Due poesie di Paolo Santarone con introduzione critica di Antonino Caponnetto.
Paolo Santarone dice di sè:
Un po’ di romanzi nel cassetto… poesie e racconti… (tanti).
Una scrittura che con slanci e pause dura da più di mezzo secolo…
In un lontano passato ho pubblicato testi di divulgazione storica per ragazzi, e molte traduzioni (perfino una versione in prosa dell’Eneide)… Poi sono vissuto della mia scrittura come “writer” in una grande azienda. Qualcuno là mi chiamò “penna d’oro”, da cui un mio verso “penna d’oro per oro venduta”.
Nell’ultimo scorcio dello scorso secolo ho fondato, con altri, la rivista on line “Pseudolo” vissuta circa 6 anni.
Alcuni abbastanza cospicui lacerti di “Pseudolo” sono ancora visitabili nel sito
www.giuseppecornacchia.com/pseudolo
Credo ci sia ben poco d’altro da dire: vivo a Daverio, vicino Varese, mi piace viaggiare e più che bipolare, mi definirei ciclotimico.
Introduzione critica di Antonino Caponnetto
Paolo Santarone, che non conosco come scrittore, comincio però a conoscere come poeta. Un poeta i cui lineamenti sono, di fatto, secondo me, piuttosto “proteiformi”, ma un raro poeta – con una voce e uno stile assai variegati, certo – purtuttavia saldamente in possesso (e pienamente conscio) della sua propria cifra poetica. Un raro poeta ho detto. Sì, perché Santarone conosce a fondo e utilizza l’intera tradizione poetico-letteraria italiana ed europea, e tutto un patrimonio di tradizioni, usi e costumi legati (non solo) all’essere – nella propria anima e nella propria lingua originaria – un lombardo. Il suo lavoro (per quanto poco io possa conoscerlo) contiene, insieme a una sorta di vena epico-visionaria, un’ispirazione antopologico-naturalistica, guidate entrambe, sì dal sentimento, ma per nulla sentimentali… Il suo lavoro, dicevo, è governato anzitutto da un grande rigore metodico. Credo che ciò ne dica tutta la classicità. E c’è anche, nella poesia di Paolo, l’alta ironia tipica dei grandi. Per quanto detto, il nostro poeta – che non occupa alcun posto speciale nella poesia odierna, non sarebbe comunque incasellabile in un qualsivoglia movimento letterario più o meno importante. Egli mi sembra, invece, destinato a percorrere e ripercorrere in solitaria la distanza fra i suoi diversi “cuori”. Il senso di quest’ultima affermazione cercherò di precisarlo così: “il poeta latino Ennio sosteneva di avere tre cuori, tanti quante erano le lingue che parlava: l’osco, il greco e il latino. Ed aveva ragione: ogni lingua infatti, lungi dall’essere soltanto un efficientissimo sistema di comunicazione, è una filosofia, un modo di pensare, di concepire e, secondo alcuni, addirittura di creare il mondo. La lingua è il deposito più profondo di una civiltà; è quanto di più autenticamente proprio e durevole questa va lentamente depositando e conservando nell’intimo della sua storia”, come scrive Fabrizio Galvagni in Piö ’n là , Rime, versi liberi e traduzioni in dialetto bresciano, Editrice La Rosa, Brescia, 1994. D’altra parte un proverbio ungherese dice: Tante lingue conosci (parli) tante persone sei. Per parlare una lingua è necessario diventare un’altra persona: si può, infatti, conoscere veramente una lingua se si impara a pensare come la gente che la parla. Ogni lingua è lo specchio della vita, della cultura di un popolo, quindi della civiltà di un gruppo etnico, di una nazione intera. Nel caso del poeta Paolo Santarone, direi che sono stati e saranno i suoi diversi cuori a determinarne i caratteri essenziali, i cifrari, il multiforme stile, le frontiere da varcare, il destino poetico.
DUE POESIE DI PAOLO SANTARONE
PIERO E IL RITORNO DELLA NEBBIA
Piero il buono il dolce l’ardito
Piero che urlava il silenzio
come un ubriaco nella notte
Piero che c’era
Piero che ci stava
Piero il tenero e il bello
che riempiva le nostre vite
del suo concitato clamore
e scommesse confuse
Piero che sopportava ogni sconfitta
gettandosi in un’altra avventura
(fu così che scalò il nulla
fino all’ultima vertigine)
Piero di pianto di riso
che smemorava l’offesa
Piero che soffriva l’altrui dolore
e questo fu
forse
il suo più insopportabile dolore
Piero che non pensava
e sul piatto buttava
il suo inconcludente parlare
di mangiate e di sogni
la sua incostante fedeltà d’amore
e il pudore della sua attenzione
***
Dietro il fastidio della sua impolitezza
e l’incertezza che dava
quel suo finto ostentare
una mite arroganza
(Piero l’incauto Piero l’avventato
euforico di non so quale speranza
e forte di non so quale vittoria)…
dietro l’imbarazzo del suo
così maldestro vivere
di tutto solo che fosse fratello
mi era certo
anche quando confondevamo i nostri corpi
in una lotta una sfida un’ira
figli d’un gene comune
e d’una innocente sventura
immagine riflessa nella pozza
d’un duplice Narciso
***
Aiuta ora
in questa solitudine d’assenza
la nebbia autostradale
che finalmente
canzoni di morte e torce perforanti intona
compagna liberatrice di più lunghi cammini
Aiuta
ora che sono scomparse le lucertole
pallida ovatta materna
singhiozzo lungo dell’asfalto
umidore di tenue sorriso
ora che i nostri occhi sono muti
Aiuta a pregare
che sapevamo l’un l’altro d’essere
segno di nebulosità rinnovata sul bilico
scommessa da due parti giocata
ma
per l’inganno di chi vive e muore
non vinta insieme
né insieme perduta
FENICIA FELIX
Forse perché più sola
più segreta e fuggita
più remota
da un’isola quasi ognuna è partita
delle vite che fanno la mia vita
Ogni isola è un ventre della terra
ovaio di segreti e di ritorni
nicchia e promessa
che lontana ancora è la morte dei sogni
e non ancora spento lo sperare
E quando già credevo
il mio gioco finito
e cieco
ogni clandestino sorriso
(e mille volte già io sono morto
e mille volte rinato)
la fiamma ha dato un guizzo di bagliore
splendore di crepuscolo
S’è fatto
allora
il cielo
rosso come l’ibisco
spalancato
della sua moritura grandezza
Così accade a molte cose
e cielo e fiore e sole e vino
cose assolute
e perfette
solo all’incipit del declino
L’attimo eterno è fermo
come un’ala che plana
ebrietà di paure entusiasmanti
brivido del maestrale sulla pelle
appena fuor dall’acqua
Poi
in cielo cominciano le stelle
Per maggiori approfondimenti rimandiamo al blog di Antonino Caponnetto http://caponnetto-poesiaperta.blogspot.it
Mi piacciono queste poesie, mi ricordano le poesie ( canzoni) di Conte, , hanno dentro lo stesso incanto e lo stesso disincanto. All’uomo resta poco, il tempo che si riavvolge come la sua vita, come le sue sensazioni.
Amo molto Conte (inteso come Paolo!). Mi sembra di capire che mi dai dell’uomo vissuto (non necessariamente nel senso di viveur :() ed è così che mi sento, in effetti: un’esperienza grande, antica, esperienza che tuttavia non riesco a maneggiare perché c’è il sogno (l’incanto) che continua a farmi inciampare in una tardiva adolescenzialità.
Sempre umori un po’ malandati, sotto Natale!
Grazie per il tuo commento.
Non saprei dire quale delle due mi è piaciuta di più. Incantevole il ritratto di Piero , visto attraverso i tuoi occhi di Poeta in tutta la sua variegata umanità. In Fenicia Felix, le tante isole della tua vita, luoghi “di segreti e di ritorni”., e di partenze per nuove isole , perchè ancora lontana è la morte dei sogni . Poesia di rara eleganza e bellezza per chiarezza di espressione e contenuto poetico. Davvero bella, complimenti vivissimi.
Grazie, Aurora. Ti ho gia detto altre volte che il tuo acume, il tuo garbo, la tua sensibilità mi rendono orgoglioso di ogni tuo apprezzamento.
(Ti confesserò, anche se non si dovrebbe, che la poesia su Piero è tra le mie preferite)