da E’ soltanto l’aurora, inediti di Lucianna Argentino.
Io sono l’agnello
e lui la lama a cui offro il collo
il coltello per il sacrificio
a un dio che dimora nel mio ventre.
***
Abbiamo attraversato la notte in ginocchio
perché la misericordia divina
ci trovasse preparati per un nuovo impasto
di polvere e un respiro più prudente e giusto
ci fosse alitato nelle narici.
Officianti il sacramento
di quelli cancellati dalle mappe
ma ai quali è affidato il compito
di testimoniare la grazia
– quelli a cui molto sarà perdonato
perché molto hanno amato.
***
Mi tiene in cattività
il corpo di lui in cui sto fiera e indomita
finché afferrandomi i fianchi libera il desiderio
e lo sento dilatarsi nel ventre
accolgo il suo volere nel mio, a lui mi piego
spiego la mappa del nucleo ventromediale
ed è volo radente – saliva e sudore –
la gioia feroce – la lotta e la furia
la rabbia pacifica – di essere due nell’uno
che sfugge all’amplesso.
Poi. La santità dell’abbraccio.
***
La carità delle sue mani
quando sono assetata
e danno da bere alla mia sete;
quando ho fame
e sfamano il mio desiderio;
quando sono sola
e visitano la mia solitudine;
quando sono nuda
e più profonda e vera rendono
la mia nudità.
***
Pelle a pelle quando poi il desiderio
si quieta – appagato –
il mio capo sul suo petto
le sue braccia attorno al mio corpo
a farmi spazio quando l’uno
è perfetto nel due che siamo dopo
perché una sola carne si diventa a poco a poco
– senza sacramento.
***
Tra la folla ho cercato di toccare
un lembo della sua veste
perché fosse solo per me il miracolo,
perché si arginasse l’emorragia
e divenisse utile il dolore
incustodito nelle sue mani,
e fosse fatta salva la mia anima
con poca resa se non la curva
che fa il cuore quando si china
stupito – la mia vita me l’hai data tu
mi dice lui e l’attimo si sbriciola,
si fa polline per un tempo andato
che torna lacero e sfinito
ma vivo e sativo.
***
Pensami vicina
come un sentiero
sciolto dalla meta
buono per i lombrichi e le api
e per i passi di angeli
senza annunci.
Ora che sono per te
colei che moltiplica
e ho l’andamento
dei verbi all’infinito.
***
Venuto al senso dell’intimità lui
rilascia fede e apertura al dono
fa cantare in me la slogatura del tempo
con parole appese
all’incomunicabile suono d’organo
che sale dalle navate del suo corpo
ed è come a Damasco
– la cecità e la visione.
***
Ha occhi verdi, ardenti, un’omelia indecente
alla mia fuga tra i pori della sua sostanza.
Ha sembianza di siepe, ma a volte
diviene un sicomoro e dalle sue spalle io
abbraccio Dio.
***
Attracca nel porto largo
delle mie cosce lui – nave ammiraglia
sbarca nella voglia che delle sue mani
supplica la mia pelle,
lui che abbracciandomi
abbraccia la mia vita e la mia morte.
E’ l’elemento assorbente
– lo zero gravido d’infinito –
poi mi penetra e apre radure
tra il mio corpo e la mia anima,
crea un luogo che non è dell’uno
né dell’altra.
***
Di spalle mi affido al suo abbraccio
mi fido del suo corpo contro il mio corpo
nel sonno che porta a compimento
l’opera della materia e fonda l’invisibile.
Lui mio settimo giorno
– mia terra promessa,
altare consacrato dal canto
che dalla mia bocca
riverso nella sua bocca – tabernacolo
di baci e di parole a custodia delle braci
per le ceneri da cui siamo risorti
