Le meccaniche terrestri: una riflessione estetica sul nesso tra poesia e musica, editoriale di Sonia Caporossi.
Per tentare di analizzare brevemente da un punto di vista estetico il forte nesso tra poesia e musica, argomento principe del presente numero di Versante Ripido, cercherò di essere breve ma partendo da lontano. Nel Platone della Politeia per la classe dei guardiani l’educazione doveva fondarsi sulla ginnastica e sulla musica, laddove la μουσική veniva concepita nel mondo greco come l’insieme di danza, poesia e musica indissolubilmente connesse. Tutte e tre queste arti, a ben vedere, hanno in comune il ritmo, e tuttavia il concetto greco di armonia non contempla propriamente il ritmo in sé: l’armonia è concepita semplicemente come la considerazione dei suoni in quanto organizzati nei vari modi (lidio, frigio, dorico). La μουσική secondo Platone è invece intrinsecamente ritmica, in quanto è per l’anima ciò che la ginnastica è per il corpo. E tuttavia, com’è noto, all’interno della vetusta questione della condanna platonica dell’arte la poesia si deve limitare a fornire un’impronta etica, un carattere buono per gli allievi che crescendo dovranno diventare i perfetti cittadini della repubblica filosofica ideale. Evidente è così la contraddizione intrinseca al dettato platonico, all’interno del quale si dichiarano poesia e musica come strettamente connesse già dall’origine divina (sono i doni che le Muse hanno concesso agli uomini) e tuttavia, salvando in parte la musica, arte per definizione aconcettuale e quindi pericolosa per l’educazione del popolo solo nelle sue pratiche persuasive (mentre invece la Musica ideale, quella delle sfere celesti del Timeo, è il fondamento stesso dell’Armonia Mundi), Platone condanna la poesia come arte concettuale e, quindi, pericolosamente persuasiva, affascinante, latrice di deviazioni morali e irrazionalità per il popolo. Eppure poesia e musica, ai suoi tempi, erano indissolubili in modo autoevidente: basti pensare al genere poetico dell’elegia, la quale veniva recitata e non cantata, ma la cui esecuzione era comunque affidata a due performer diversi, il poeta declamatore e un flautista. E questo sottintende che nelle sue vetuste origini la poesia, oltre che come declamazione religiosa ed etica nasce già performance, nasce già reading, nasce già spettacolo. E proprio in quanto performance vive della propria istanza comunicativa, è messaggio cantato o musicato che si fa tramite tra un emittente (il Dio o il Poeta Vate) e un destinatario; nasce, insomma, come l’epos didascalico di Omero o Esiodo, oppure come la melica monodica, ricolma di virtù e di passioni, e quella corale, collettività confortante e salvifica, dispensatrice di messaggi didascalici e pregna d’ethos, come accade del resto nel coro della tragedia.
In un certo filone della filosofia antica, inoltre, la musica è l’arte suprema del Cosmo, quella che consiste nel suono impercettibile all’orecchio umano prodotto incessantemente dalle meccaniche celesti. Il bene, nella dimensione platonica dell’intellezione, sarà allora in sé l’accordo, l’unità armonica di tutto ciò che è necessariamente poggiato su un fondamento assoluto: il bene è l’Ordine Universale, e l’Ordine in sé emette un suono celeste, come l’Armonia Mundi di cui parla Cicerone nel Somnium Scipionis. Se, dunque, sull’armonia si fonda la struttura dell’intero Universo, come relegare il puro suono, l’emissione vocale, la cantabilità performativa della poesia in quanto tale ad una mera dimensione irrazionale e quindi dannosa per la società, conseguenza di ciò che pensava di poter affermare Platone?
Fatto sta che Platone per fortuna non ha vinto: la poesia, nel corso dei secoli, ha mantenuto una propria istanza spiccatamente terrestre, sociale, spesso proprio in virtù della propria interna impostazione musicale. La poesia musicata propriamente detta ha trovato la propria identità in forme normalizzate già medievali e successivamente rinascimentali e romantiche come il madrigale, la canzone, il sonetto o la ballata, svincolandosi dai significati etici e filosofici precedenti, ma a ben vedere, ritrovandone altri confacenti alle epoche di trapasso. Ed è un male che le canzoni di Dante siano rimaste senza lo spartito di Casella, un male per l’ermeneusi filologica, un male per la comprensione di un tempo e di un luogo poetico, ovverossia di un topos, non più nostro e tutto da penetrare. Ma pensiamo per esempio al canto monodico della lirica provenzale, all’Ars Nova e all’arte del madrigale codificato in quattro stanze di tre settenari oppure endecasillabi in rima libera, comprensivi di ritornello oppure caudati; oppure al ritmo serrato della ballata, con la sua struttura manifestamente musicale di ripresa-piede-piede-volta-ripresa. È la dimensione giocosa e già parzialmente antropocentrica dell’uomo borghese che si svincola dal teocentrismo coercitivo e normalizzante quello che ispira Dante, quello che ispira le stanze per la Giostra di Poliziano.
Poi venne Metastasio e il suo melodramma, e qui, come sarà nel canto lirico successivo, la fusione diverrà totale, in funzione della compenetrazione reciproca di segno (lo spartito, il libretto) senso (la performance teatrale) e significato (il textus).
Non è dunque vero, come sostengono alcuni, che la musicalità della poesia sia invenzione recente risalente al XIX secolo, nonostante il sovvertimento della gerarchia delle arti teorizzato da Edgar Allan Poe e da Baudelaire, che sono stati fra i primi a ravvisare nell’aspetto musicale la nota distintiva della nuova poesia moderna, ovvero della poesia visionaria, postromantica e simbolista. Eppure in epoca moderna, com’è noto, l’avanguardista che si ingegnò a considerare la Musica come la prima delle Arti fu Schopenhauer ne Il mondo come volontà e rappresentazione (I, 52). La Musica secondo lui è infatti “oggettivazione e immagine dell’intera volontà, tanto immediata quanto il mondo, anzi, quanto le idee, la cui pluralità fenomenica costituisce il mondo degli oggetti particolari. La musica, dunque, non è affatto, come le altre arti, l’immagine delle idee, ma è invece immagine della volontà stessa, della quale anche le idee sono oggettità: perciò l’effetto della musica è tanto più potente e penetrante di quello delle altre arti: perché queste esprimono solo l’ombra, mentre essa esprime l’essenza”. A distanza di una cinquantina d’anni, Friedrich Nietzsche si sarebbe industriato a rincarare la dose, depositando dolcemente la Musica nell’alveo del dionisiaco, espressione dell’irrazionale di contro all’arte della parola, fenotipo a sua volta della mera concettualità omologante e categorizzante. Sicché, sul più bello, sarebbero arrivati i simbolisti, in cui il significante puro aderente immediatamente al segno, di contro al significato, assurge a supremo valore in se et per se e la musicalità del verso va ad esaltare proprio l’indeterminazione, la nebulosità della dimensione analogica sottesa esteticamente al poeticum in quanto tale come sua intima essenza ribollente nella dimensione dell’evocatività senza regole: l’istanza pre-psicanalitica e pre-surrealistica dell’associazione di idee nella poesia simbolista francese è quindi evidente, come anche sarà nelle poesie dadaiste di Francis Picabia.
Da quel momento in poi, infatti, tutte le avanguardie storiche invertiranno sperimentalmente l’ordine gerarchico delle arti a vantaggio della musica sulla poesia, fino agli eccessi della perdita di senso oppure alla fascinazione del camminare pericolosamente sulla soglia, sul “discrimine invisibile che separa il senso e il non senso” come lo chiamava Emilio Garroni, costante rischio dell’Artista il quale, appunto, “sta sempre, esemplarmente, sul discrimine invisibile che separa senso e non senso, così come non – esemplarmente, ci stanno tutti” (Estetica. Uno sguardo – attraverso, Milano 1992).
Del resto, se con Picabia “l’arte è il culto dell’errore”, occorre invece notare come avesse ragione, una volta tanto, Benedetto Croce quando affermava che l’arte sorge, vive e trionfa solamente all’interno della perfetta fusione fra forma e contenuto; ed ecco che allora Croce e lo stesso Bachtin torneranno ad affermare l’importanza di una considerazione maggiormente equilibrata fra Sinn e Bedeutung all’interno dello scisma tranciante poesia – musica che s’era appena formata dopo secoli e millenni di con–fusione. Parafrasando una famosa definizione di Frege, potremmo dire insomma che invece dell’immagine retinica, l’onda sonora è la rappresentazione, invece del cannocchiale, la sua decodifica da parte dell’orecchio è il senso (Sinn), invece della luna, il verso è la Bedeutung, ovvero il significato. In termini lockiani, la conoscenza intellettuale che dalla primaria esperienza estetica ci deriva in seconda istanza non è altro che “la percezione delle connessioni e dell’accordo o disaccordo (rifiuto) di ogni possibile idea” (Saggio sull’intelletto umano). Ciò è notoriamente in disaccordo con l’assunto cartesiano in cui tutte le idee per costituzione interna sono chiare e distinte, ma ciò andrebbe a favore dell’origine e della conformazione seminalmente analogica del discorso poetico in quanto tale, il quale “sragiona” per continui spostamenti e condensazioni (come direbbe Freud), in base alla costituzione interna del textus nella sua dimensione sia estrinseca, recitativa, che intrinseca, da lettura silente e solitaria.
Michail Bachtin, in maniera molto equilibrata, individuò pertanto nell’“aspetto puramente acustico della parola” un momento meno importante rispetto al momento performativo propriamente detto della poesia, ciò che egli definisce in Estetica e Romanzo come il movimento organico che trova luogo “sia che si attui effettivamente in una recitazione, sia che sia vissuto per simpatia nell’audizione, sia che sia vissuto soltanto come possibile”. Ecco allora ravvisata l’importanza dell’aspetto performativo della poesia contro quello meramente passivo, e qui torniamo alle origini stesse della fusione fra le due arti: se esse non vengono eseguite in direzione della perfetta fusione fra forma e contenuto, e per esecuzione si intende la messa in atto del musicale e del poeticum sotto ogni forma, anche l’ascolto o la lettura silente, in un qualche senso è come se la musica, è come se la poesia non avessero luogo.
Per tutte queste ragioni, riflettere sulle intime correlazioni fra poesia e musica, a mio parere, potrebbe di nuovo aprire un varco ai poeti verso nuove forme di poesia, ma soprattutto alla critica in direzione di nuove impostazioni di ricerca. E sorge qui, di conseguenza, un altro aspetto della questione, ovvero l’intima connessione di poesia e filosofia, che viene messa in evidenza dallo stretto legame intercorrente fra poesia e linguaggio, e fra linguaggio e, ancora una volta, dimensione performativa dello stesso. È un po’ ciò che Sesto Empirico testimonia in un passaggio sulle dottrine non scritte di Platone: “coloro che filosofano genuinamente” (così come coloro che poetano genuinamente, aggiungerei) “somigliano a coloro che lavorano sul linguaggio”. Come infatti costoro si occupano prima di parole (infatti, il linguaggio è fatto di parole), ma, poiché le parole sono composte di sillabe, esaminano prima ancora le sillabe, e poiché dalle sillabe esaminate si ricavano gli elementi della voce espressa in lettere, ancor prima investigano su di loro, così, sostengono i Pitagorici, devono fare anche gli ontologi che investigano sugli enti naturali nella loro totalità: esaminare in primis a quale analisi porti il tutto” (S. Empirico, Contro i Matematici X (Contro i Fisici 2), 248 – 250). Ma questo compito spiccatamente analitico non spetta certo ai poeti: spetterebbe, piuttosto, ai critici letterari, i quali invece oggi, nella maggior parte dei casi, si affidano ad un crasso de gustibus, ignorando bellamente in larga parte la doverosità del possedere fondamenti metodologici ed estetici, ognuno il suo proprio, il più confacente alla propria forma mentis, a patto che siano chiari, distinti ed esplicitati, e da cui sempre, prima di fare critica letteraria, occorrerebbe partire. Ma sulla carenza di prospettive ermeneutiche della critica contemporanea in Italia parleremo magari più in là, magari in altro luogo, riallacciandoci alla necessità del “sentimento della generazione di una parola significante”, come diceva Bachtin riferendosi alla poesia. Perché la necessaria significazione ermeneutica della parola critica di contro a tanta che non significa null’altro se non “mi piace” o “non mi piace” è un altro discorso urgente, uno di quelli che evidentemente s’ha da fare.
(Su invito dell’amico Paolo Polvani, conosciuto l’altro giorno al Premio Barcis-PN, delle mie considerazioni: valide solo per me, non voglio o intendo far discussioni.)
La musica (l’ho già detto pure in Facebook più volte) ha 3 componenti, che si sviluppano una dall’altra e poi ciascuna si articola nel suo ambito (mai slegato dagli altri): ritmo, che è l’origine da cui tutto sempre inizia; melodia, che ne è una specificazione tonale cioè l’articolazione-variazione secondo intervalli d’altezza, sempre collocati in una cornice-ossatura ritmica fondamentale (dall’acuto al grave, dove la successione delle note nelle scale ha una diversa valenza a seconda che ascendano o discendano); armonia, che è la sovrapposizione verticale di più melodie suonate contemporaneamente e genera gli accordi, che poi sviluppano quadri armonici di modulazioni e forme compositive etc.
Nella Grecia antica le 9 Muse, cioè le divinità-incarnazioni delle arti, figlie di Zeus-vita e Mnemosyne-memoria (originaria-essenziale-vitale), non danzano mai sole ma sempre assieme intorno alla fonte della poesia: le collega il ritmo, declinandosi dal piano più strettamente corporeo della danza, a quello più astratto della poesia in senso stretto; e sono proprio loro che danno il nome alla musica come sopra intesa, cioè quale medium ossia legame tra ogni cosa e veicolo espressivo di tale legame in forma simbolica sul piano umano: dalla musica delle sfere (danza cosmica) alla comunicazione tra vivi e morti tramite strumenti costruiti con resti di cadaveri, che i viventi fan risuonare ancora.
Per Platone la musica influisce e cambia l’umore, quindi i pensieri, le azioni, le relazioni e le leggi dello Stato: perciò la bandisce dalla Politeia, ma se è costretto a farlo essa non è davvero ideale – altrimenti accoglierebbe i mutamenti, o non sarebbero necessari avendo essa raggiunto le forme più autentiche-ideali; invece, come ogni formulazione concreta è parziale cioè soggetta a mutamento (fallì anche l’utopia a Siracusa), e quindi nella ricerca incessante dell’ideale le variazioni sono anzi positive, se si hanno di mira appunto questi scopi di convivenza al meglio e non delle mere ipostasi sclerotizzate che mummificano delle visioni, per quanto ampie, pur sempre parziali e quindi imperfette.
La musica cosmica è “l’Amor che muove il sole e l’altre stelle” di Dante e quindi il poeta-creatore è nel contempo re-legislatore come anche sacerdote, così Eros nella Teogonia (genesi-generazione degli Dei) di Esiodo (VIII sec. a.C.) è la divinità primaria che attua i legami musaici e ordina così l’informe scaturigine originaria del Caos (materia grezza, potremmo dire, mancante del soffio-spirito divino), cioè lo rende appunto un cosmo-mondo (incluse tutte le divinità, ciascuna a lui soggetta a partire dallo stesso Zeus che sarà poi, a posteriori, a capo delle altre); ogni attività umana è ritualizzata in ordine alla continua creazione-passione-resurrezione cosmica, in un ritmo-ciclo identico ma vario.
La musica è anche il ponte tra materia e luce, vibrazione (ritmo) che media tra la lenta frequenza della massa e la frequenza velocissima dell’energia: la musica agisce sul sistema neurovegetativo primario (la ‘sente’ chi è in coma), quello che l’essere umano ha in comune con le piante (su cui agisce in modo profondo, come anche sugli animali); Orfeo, il poeta-cantore-musicista (quello dei misteri orfici e dell’esoterismo iniziatico…) che commosse la Morte fino a concedergli di riportar in vita Euridice (ma la perse per paura di perderla, voltandosi ad accertarsi lo seguisse), muoveva anche le pietre inerti – cosa verificata anche dalla scienza con sabbia su una membrana che emetta dei suoni.
La Musica rinvia anche simbolicamente a un silenzio primigenio, che ne fa persino parte (le pause tra le note e tra i vari movimenti: fondamentali), di origine misterica: mistero, dalla radice myso = chiudo/serro, quindi una rivelazione indicibile e perciò segreta (solo esperibile direttamente) che lascia alla lettera a bocca aperta o senza fiato; così per Hendrix la saggezza ascolta “ciò che c’è tra una nota e l’altra” e Keith Jarret alla domanda come creasse la sua musica rispose: da tutto ciò che non lo è. Da tale fondo infinito di ritmi vitali ‘silenziosi’ nasce prima la musica, più ampia della poesia che invece ha a che fare con significati definiti: anche se li apre di continuo.
Dalla stessa radice di mistero deriva anche ministero, ministro e mestiere: il valore e il senso iniziatico-spirituale di ogni vero lavoro, tramite i cui strumenti che vanno oltre l’individuo e danno accesso a una sfera nel contempo pratica e metafisica – a partire dall’agricoltura, passando per l’artigianato, fino alle arti che ne sono solo una più profonda e eminentemente simbolica specificazione: tipo il merletto veneziano che origina dal rammendo delle reti dei pescatori; l’arte che perde questo contatto simbolico con la vita in senso proprio concreto si svuota e sopravvive solo per un forzato canone estetico che prescinde però ormai dalla reale funzione comunitaria.
La stessa sequenza gènica e l’intera struttura dell’universo è appunto musica, dai frattali alle orbite celesti: il ritmo-fiato ordina anche l’abitare, in architettura ci sono vari termini che rinviano a elementi musicali (ritmici), oltre a dar il nome a parti di costruzioni come i cori nelle chiese; infine non è casuale sia di ambito musicale ogni parola che indica la relazione sinergica tra cose diverse, tanto più in ambito strettamente umano e sociale: intesa, armonia, accordo, coralità etc. La musica infine c’è in ogni rito decisivo: nascita, nozze, esequie – sancisce, col suo ponte dimensionale, i passaggi fondamentali o forse meglio li apre proprio: essendo psichico (affettivo, profondo) ogni autentico mutamento.
“Ma questo compito spiccatamente analitico non spetta certo ai poeti: spetterebbe, piuttosto, ai critici letterari” (verso la fine dell’articolo linkato): sbagliatissimo, e difatti Dante (che ha dato parole a tutti, anche per dire simili fesserie) fa la sua necessaria analisi nel De vulgari eloquentia e costruisce una lingua che raccoglie tutte le parlate regionali della koiné italiana-peninsulare, usando il latino come supporto grammatical-sintattico e dando libero corso alla fantasia lessicale sulla base delle radici indoeuropee – il risultato, che convoglia anche tutta la cultura dell’epoca e la rilancia in un progetto socio-spirituale, è un’opera immensa che ancora alimenta generativamente l’italiano.
mille grazie Ulisse! contributo molto interessante! P.P.
Grazie dell’intervento, che va giustamente a completare il mio, con la precisazione che la tripartizione in danza, poesia e musica da me riportata è, come specifico più avanti nell’articolo, di tipo performativo, non costitutivo (ovvio che invece la tripartizione costitutiva della musica sia ritmo – melodia – armonia). Sul Platone della Politeia diciamo sostanzialmente le stesse cose: egli bandisce l’arte in quanto “per Platone la musica influisce e cambia l’umore, quindi i pensieri, le azioni, le relazioni e le leggi dello Stato”, ovvero, come scrivo io, perché “pericolosamente persuasiva” ecc.. Sulla musica delle sfere celesti Dante si ispira a sua volta al filone della tradizione del pensiero classico che affonda le radici nel Somnium Scipions di Cicerone e quindi, a ritroso, nel Timeo di Platone. In questo senso, “il silenzio primigenio”, come scrivono giustamente i Classici, non è un vero silenzio, ma una vibrazione cosmica talmente intensa e continua che l’orecchio umano non può più percepirla. Le osservazioni seguenti sono molto interessanti, aggiungo soltanto che la stessa struttura dell’armonia universale si fonda matematicamente su 1,618 che è il phi, il rapporto aureo da cui dipendono anche gli intervalli musicali dell’unisono, della quinta, dell’ottava, della sesta maggiore, della sesta minore eccetera (a riguardo offro in lettura un mio racconto su Fibonacci contenuto nella rivista Cadillac da pag. 65 in poi e scaricabile liberamente qui: http://www.rivistacadillac.com/site/archivio/numero-sei/ in cui approfondisco la questione). Quanto all’obiezione circa l’assegnazione dei “compiti analitici” ai poeti o meno, la mia non voleva essere la negazione del fatto che si diano diacronicamente in natura ottimi critici – poeti, cosa evidente a tutti, ma l’osservazione sincronica (che ritengo molto urgente, pur uscendo sul finale volontariamente un po’ dal topic) di un argomento importante relativo al compito del critico letterario, di cui parlo più diffusamente qui: http://labalenabianca.com/2014/07/16/la-critica-nella-terra-della-prosa-3-sonia-caporossi-e-fabio-donalisio/
Grazie e a presto.
Sonia Caporossi
P.S. Per comprendere il problema metodologico sollevato sul finale all’interno dell’articolo e in che senso “il compito analitico” riguardi eminentemente i critici sugli autori (ribadisco, non nel senso che questi ne siano esclusi senza appello), suggerisco anche la visione di questo video specialmente dal minuto 5.40 in poi. Grazie.
http://criticaimpura.wordpress.com/2013/05/05/lezioni-di-critica-impura-la-malattia-dellepigonismo-6/