Dicono che era bella, inediti di Claudia Zironi.
Tre diverse bellezze e tre diversi stili di scrittura per descrivere tre tipi di follia lesiva: colloquiale e diretto per l’uomo che uccide la propria donna; intimo e filosofico per il suicidio; in forma di “sciarada” per l’incontro fra la vittima e il suo assassino:
I.
dicono che era bella
mentre avvampava, imprecava, esplodeva malamente
d’amore
mentre non poteva fermare la furia con un bacio
mentre non capiva l’odio e le folli accuse, mentre
ancora una volta moriva, mentre le grida erano
io voglio dare [urlato]
mentre il silenzio era
prendimi [sussurrato]
sotto questa finestra
davanti a tutti
mentre una voce sconosciuta urlava due volte stronza
mentre una colonna stava cadendo
e lei la sorreggeva
mentre deflagrava per l’ultima volta il mondo che eravate.
non più i veli del riserbo
non più i fili della complicità a trattenere
gli orecchini che aveva perso al primo incontro
la camicia rossa che una volta le avevi tolto
due
uno
l’istante
li hai strappati appositamente, hai consumato
il tuo piano di distruzione.
sedici non nove – li contava.
la tua voce ora l’accompagna
– dicono – nel nulla
II.
Occhi sbarrati, fatta pesce,
per la distesa di nebbia che occulta lo schianto,
le palpebre
anatomia inutile nell’evoluzione dell’invertebrato;
neppure le ali ha volute, solo una fune.
Nell’attesa che un deus-ex-machina la recidesse. Di netto.
Pochi secondi di volo quanto dureranno? In quale senso si dilaterà o comprimerà il tempo
quando non ne rimarrà abbastanza? Cos’avrò modo di ricordare o dimenticare per ultimo?
Sarà di terrore o di pianto o di tenerezza il ricongiungimento all’amante? Avrò freddo?
La liberazione del pesce dalla fede:
precipitare sul fondo dell’abisso quando il Mar Rosso
si divida di netto scoprendo attinie e coralli.
Iniqua la divinità con il pesce:
Sacrificando-al-Disegno.
E pesce e fede si schianteranno all’unisono.
L’interno si fa molle, si intenerisce di commozione
e pungono le vertebre come lische, duole l’amo
conficcato nel palato. L’amo che tendeva la fune.
L’amo della prigionia della vita, l’amo sbarra, l’amo ombelico.
L’amo liberato dalla fune che duole comunque
fino alla fine – fino al morbido impatto –
della vita. L’amo che toglie il respiro.
Io. L’amo.
Ve l’ho detto a voce alta – prima di perdere le corde vocali.
Che mi stavo facendo pesce, che la pinna caudale non serve a volare, che le ali non le ho volute.
L’ho detto a voi che non vi fate carico della fune e venite a osservare la mia tenerezza sparsa e schizzata ovunque. A voi che la voce l’avete ma non parlate, a voi che fingete di non sapere del sopruso e dell’abuso nel nome del Disegno.
Che solo nella tenerezza mi ritroverò con l’amante.
Aveva squame dorate e un canto muto
mentre cadeva nella nebbia.
Dicono di avere visto volare una sirena.
Dicono che fosse bella con gli occhi sbarrati.
III.
Dove si sono incontrati i nostri sguardi?
Sulla terza poltrona rossa della fila H?
Che là sono rimasti. Duri, freddi.
Cosa diceva il tuo? ti uccido?
Come ti sfidava il mio? fallo,
ché ti voglio dire “buonasera”
sorridendo, mentre muoio.
E solo per te sarò – in ultimo – bella.