Distonia di Daniele Barbieri, recensione di Giuseppe Martella

Distonia di Daniele Barbieri, Kurumuni Ed. collana Rosada, 2018, recensione di Giuseppe Martella.

    

    

Sia il titolo che la suddivisione in quattro movimenti, con relative indicazioni agogiche (allegro, andante con moto, ecc.) ci suggeriscono una chiave di lettura musicale, sia pure per sottrazione, di questo testo. E anche se la melodia del verso è proprio ciò che qui ci manca, è in questa chiave e da questa mancanza che dobbiamo partire. Le indicazioni di cui sopra ci fanno subito pensare alla musica tonale colta, quella più orecchiabile, e in particolare alla sua forma più nota: la sinfonia. Ma della sinfonia questo componimento non ha né la ricchezza e varietà timbrica né l’ampiezza di sviluppo, richiamando semmai il dialogo cameristico di pochi strumenti. A me sembra perciò opportuno parlare piuttosto di “forma sonata”, che della sinfonia del resto costituisce sia l’origine storica che la base strutturale. La sonata classica è infatti una forma tripartita, cui spesso segue una conclusione o coda: quattro movimenti dunque (esposizione, sviluppo, ripresa e conclusione o coda) rispettivamente nei tempi allegro, lento, minuetto o scherzo, rondò rapido, che coincidono grosso modo con le indicazioni che ci offre Daniele Barbieri per il suo testo. La sonata è d’altronde, in antitesi alla cantata, una composizione per strumenti piuttosto che per voci. Considerare dunque la silloge di Barbieri come una parodia, o un controcanto, della sonata, può aggiungere una chiave ulteriore per la nostra prova d’ascolto e di intendimento. Nella silloge del nostro infatti non solo la parola tende a svuotarsi di senso ma anche di suono umano, oscillando dall’afonia alla strumentazione pura, e reificandosi insomma. Ovviamente sia la cantata che la sonata classiche seguivano poi uno sviluppo tematico, che qui ora risulta significativamente assente. Infine, oltre a essere tri o quadripartita, la sonata è sempre bitematica: essa intreccia e sviluppa cioè due temi contrapposti, in un dialogo drammatico che presenta svolte, sorprese, tensioni e distensioni, crisi e ricognizioni, tendendo a una risoluzione catartica non dissimile da quella che Aristotele a suo tempo teorizzava per la tragedia greca, la quale per Nietzsche nacque appunto dallo spirito della musica. Prendiamo in considerazione dunque pure il balletto, classico e moderno, che di sonata e dramma è una sintesi felice. Queste considerazioni che abbiamo fatto intendono tracciare solo le coordinate di un possibile orizzonte dell’interpretazione. Sappiamo bene peraltro che l’io poetico non coincide mai l’autore in carne ed ossa e perciò da ora in poi, per semplificare, lo chiameremo DB.

Nella Distonia di Daniele Barbieri i tratti drammatico-musicali che abbiamo evocato, risultano infatti come rovesciati, rivoltati e smessi come un vestito inutile: presentati piuttosto come disfunzioni del suono e del senso. Solo a grandi linee ne possiamo seguire qui la dismissione: il mancato sviluppo dell’intreccio, la distonia dei movimenti in scena, l’aporia del discorso, l’afonia della voce recitante. E bisogna tendere bene l’orecchio, aguzzare l’ingegno e aprire il cuore in questa difficile prova d’ascolto. Essa si apre con un incipit di tenore metafisico e di sapore pirandelliano: “ora, nell’ora dell’ora, di colpo guardarsi attorno,/ che non c’è nessuno, nella folla, che mi sia qualcuno,/ eppure sono qualcuno tutti, sono io nessuno,/ nell’adesso dell’adesso nessuno e qualcuno scorrono,/ nessuno vede qualcuno”. (15) DB si cala “nell’ora dell’ora”, cioè nel cuore pulsante del tempo, nell’istante dove essere e non essere si scambiano di continuo le parti. Questo è il senso più profondo, metafisico, del bitematismo di questa composizione, la tensione tematica generale che si incarna poi in più specifiche variazioni: io e me, l’adulto e il bambino, il compagno e l’amato, l’amico e l’estraneo, il noto e l’anonimo, ecc. Ente e niente, nessuno e qualcuno pretendono la ribalta di questo teatro di ombre. Del resto un dramma simile si era giocato verosimilmente nel poema perduto di Parmenide, che fu poi ripreso nei due grandi dialoghi platonici (Il Parmenidee Il Sofista) sul legame inscindibile fra essere e non essere, quell’intreccio o symplokè ontologica, che fonda lo sviluppo di ogni argomentazione, a partire dal nesso elementare fra soggetto e predicato,  nome e verbo, che costituisce la frase (la minima cellula tematica e narrativa), il luogo dove soltanto può sorgere infine la questione della bellezza e verità, coerenza ed efficacia dei nostri discorsi. Nel teatro metafisico di DB si tratta invece non della istituzione ma della disfatta del legame fra logos e physis, della disfunzione delle parole congiunta alla evanescenza delle cose. Il dramma è qui dunque anche di ordine semiologico: i segni sono ridotti a meri sintomi, le figure del discorso appaiono fragili e noi ci troviamo insieme persi e dimenticati (19). Si è spezzato insomma l’antico patto fra parole e cose (21, 27, 56, 72, 73). Le parole, i nomi si sono svuotati di senso, spasmo dopo spasmo, hanno mollato la presa sulle cose (38; 54; 59; 73): “forme che corrono dove non manteniamo/ il controllo che ci serve per vivere con un nome” (72)

Il linguaggio appare pertanto disarticolato e dislessico, talvolta imploso nella densità dell’ossimoro (“lutto di sole”: 36; “prossimità del remoto”: 39), esito estremo del bitematismo musicale; talaltra invece sventrato e ridotto alle sue particelle elementari, preposizioni ed enclitiche, senza più appoggio sulle cose salde, sospese sul nulla (29, 63, 77).  Il mondo d’altronde appare in preda a un graduale sprofondamento nel buio, come la superficie di un lago soggetta all’attrazione del fondo: “dentro il compatto sparire a vasca a vasca nel lago,/ nel fondo dell’entità luminescente…/ contro il nero pieno del sangue freddo del fondo”. (30) Fino a pervenire in uno spasimo finale, all’inerzia inquieta della polvere: “non quella chiara e splendente dei nostri sogni/ ma quella buia che avverte la propria fine nel grido/ dell’aspirapolvere” (49) Il teatro del mondo si è come assottigliato in questo rovesciamento del mito platonico della caverna, le cose hanno perso il loro spessore e si sono ridotte a un mero gioco di ombre o a una movimentazione di graffiti sulle pareti (33, 40). E l’ombra,  “quest’ombra senza metafore”, (70) invade le cose e i gesti, spiana le figure e sbiadisce i colori, si insignorisce del mondo, lo appiattisce, preparandolo alla sua ultima stasi.

Lo stesso atto della scrittura tende infine alla condizione del pittogramma, come si diceva, del “diario di gesti”, “forme nere/ infilate sul silenzio, sul bianco, senza dovere/ senza alcuna verità”. (56) E dunque anche i versi vivono in uno stato di sofferenza, come sospesi fra spasmo e catalessi, (53; 54) mentre in questo stadio  terminale del mondo (quasi con una dichiarazione di poetica) la poesia si rivela come una velleitaria pretesa alla donazione di senso (57), che non può più certo scaturire spontanea, che bisogna invece “tirarla fuori filo dalla gola…bisogna cercarla trovare in ogni parola/ l’accento la voce” (58), arrangiarsi insomma con parole usurate, sgualcite, raffazzonate, “parole sgonfie, che ridono in mezzo ai denti.” (59)

Siamo nel mondo della perdita del senso e del dispossessamento della cosa. L’orizzonte dell’esserci appare perciò ridotto alla semplice presenza, il suo divenire a pura dissolvenza, svanimento, traccia. Lo sviluppo del discorso, logico e musicale, spogliato di figure ed accordi, di armonia e melodia, è affidato allora solamente alla ripetizione ossessiva, ridotto a mero ritmo: pulsione biopsichica insopprimibile. E la tensione tematica indotta dalla ripetizione ammette appunto ora solo una risoluzione ritmica (23, 53). La catastrofe semiologica è infatti qui già sempre avvenuta: il mondo come rappresentazione ha ceduto al mondo come volontà. La forma bella ha ceduto il posto alla nuda vita, e quest’ultima alla sopravvivenza. Siamo nell’orizzonte post-umano della disassuefazione a se stessi e della disaffezione per gli altri (22).

Quale che possa essere il giudizio su questa ultima prova poetica di Daniele Barbieri, non si può certo negare che il titolo Distonia sia assolutamente azzeccato e pertinente al testo. “Distonia” copre qui tutta la gamma dei suoi significati, a partire dal suo etimo che la oppone a “sintonia” per estendersi poi alle connotazioni musicali e mediche del termine, che includono dissonanza e spasimo. Se in musica abbiamo assistito già da un secolo alla “emancipazione della dissonanza”, ora, sembra suggerirci l’autore, tocca alla poesia, che coinvolge suono e senso, gesto e figura, la ricognizione e l’emancipazione più drastica e definitiva della distonia, sul duplice versante del linguaggio e del mondo.

Mettersi in sintonia con questo residuo musicale è dunque un compito arduo ma obbligato per il lettore di questa silloge di Daniele Barbieri. Confrontarsi con il paradosso, anzi con l’ossimoro esteso che è questa prova poetica, con lo svuotamento del senso, la contrattura della sintassi, l’afonia del dettato;  la stilizzazione del disegno, l’assorbimento del colore, la subordinazione delle figure del discorso al brutale dominio della ripetizione, nelle sue studiate varianti: anafora ed epifora, e col suo prevedibile esito: la catastrofe del “poetico”.  Confrontarsi con l’impotenza del linguaggio e col disincanto del mondo, con l’appiattimento delle cose ad ombre, con il loro sprofondare, svanire sul fondo; con la riduzione della melodia e dell’armonia al puro ostinato implacabile ritmo: tendere l’orecchio alle sue minime variazioni e sovrapposizioni, piegare l’intelletto all’ottusità del reale, esporre il cuore ai suoi propri morsi e ri-morsi (le zanne di “Noi qui”: 64), svuotarsi insomma di ogni aspettativa e pregiudizio ermeneutico e mettersi per via, in equilibrio precario, sul filo sottile e teso che DB ci tende, fra le schegge taglienti di un antico accordo andato in pezzi: quello tra linguaggio e mondo. Perché questa silloge, prima di tutto, mette in scena una catastrofe semiologica: dopo una serie di reciproci gesti e spasmi, pause e conati (parodia di una tensione secolare su un fondale stinto), essa annienta il nesso fra significante e significato, sgonfia il senso delle parole e le riconduce alla loro traccia, alla lettera morta sul foglio, da un lato, o al graffito sulle pareti di una grotta, dall’altro.

Qui ci troviamo di fronte alle schegge impazzite del Mondo del libro e del Libro del mondo, epoca e metafora. Il Big Crunch è qui da molto tempo avvenuto, sia nel mondo come nel linguaggio: il ritmo dunque è qui sia un residuo logico che una radiazione cosmica di fondo. Non è il ritmo incipiente, il conato con cui inizia ogni poesia, ma piuttosto un ritmo residuale (mera traccia del logos): l’ultimo nesso, l’ultima legge, l’ultima costrizione vigente in questo mondo imploso. Alla fine dei giochi, nel gioco della fine niente più ci appartiene, il mondo si è svuotato di tutti i suoi attributi, è pura ombra; il linguaggio si è ridotto alle sue particelle elementari, preposizioni ed enclitiche, il genitivo tronco, lo spasimo finale: “Questa è la fine del gioco ci siamo detti è la fine/ del nostro gioco è la fine del giorno la nostra fine/ questo è il gioco della fine ci siamo detti è nel gioco/ che conosciamo la fine che accettiamo il gioco della” (77) Rimane solo il ritmo sordo, diffuso, la radiazione cosmica di fondo, la traccia di un’origine, l’abbozzo di un disegno che ci sfugge: “mentre il ritmo di parole si sparge ecco che si sparge/ si sperpera si diffonde ecco che il ritmo di parole/ si stende si apre scorre nel ritmo teso dei battiti/ ecco che il ritmo dei battiti sale e poi sale ancora/ poi si stende ecco che il ritmo dei toni e i suoni batte/e poi si stende attraverso lo spazio le cose come/ fossero tutte un destino.” (73) Come in una composizione minimalista, la sovrapposizione di tracce, la ripetizione di sintagmi con una leggera sfasatura, crea l’effetto di loop, l’essere presi in una spirale che rinvia sempre la chiusura del circolo ermeneutico conducendoci verso il fondo vuoto delle cose. Quest’opera di Daniele Barbieri è proprio per certi versi una composizione minimalista e per altri un dramma metafisico, essa corre pertanto due rischi antitetici: quello della banalità e quello dell’astrazione. Si tiene sul filo sottile tra questi due opposti poli, ma il filo è ferreo e ben teso. Ciò lo si può davvero capire però solo se si legge, misuratamente a mezza voce, con attenzione e impegno l’intera silloge dall’inizio alla fine.

distonia
in apertura “Barche di pescatori al tramonto”, Kahō, inizio XX sec, MET Museum New York

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