Dino Campana: retrospettiva a cura di Enrico Gurioli – 3.
Dino Campana: “NOSTALGIA – SAUDADE” in Barche amorrate
Da «Il Papiro» (1912)
Le Cafard
(Nostalgia del viaggio)
Le vele le vele le vele!
Che schioccano e frustano al vento
che gonfia di vane sequele
le vele le vele le vele…
che tesson e tesson lamento
con l’onda che sorda dismorza
la sua volubile forza.
Ne l’ultimo schianto crudele!
Le vele le vele le vele…
Ai venti, ai venti, presso l’augurale
forma di che affacciato a le fortune
l’inquieta prora ha il Sogno suo navale
ah! Ch’io parta! Ch’io parta! E che un lontano
giorno l’ultimo sonno in te laggiù
dorma
Genova
sotto degli sfrenati archi marini
dell’alterna tua chiesa azzurra e bianca
dove una fiamma pallida s’infranca
in arco eburneo a magici confini [1]
***
Nell’autunno del 1912 Dino Campana torna a Bologna e vi rimane parecchi mesi accolto e vissuto dagli studenti universitari come un autentico poeta ispirato riuscendo a far convivere la sua stravaganza con la brillante goliardia felsinea[1]. Ha già con sé i progetti poetici che confluiranno nella sua unica opera, i Canti Orfici. Frequenta l’ambiente della goliardia e gli universitari stessi propongono a Campana di pubblicare alcune poesie sui loro fogli e così egli diventa ufficialmente un “poeta stampato”: alcuni dei suoi testi più importanti escono sul “Goliardo” e sul “Papiro”, preannunciando il libro completo dei Canti Orfici che verrà pubblicato da una misera stamperia di Marradi solo nell’estate del 1914.
Le Cafard – (Nostalgia del viaggio), è il titolo dato a un frammento pubblicato sul “Papiro” il cui testo è composto da tre parti e le “rime assonanze onomatopeiche danno vita a un quadro sapido d’alghe marine, arioso di salsedine”[2] Nel titolo si intravedono le atmosfere dell’Africa francese, dei porti magrebini strappati alle flotte dei corsari barbareschi dalle truppe della Ancienne Légion Etrangère nel periodo in cui fu pubblicato il Dictionnaire, manuale scritto in lingua francese utilizzato dai soldati francesi per imparare e conoscere la lingua sabir e dialogare con la gente nei porti conquistati del Maghreb. Erano gli anni dove i militi della Legione Straniera sofferenti di noia e di malinconia, dalle palizzate piantate fra le dune restavano in contatto con il mondo esterno sparando con i loro fucili agli scarafaggi del deserto (les cafards). Il titolo del frammento era stato preso da Campana dal francesismo avoir le cafard – essere depressi o melanconici – allocuzione nata nelle colonie francesi dell’Algeria : un gesto causato dalla noia estrema, dalla tristezza, dalla malinconia; per Campana era l’inizio della depressione, del suo disturbo bipolare, della catatonia, di un disagio esistenziale[3] tema ricorrente nei suoi componimenti poetici. Dino conosceva bene il significato più profondo di questo modo di dire francese tradotto in lingua inglese con I am blue [4]: uno slang americano che trova la sua massima espressione nei canti malinconici della popolazione negra: il blues con la sua ricorrente blue note, la nota triste. La stessa cadenza armonica si ritrova nel portoghese fado e nelle vidalitas [5] argentine, nenie lente i cui i versi sono di tema amoroso e allegri, ma accompagnati da una musica triste. “In una sera dunque, mentre, dopo cena, si passeggiava sotto i portici solitari di via Farini, accennando in coro a stornelli toscano-romagnoli, ecco mettersi a capo del gruppo uno, improvvisamente apparso: aspetto campagnolo, tarchiato, capelli fluenti delle spalle alla decadente, barba corta rossigna, cappellaccio tondo e stivali rozzi, e con voce stentorea, alternata di toni gravi ed acuti – battendo il grosso tacco ritmicamente al canto – richiedere a gesti risoluti, imperiosi da noi una serietà ed un impegno da corale liturgico. Amava, come poi dimostrò, il canto, nel quale espandeva tutto sé stesso: canto popolare, portato giù dai suoi monti di Marradi e Palazzolo. E ne ricordava altri, primordiali nenie (dette Vidalitas), raccolte in Argentina, ma questi ultimi preludevano a tristezze gravi, improvvise, nelle quali s’immetteva taciturno.” [6]
Hölderlin, Goethe, Dürer, Novalis, Nietzesche, Beethoven, Wagner, sarebbero diventati i padri del Faust “giovane e bello” descritto dal Campana nel suo libro mentre andava in giro sognando nella notte italiana di Bologna. Le influenze letterarie del suo viaggio in Argentina non vengono subito colte dalla critica letteraria del tempo (provinciale) , vissute come suggestioni visionarie di un pazzo e non visive di un poeta più attento a tradurre i propri sensi in poesia che alla mediazione e rielaborazione ragionata. Anzi l’autore dei Canti Orfici, dopo la trasfigurazione faustiana in due novenari, Faust era giovane e bello, aveva i capelli ricciuti, da versatile frequentatore di generi viene invece fermato dalla critica letteraria lassù fra gli abeti fumosi della nebbia …tra lo sfondo delicato delle Alpi [7].” Diviene così il cantore delle passeggiate tra i boschi.
Un autore poi da rivisitare per lo Strapaese, il movimento letterario -mai tramontato- dell’Italia fascista intransigente e antiborghese, diventando poi un banale pretesto letterario, politicamente corretto, per raccontare il paesaggio dell’Appennino Tosco Romagnolo dell’Italia repubblicana . ” «E’ una vera rivelazione: Soffici pensa che sia l’unico volume di poesia uscito in quest’ anno. Leggilo». In questi termini l’amico Ferrante Gonnelli il libraio fiorentino, che ricorda nell’aspetto, nell’intelligenza e perfino nel nome, che sembra colto a una novella del Lasca, i suoi confratelli del quattro e del cinquecento, mi scriveva giorni sono mandandomi un povero libercolo giallo non di sua edizione, ma stampato da una tipografia di provincia. Dino Campana? Sì, mi ricordavo di aver letto qualche cosa di molto interessante in uno dei più recenti numeri di Lacerba. Nient’altro. L‘ invito però di un uomo di buon gusto come il Gonnelli, suffragato dall’opinione ď un grande artista, non meno che il ricordo dell‘ impressione personale, mi invogliarono subito alla lettura.” Il Natale del 1914 aveva regalato a Dino Campana questo inaspettato articolo a firma di Bino Binazzi pubblicato sul quotidiano bolognese Il Giornale del Mattino espressione della massoneria cittadina. [8] [9] Bino Binazzi, giornalista e poeta pratese, divideva il proprio tempo fra Firenze e Bologna frequentando assiduamente gli storici luoghi di aggregazione delle avanguardie letterarie e artistiche fiorentine e bolognesi. Oltre che estimatore ed ammiratore della scrittura campaniana, era, di Campana, un amico vero “forse perché, in fatto di stramberia, batteva di parecchie lunghezze anche quella proverbiale dello stesso Dino”. Le stramberie erano all’ordine del giorno, anzi della notte, lucide o inconsapevoli che fossero gettavano in un vorticoso giro notturno di caffè, tenuti quasi sempre aperti come nelle città porto dove i velieri in arrivo attraccavano in qualsiasi momento della notte con i marinai desiderosi di vivere fra botti e botte. Dino Campana aveva tutta l’aria di essere uno “sbarcatore”[10], il facchino di porto che caricava e scaricava dal battello le merci imbarcate sui brigantini a palo alla fonda nei porti. La nave e il porto, la vita a bordo, l’imbarco e lo sbarco, i colori della terra e del mare che cambiano, il mare e le vele e soprattutto il percorso della nave, la sua rotta rendevano invece il testo pubblicato dal Papiro nel 1912 una testimonianza preziosa per scavare ulteriormente nel vagabondaggio attraverso il mare di Dino Campana. Tutto quanto veniva semplicemente segnalato da Dino Campana con la nostalgia del suo viaggio attraverso l’Atlantico nelle parole di Le Cafard: era la sua visione della realtà che lo circondava di uno spazio in cui non esiste più la linea di confine determinata dalla separazione terra mare. Avrebbe potuto essere interpretata come una visione immaginaria simile a quella dantesca quando fa dire a Ulisse e “vidi la Spagna, fin nel Morrocco e l’isola dei Sardi…”[11]. Campana nonostante fosse stato in qualche modo riabilitato dalla sua stessa comunità e da alcuni ambienti letterari bolognesi era pur sempre vissuto come un autore “estraneo” alla realtà che lo circondava; certamente uomo fuori dall’ordinario e dal senso comune. Spesso raccontato mentre camminava fra i monti come per dimostrare che nel suo mondo c’è un totale rifiuto a ciò che sta succedendo in quel periodo storico con l’ avvio di una rivoluzione tecnologica di vasta portata (l‟automobile, il treno, l‟aereo, la luce elettrica, le onde elettromagnetiche, la radio, la navigazione a elica.). Il movimento Strapaese – mai completamente estinto- riscoprirà Campana come arma ideologica al servizio della mobilitazione anti-industriale. Ciò che arrivava dal mare, non solo come fatto accaduto ma come ulteriore formazione per la comprensione della realtà campaniana assieme al suo linguaggio, in generale pareva estraneo a gran parte della letteratura italiana. Il primo a ribellarsi a questo modo di minimizzare la sua poesia è stato Dino Campana stesso quando scrive urlando all’inquieto Papini “ … E se di arte non capite più niente cavatevi da quel focolaio di cancheri, che è la Firenze e venite qua a Genova e se siete un uomo d’azione la vita ve lo dirà e se siete un artista il mare ve lo dirà.” E’ Genova la città scelta dal poeta come luogo per interpretare la propria arte. Con la pubblicazione su Il Papiro di Le Cafard – (Nostalgia del viaggio), Dino Campana comincia a rendere pubblica, attraverso i testi delle sue poesie, la propria esistenza letteraria con il suo lungo giorno fatto di molteplici percorsi via mare. Si tratta del primo componimento campaniano pubblicato di ispirazione marinara e portuale. Campana dà vita all’utilizzo degli argot portuali del Mediterraneo e del Sud America anche nella letteratura italiana. Attraverso il titolo di Le cafard e successivamente di Barche amorrate il poeta raffigura visivamente la tristezza, l’ intuitiva ambiguità della saudade, lo strazio dell’abbandono, del naufragio che si riconosce poi nella seconda parte del frammento dove egli fa riferimento alla polena – inquieta prora – raffigurante una statua di legno dipinta conservata nella chiesa di San Vittore e Carlo a Genova, che decorava la prora di un vascello irlandese che il 17 gennaio del 1636 naufragò nel porto dopo un grande temporale dove “Sotto degli sfrenati archi marini Dell’alterna tua chiesa azzurra e bianca Dove una fiamma pallida s’infranca In arco eburneo a magici confini”.
Sempre nello stesso foglio, nella sesta pagina venne pubblicata la Lettera aperta a Manuelita Tchegarray con il titolo a due colonne DUALISMO – Ricordi di un vagabondo. In un trasparente passaggio Dino affermava di essere stato attirato “ contro le correnti del tempo, al di là dei mari, verso di voi.!” Il porto di Genova, anche la vita dell’angiporto, avevano altresì stregato e suggestionato Dino Campana; un porto pieno di navi rumorose, una città dai carrugi, il vento che arriva dal mare, e “al porto il battello si posa”[12]. Per ripartire; “então mar é o que a gente tem saudade?”[13] . La popolazione del nord italiano di fine ottocento si sperdeva fra i caruggi e i locali dell’angiporto, si dava appuntamento nelle banchine del porto di Genova pronta per la grande avventura d’oltre oceano, “sopra il mare sconosciuto”[14]. Campana parla di quel mare vero, vissuto che sa di salsedine e non del suo immaginario. È un poeta del mare e il mare è per lui il mondo del lavoro marittimo.
Per cercare di capire il rapporto che Campana ha con il mare occorre studiare su quegli indizi che si ritrovano nei suoi componimenti e nelle sue lettere. E attraverso loro saper cogliere le sfumature che arrivano dalla lettura dei suoi testi. Campana nelle sue poesie ritrova i colori delle banchine dei porti di Genova e di Buenos Aires o di Bordeaux, i rumori sordi delle balle di cotone imbragate dal bigo, i suoni delle botti da imbarcare, le atmosfere dei quais dei fiumi e dei canali francesi, le vele i battelli e i colori delle livree delle navi tra i fanali rossi e verdi dei moli.
Si imbarca per il Sud America: non c’è alcun documento scritto sulla sua mappa del soggiorno argentino, solo indizi, tracce lasciate nei Canti Orfici o trovate tra i suoi appunti. A Buenos Aires si incontra a La Boca con la comunità genovese e italiana fatta più di dialetti di persone che arrivano dalla vecchia Europa. Come risultato di grande immigrazione Buenos Aires, è in gran parte popolata da persone di discendenza europea, soprattutto italiani e spagnoli. Gli uomini arrivati dalla penisola che popolarono La Boca, quartiere di genovesi dipinto e colorato in modo variegato con ciò che resta delle vernici utilizzate nelle imbarcazioni, vivendo nei locali dell’angiporto dove si ballava la “milonga con cortes”. Il tango.
Nei Canti Orfici ci sono gli incontri con il Russo, violinista e pittore, nel carcere manicomio a Tournay, “Tombé dans l’enfer/Grouillant d’ëtres humains/O Russe tu m’apparus …”[15] , poi Manuelita Etchegarray a Bahia Blanca, lo spagnolo nella Pampa argentina raccontati all’interno dei Canti Orfici erano, anzi sono, affreschi di atmosfere e sovrapposizioni linguistiche che non avevano lasciato insensibile questo ragazzotto considerato folle. Dino Campana aveva una “conoscenza sicura e ossessiva”[16] di Nietzsche e nel Caso Wagner alla musica wagneriana egli contrappone scherzosamente [17] la Carmen di Bizet, secondo il motto: “il faut méditerraniser la musique” [18]. Era il progetto di una sintesi di elementi ritmici nordici e latini, una fusione “tra le due componenti più vigili e avanzate della cultura europea contemporanea, ossia la civilisation francese con la Kultur tedesca, – esprit con Geist (…) poesia con filosofia, arte con vita.” [19]. C’era un pensiero triste in quel sottotitolo Le Cafard, (Nostalgia del viaggio) , reso più esplicito da una possibile piano di lettura derivante dal soggiorno alla foce del Rio de la Plata dopo il suo viaggio in Argentina. “Così conosco una musica dolce nel mio ricordo senza ricordarmene neppure una nota: so che si chiama la partenza o il ritorno: conosco un quadro perduto tra lo splendore dell’arte fiorentina colla sua parola di dolce nostalgia”. [20]
Per capire la radice della conoscenza delle lingue secondarie in Campana e del suo riferimento al “pensiero triste che si balla” (così disse il musicista Enrique Santos Discépolo), bisogna rifarsi alla “Fantasia su un quadro d’Ardengo Soffici” composta da Dino Campana dopo aver visto alla galleria futurista di Firenze nel 1913 la Tarantella dei pederasti rappresentata in una tela dove ci sono due figure [una vestita da società e una nuda] che ballano fra le tavole, il pianoforte, i becchi di gas, le réclames di una bettola. Nell’autobiografia, Soffici ricorda questo dipinto e la Buca Lapi, in cui si svolgevano quei ritrovi fra “gli amici di Oscar Wilde” che lasciavano lui e Papini “disorientati e pensosi” e porta direttamente Campana al tango, agli uomini che ballano con altri uomini, coppie di donne, donne che conducono il passo e uomini che fanno l’ocho, il sensualissimo giro di gambe come se fossero ballerine provette e alla sua lingua base: il lunfard.
Poi c’è l’atmosfera complice della Pampa. “Quiere Usted Mate? uno spagnolo mi profferse a bassa voce, quasi a non turbare il profondo silenzio della Pampa. – Le tende si allungavano a pochi passi da dove noi seduti in circolo in silenzio guardavamo a tratti furtivamente le strane costellazioni che doravano l’ignoto della prateria notturna. – Un mistero grandioso e veemente ci faceva fluire con refrigerio di fresca vena profonda il nostro sangue nelle vene: – che noi assaporavamo con voluttà misteriosa – come nella coppa del silenzio purissimo e stellato. Quiere Usted Mate? Ricevetti il vaso e succhiai la calda bevanda”. Si è liquidata in modo sbrigativo, come una bevuta dissetante offerta da uno spagnolo, il rito del mate raccontato da Campana annullandolo in una semplice azione fatta da emigranti fra le tende messe su nel cielo della Pampa. Su questo punto lo scrittore Argentino Jose Gobello, il più importante tra gli studiosi di lunfard, sembra essere riluttante a considerare il mate solamente una “Zucca che prepara una infusione e serve da teiera” e vede in questo gesto la complessa ritualità di un gesto di amicizia o complicità che passa attraverso alla stessa infusione “ che noi assaporiamo con voluttà misteriosa” come sostiene Dino Campana. Cos‟è il mate: una semplice bevanda o un gesto di amicizia la cui intensità viene misurata e sancita attraverso il passaggio della bombilla con cui succhiare la miscela dello yerba de mate? Occorre rifarsi nuovamente al tango, ai tangueiros, alla loro sensualità, alla sessualità non sempre ben definita e alla cultura portena. “Tomá mate, tomá mate/tomá mate, mi china, tomá mate,/que en el Rio de la Plata/no se estila el chocolate.” Sono le parole di un vecchissimo tango. Qui la traduzione dei versi è necessariamente arbitraria; comincia con un invito a prendere il mate, diventa mio compagno per trasformare il mio modo di essere perché questa è la Cina di Buenos Aires dove il cioccolato è inconsueto. Jose Cobello sostiene che si debbono conoscere le implicazioni di questo atto apparentemente semplice. Se il mate è particolarmente freddo è segno di disprezzo, se è molto caldo è amore ardente, se il mate è acqua sporca è un invito a cambiare compagno di avventura. Ma anche nei rapporti amorosi il mate ha i suo codici: se è con acqua gassata significa “ti amo”, se nel mate è aggiunto caffè è un perdono per l’offesa ricevuta, con la cannella è come dire “ti penso”, e se aggiungiamo spremuta d‟arancio è un invito e una speranza. Ma se è servito amaro è segno dell’indifferenza, dolce però se è un segno di amicizia, ma il gaucho considerato un effeminato, ma era anche un segno di adescamento fra le strade dei travestiti della calle di Godoy Cruz nella Vecchia Palermo di Buenos Aires.
Un detto che circola nel Centro e Sudamerica sull’origine delle popolazioni che quei luoghi abitano; recita il motto: “I centroamericani discendono dai Maya e dagli Aztechi; gli ecuadoriani e i perunensi discendono dagli Inca; i rioplatensi discendono dalle navi”. Poi restano in porto o vanno per la pampa. José Gobello, sostiene che il lunfard “non è né una lingua, né un dialetto, né un gergo; è un vocabolario composto da voci di origini diverse che l’abitante di Buenos Aires utilizza in opposizione alla lingua ufficiale”. Prosegue sempre Gobello che “Esiste una lingua comune, una lingua accettata, una lingua decodificata dalla Reale Accademia Spagnola e i porteños mischiano parole proprie dentro questo contesto”. L’argot porteño dei tangueiros argentini sbarcati in Europa negli ultimi anni da Buenos Aires a Marsiglia. Il lunfard, la lingua del tango, è la poesia del tango stesso.
In Argentina Dino Campana incontra e conosce la cultura porteña e presumibilmente strimpella il pianoforte nei locali malfamati del Boca assimilando una nuova lingua: il lunfard. Un argot fatto da una serie di vocaboli che l‟abitante di Buenos Aires, il porteño, utilizza in opposizione alla lingua comune, lo spagnolo castigliano. In questo contesto Dino Campana conosce la creazione di una particolare forma di parlare cifrato ottenuto dalla inversione nell’ordine delle sillabe di una singola parola o frase, chiamata vésre, ossia l’inverso di revés, che significa ‘rovescio’. Ecco che quindi, al vèsre, il tango risulta essere gotán, amigo dà gomía, cabeza è zabeca, leche con del café diventa chele con di feca mescolandolo al rovescio le sillabe diventando esse stesse i segni di comunicazione e di significazione tra i codici della malavita di Buenos Aires con quelle innate regole del quartiere portuale dei genovesi de La Boca. I suoi inconsci inventori sono stati i milioni di immigranti, soprattutto italiani, che a metà dell’800 sono sbarcati nella capitale argentina, e lì si sono fermati in cerca di fortuna, in una babele fonetica e sintattica dove la parlata araba, greca, napoletana, toscana, spagnola, genovese si confondeva l’una all’altra, aggrovigliandosi e deformandosi. In quella babele linguistica l’unico problema era quello di farsi capire, qualsiasi fosse l’idioma parlato e Dino Campana, profondo conoscitore di quattro lingue trova invece un ulteriore forma lessicale per la sua poesia. Il lunfard è infatti la lingua franca dell’emigrazione in Argentina, una forma di sabir occitano inventato nei porti del Mar de La Plata che mescola lo spagnolo con il dialetto genovese friulano, trentino, lombardo e piemontesi e lingue europee.
Campana trova nella figura retorica e di ritmo di “le vele, le vele, le vele” – sul filo della contraddizione linguistica del revés o della vésre – mescolandolo al rovescio le sillabe diventano esse stesse i segni di comunicazione e di significazione anche per nuovi codici futuristi, quando tutti cercavano di trovare un modo per farsi comprendere, perdendo poco a poco le leggi della propria lingua senza trovare quelle del paese che li accoglieva. Dino Campana conosce e impara molto del vocabolario del lunfard durante il suo soggiorno argentino ma quando decide di comporre Le Cafard (Nostalgia del viaggio) e fare una poesia che si apre con il vérse o il revérs “Le vele le vele le vele” per finire poi smorzate da un onda volubile in un ultimo schianto crudele, il cui significato si ritroverà successivamente rappresentato nel titolo – titolazione imposta dal tipografo Ravagli- di Barche Amorrate pubblicato nei Canti Orfici. Viene subito da pensare che ci troviamo di fronte a barche che si arenano o che finiscono a scogli come si dice in gergo. Insomma sono barche che si incagliano con uno schianto crudele, quello del legno che si rompe, e non certo ammarano come si è sostenuto in passato. Inoltre c’è d’aggiungere che è da sempre esiste un angolo dei porti dove la risacca porta i legni (barche) abbandonati. Sul titolo di questa poesia pubblicata nei Canti Orfici non ci troviamo neanche di fronte a un errore tipografico del buon Bruno Ravagli, stampatore in Marradi che per una sua incomprensione di mestiere su quanto scriveva Dino Campana pretese che i testi fossero consegnati dattiloscritti. Nei Canti Orfici che il titolo sia esso stesso elemento chiarificatore della poesia di Dino Campana lo si desume anche da una forzata titolazione data agli inediti; e così si decide il titolo di Barche Amorrate su pressione del tipografo. Titolo apparentemente incomprensibile nella lingua italiana. Nel frammento pubblicato a Bologna troviamo invece in una sintassi scorciata e contratta, spesso alogica, un lessico dove si mescolano lingua colta e lingua quotidiana, una lingua secondaria non conosciuta in Italia; un forte sperimentalismo e un sapiente dosaggio ritmico-fonico come a voler introdurre un termine porteño e dal lunfard nella scrittura. Dino Campana fissa e coniuga al participio passato il termine lunfard amu[o]rrar con il soggetto barche. Altro non sono che barche lasciate abbandonate o arenate. Barche amorrate appunto con le vele all’imbando! Infatti secondo il vocabolario del lunfard di Jose Gobello, ma anche in altri vocabolari, il termine amu[o]rrar significa lasciare abbandonato, andare in secco, arenare. Chi ha armato una barca sa quando e in che modo la vela sbatte, schiocca e frusta al vento o si arena o va a scogli in uno schianto crudele come recita la poesia di Dino Campana. Proviamo a reinterpretare il titolo Barche amorrate in barche lasciate abbandonate e il testo diventa subito più comprensibile.. Cominciamo a rileggere Le Cafard (Nostalgia del viaggio) cercando il lamento volubile del tempo tra le cadenza armoniche della musica latino americana per capire Dino Campana: “Ch’io parta! Ch’io parta! E che un lontano -giorno l’ultimo sonno in – te laggiù dorma”… “então mar é o que a gente tem saudade?” [21] “Era uno che veniva di lontano. Sul suo vestito, stagnavano gli odori terrestri dei soli mediterranei, delle piogge montane, dei riposi nei fienili e nelle stive” Lo ricorda così il letterato Luigi Fallacara suo coevo.
Tutto era cominciato a Bologna con la pubblicazione di una nostalgia del viaggio. In Argentina. EG
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[1] Marco Antonio Bazzocchi – Campana Nietzsche e la puttana sacra. – pag.74
[2] Federico Ravagli – Campana e i goliardi del suo tempo. – Clueb – pag 101
[3] Lazare Sainéan.- Les sources de l’argot ancien – L.. Sainéa 1912
[4] Eranos Vol 55 -1972 The realms of colour Di Adolf Portmann,Rudolf Ritsema pag 231
[5] Gutierrez Martin – Las nuevas y verdaderas vidalitas santaiguenas cantado con exito en la provincial del interior – Buenos Aires , Blibllioteca Gauchesca 1909
[6] Mario Bejor – Dino Campana a Bologna (1911-1916) – Ed- Società Tipografica Editoriale – 1943
[7] La Notte – Canti Orfici
[8] Francesco Nicita – Il quotidiano a Bologna – “Bologna ieri, oggi, domani”, 38
[9] Bino Binazzi – Il giornale del Mattino – 25 dicembre 1914
[10] Giacomo Natta – Il cappotto di Dino Campana – Il Paragone 1960
[11] Dante Alighieri – Divina Commedia . Inferno Canto – XXVI
[12] Canti Orfici – Ed. F.Ravagli – pag 170
[13] J. Guimarães Rosa, Manuelzão e Miguilim, Rio de Janeiro, Nova Fronteira, 1984, 12ª ed., p. 79
[14] idem
[15] Canti Orfici – Ed F.Ravagli – pag 129
[16] Eugenio Montale – Sulla poesia di Campana, “L’Italia che scrive”, a. XXV, n. 9-10, Roma, settembre-ottobre 1942
[17] Friedrich Nietzsche – Prefazione a Il caso Wagner. Un problema per amatori di musica, – versione di F. Masini,
[18] Friedrich Nietzsche – Il caso Wagner – pag. 10
[19] Alberto Asor Rosa
[20] Dino Campana. Canti Orfici
[21] J. Guimarães Rosa, Manuelzão e Miguilim, Rio de Janeiro, Nova Fronteira, 1984, 12ª ed., p. 79
