Dio arriverà all’alba, omaggio ad Alda Merini. Spettacolo teatrale scritto e diretto da Antonio Nobili.
Conversazione con l’autore a cura di Emanuela Rambaldi
Antonio Nobili, attore, autore, regista, pedagogo e produttore, debutta a tredici anni con la compagnia di Claudio e Pino Insegno. Si forma alla Royal Academy of Dramatic Arts di Londra, collabora con Radio RAI. Nel 2007 fonda l’Accademia Teatrosenzatempo. In poco più di dieci anni realizza oltre quarantacinque regie.
Emanuela Rambaldi: Alda Merini è stata tanto sulla scena ed è stata tanto portata in scena. Molto di lei è stato detto, scritto, rappresentato. Conosciamo le sue poesie, la sua storia, le sue parole, la sua casa, i suoi muri. Questa idea di spettacolo, ha qualcosa di ardito. Scrivere e rappresentare un testo su di un’artista così esposta. Anche la scenografia, che riproduce un ambiente realmente esistito, con le pareti piene di disegni, scritte, numeri telefonici, appartiene in qualche modo all’immaginario collettivo del mondo poetico, e non solo. Confrontarsi con la riproduzione dell’universo Merini, con la sua riproposizione, conteneva il rischio del già detto, del già visto. Sappiamo già tutto. E invece, guardando lo spettacolo, ci si lascia andare, ed è come se non sapessimo niente.
Antonio Nobili: Quello che con Dio arriverà all’alba ho voluto restituire al pubblico è una biografia del di dentro, un ritratto intimo in grado di prescindere dal già detto, letto, rappresentato, mercificato. Il risalto viene dato piuttosto all’angolo d’ombra dell’umano, che non si trova nei salotti televisivi ma che dirompe nel quotidiano, nell’ordinario, se così si può dire, nello struggimento privato di un’anima altamente sensibile e controversa, che è poi quella poetica. Il poeta che si discosta dall’immaginario collettivo evanescente e mostra la propria carne, le proprie ferite, la propria innata vitalità e curiosità universale, che ha il coraggio di portarsi a passeggio, di prendersi per mano, di mostrarsi per quel che è, compie un atto di profonda onestà e coscienza di sé che ha radici ancestrali, davanti alle quali non si può rimanere indifferenti. È un richiamo viscerale che va oltre le parole.
E.R.: Ciò che appare evidente, è che per costruire uno spettacolo così servono un grande amore e un grande lavoro. Perché qui, attraverso l’invenzione, allo spettatore viene offerta una straordinaria impressione di realtà, di originalità. Insomma, sono le parole di Nobili, ma potrebbero essere state esattamente quelle di Alda.
A.N.: A questo proposito vorrei ricordare un episodio riportato da Arnoldo Mosca Mondadori nella prefazione di Sei fuoco e amore, in cui la stessa Alda Merini, rileggendo i propri versi freschi di stampa si chiedeva, piacevolmente stupita, se fosse stata proprio lei a scrivere quelle parole. Il momento della creazione poetica è una trascendenza da sé, da quanto di più presente e materico compone l’essere umano, non si tratta di un’estasi mistica o di un contatto sovrannaturale, direi piuttosto che è la capacità di trattenere accanto a sé e tradurre una manifestazione di energie sottili e universali in grado di parlare in maniera trasversale a chiunque si predisponga all’ascolto. Non nego la mia formazione letteraria, né che nella stesura del testo ci siano stati momenti di ricerca e di studio, ma le parti più preziose sono nate da una sorta di abbandono alla scrittura e alla gioia della scoperta di un sentire comune, che giunge da lontano, dalle pieghe più recondite dell’anima. Immaginare come ad Alda Merini piacesse prendere il caffè ad esempio, o come si preparasse ad accogliere un ospite, tutto quello che inizialmente sembrava un azzardo, una personalizzazione, ha trovato poi nel tempo un riscontro, il suo giusto posto, la conferma di chi c’era, di quel che nel panorama smisurato della sua opera abbiamo scoperto dopo, e l’informe si è fatto armonia.
E.R.: Lo spettacolo si muove su un doppio registro di dramma e commedia. “Si ride e si piange” si diceva un tempo. La Merini pubblica era effettivamente così. Basta rivedere le sue interviste. Era brillante, arguta, incredibilmente lucida. Al contempo era profonda e davvero intrinsecamente poetica. Non si vergognava del dolore. Non lo nascondeva. Non lo rimuoveva.
A.N.: A chi le si rivolgeva chiamandola la poetessa dell’amore, Alda Merini ha sempre precisato di sentirsi la poetessa della vita. La vita com’è, con le sue altezze vertiginose e con le sue ben più frequenti cadute, con tutti gli abissi, le storture e le fragilità quotidiane. La precisa volontà di rappresentarla intera, controversa, umanissima, è mossa dall’intento di restituire al pubblico quanto di più possibile si avvicini alla verità della donna che è stata, celebrarne la complessità è dar luce agli angoli necessari a delinearne la figura. Indubbiamente Alda Merini ha vissuto un esistenza faticosa, e malgrado ogni schiaffo della vita ha continuato imperterrita a far di testa sua e a far poesia. Probabilmente proprio questa sua generosa tenacia le è valsa la stima e l’affetto anche di chi non avrebbe avuto strumenti per avvicinarsi alla poesia altrimenti. Per questo nello spettacolo si è deciso di conservare questo ridere, tanto, fino alla commozione.
E.R.: Nello spettacolo Alda Merini è vecchia. Ha l’età in cui finalmente non c’è più niente da dimostrare e perciò ci si può permettere tutto. Ci si può concedere tutto. Non ha più la tremenda bellezza che faceva perdere la testa, ma ha conservato una personalità ammaliante, dolcemente spudorata. Canta ancora l’amore, la fisicità. Ancora li vive. Tra le mura di casa, nel privato, oltre alla sfrontatezza, al gusto della provocazione, c’è anche qualcosa di meno spettacolare, di più naturale, di più fragile. A delineare gli aspetti più intimi, è il personaggio della bambina. L’anima, la parte nascosta, quella che tutto conosce di lei e che nessuno deve vedere. I momenti che la vedono protagonista sono di pura commozione.
A.N.: La figura dell’anima bambina è un doveroso multiplo omaggio che ho sentito: nei confronti dell’infanzia della poetessa, combattuta tra l’urgenza delle miserie della guerra, della necessità di reperire il pane per sfamare il fratello appena nato, nascosta con la famiglia nelle risaie dove le bombe non esplodono per via dell’acqua alta, senza le scarpe ai piedi e con un pagliericcio scomodo su cui abbandonarsi la sera, e la necessità di scavarsi e scalarsi, di trovare dentro di sé una forma per quella luminosa urgenza di essere altro e altrove, fino al più moderno stridore di un corpo che cresce e nel quale la sottigliezza di spirito si sente scomoda e perduta. E poi c’è la purezza dell’infanzia come specchio dell’anima, gli occhi del bambino dentro di sé da ritrovare nello specchio sotto il trucco, la spontaneità recalcitrante rispetto alle continue pressioni del sociale, dove si perde di vista chi effettivamente sia dentro e chi fuori dalle gabbie del normale. Ed infine la poesia, il contatto più intimo e affettivo con quella parte di sé che è visibile solo per sé, fino a che non si abbattono i muri di dentro e si accetta di conoscersi e mostrarsi e perfino talvolta scontrarsi con il proprio fiume sotterraneo lasciando che emerga come fonte vivificante di acqua sorgiva.
E.R.: Siamo oltre Basaglia e finalmente la follia è uno stato dell’essere. Dal manicomio, dal luogo dove davvero si diventa pazzi, la Merini è ormai lontana. Non si è adattata, non è stata domata. E’ sopravvissuta. Ma non solo. C’è un punto in cui, ricordando il terribile momento dell’internamento, parlando al suo medico dice: Avevo paura, ma mi sono detta: “Fatti forza Alda, ti fa paura ma un domani saranno i manicomi ad aver paura di te” e come vede ho vinto io.
A.N.: Il manicomio, sia quello reale degli elettroshock (ricordiamo che Alda ne ha subiti e superati ben quarantasei) che quello della coercizione invisibile del mondo fuori sono intrinsecamente legati. Alda Merini lamenta le vessazioni subite e la miseria e l’indifferenza alla richieste di aiuto, gli abusi degli infermieri come la cecità di conoscenti e familiari, degli editori senza scrupoli, dei lucratori, degli spettacolarizzatori da macello. È questo il manicomio, e non ha confini, al punto da rischiare di sentirsi talvolta più protetti da una stanza con le pareti bianche e vuote, che dalle mura domestiche, perché la passione nasce da una urgenza che non vede barriere, e si ama come si può sia dentro che fuori dal padiglione dei folli patentati. La guerra della Merini è sia con se stessa che col mondo esterno e nel momento in cui ormai anziana si racconta, è forte di una coscienza di sé che non la rende quieta ma la tiene accesa, ancora, malgrado gli acciacchi del tempo e dell’esperienza.
E.R.: Un altro rischio, quando si parla di poesia e di poeti, è di apparire elitari, difficili, lontani, a volte irraggiungibili. Qui invece il pubblico è emotivamente coinvolto e sviluppa, con ciò che accade sul palco, un legame fortemente empatico. E questo, grazie al testo di Antonio Nobili, intenso e profondamente poetico. E all’interprete che a questo testo e a questa figura femminile potente dà letteralmente vita. Antonella Petrone – innegabilmente – è Alda Merini. Ne assume corpo e anima. Le aderisce come una seconda pelle. Non la evoca, non la rappresenta, non porta sul palco. La ri-crea.
A.N.: Il lavoro di scrittura e le prove successive con il cast sono stati giorni di grande concentrazione sia fisica che emotiva. Inutile negare che i primissimi momenti di commozione sono arrivati già durante l’allestimento, ce li siamo sentiti nascere dentro, ciascuno per la propria sensibilità e per il proprio vissuto, ciascuno con la propria chiave, e questo ci ha dato modo di mettere alla prova il testo e valutarne l’universalità. Abbiamo anche pensato di sperimentarne degli stralci offrendoli alla lettura del pubblico che ci segue sui social, riscontrando una totale adesione sia ai temi che alle parole. Antonella Petrone, dal canto suo, si è prestata ad una immersione totale, non solo studiando la gestualità e il modo di parlare della poetessa in maniera capillare, ma mettendo in gioco tutta se stessa e le proprie fragilità umane, riuscendo infine a restituire un’immagine aderente alla verità storica e ricca di ogni esplorazione di senso.
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Per sapere tutto sullo spettacolo, il suo autore, i suoi interpreti, le date delle prossime rappresentazioni: https://www.teatrosenzatempo.com/aldamerini
Dio arriverà all’alba ora è anche un libro, acquistabile su Amazon. Leggendolo, a chi avrà già assistito allo spettacolo, sembrerà di rivederlo, di riascoltarlo. Chi lo spettacolo non l’ha ancora visto, potrà assaporare il testo, immaginando il resto, come si fa sempre, con la letteratura, con la poesia.
Chiudiamo con le due poesie di Alda Merini, recitate nello spettacolo dalla voce fuori campo di Antonella Petrone.
Accarezzami
Accarezzami, amore
ma come il sole
che tocca la dolce fronte della luna.
Non venirmi a molestare anche tu
con quelle sciocche ricerche
sulle tracce del divino.
Dio arriverà all’alba
se io sarò tra le tue braccia.
Spazio
Spazio spazio, io voglio, tanto spazio
per dolcissima muovermi ferita:
voglio spazio per cantare crescere
errare e saltare il fosso
della divina sapienza.
Spazio datemi spazio
ch’io lanci un urlo inumano,
quell’urlo di silenzio negli anni
che ho toccato con mano.
in apertura Antonella Petrone e Sharon Orlandini in una scena dello spettacolo