablativo (…) bs e qui mi ricordo del suono dell’ape (…) s qui obbedisco. Come se qualcuno mi chiedesse di tacere (…) Tacere permette il ritmo.”
[x] A.M. Farabbi, leièmaria, cit., pp.16-18
[xi] Ivi, p. 101
[xii] Ivi, p. 16
[xiii] A.M.Farabbi, Abse, cit. p. 139
[xiv] Ivi, p. 7
Quante sollecitazioni in questa lucidissima e ispirata recensione di Milena! Le esperienze di Anna Maria Farabbi e la sua semina di parole come non possono ricondurmi a Dostoevskij, al Foucault di ” Nascita della clinica” e di ” Sorvegliare e punire”, a Simone Weil che decide di provare su di sé la condizione durissima degli operai nelle fonderie di Parigi. Ma questi non sono già più riferimenti intellettuali, sono esistenze profuse nell’affiancarsi agli umili e agli esclusi. ” Tramontana” è una parola che ho trovato sui muri di Genova, lasciata impressa da uno stencil, marchio di lotta e di ribellione. l vento, per fortuna, può ancora fischiare.
Sento moltissimo questo rapporto tra corpo e parola: forse obbedisco più ai richiami di Pan, che non a quelli della Grande Madre, ma uguale è l’esigenza di attingere nella ricerca poetica alla polpa del mondo e stringere fra le mani quelle che Milena definisce, nella sua raccolta ” uno più uno, se fosse duale”, le “parole di carne”. Eco si consuma d’amore e del suo corpo rimane alla fine solo la voce, fondazione mitica dell’anoressica. E con la sragione si entra nei territori di Dioniso, delle sue corse terrificanti, ma anche dei suoi doni creativi. Dal mito si ritorna all’urgente impegno dei nostri giorni ed è sublime in Anna Maria Farabbi la trasmutazione delle parole ‘impegnate’ in parole
‘ impregnate ‘, di tenerezza, intrise di un liquido caldo come quelli che producono solo l’amore e la commozione. ” dentro la o” credo che sia un viaggio dentro le labbra aperte, nello stupore di fronte alla prolificità del mondo e nel grido di sofferenza che non si può non ascoltare. La o è un ventre sempre gravido di relazioni con qualsiasi creatura che abbia il dono di esistere, nuda e cruda. La conseguenza non può essere che la sovrapposizione di poesie d’amore e di poesia civile perché come coniuga la poeta ” il mio canto d’amore appartiene alla poesia civile / perché con la mia lingua suono/ malgrado tutto/ il profondo desiderio del tu”. E’ un messaggio di vita profondissimo , su cui mi verrebbe voglia di giurare.
La poesia di Anna Maria Farabbi è corpo vivo che accoglie i respiri di tutto ciò che incontra, riconducendoli ai ritmi originari di cui ogni singolo verso è espressione tangibile; i respiri rinnovati diventano emissione vocalica in cui le singole voci si fondono nella condivisione di un medesimo orizzonte di salvezza. La lettura critica di Milena Nicolini ripercorre le linee portanti e attraversa i nuclei della raccolta, accompagnando il lettore in un viaggio di conoscenza dentro e fuori di sè.