3 ottobre 2013: già un anno e nulla è ancora cambiato, editoriale di Giulio Gasperini.
Un anno è già passato da quel crudele giorno. Le immagini del disastro popolarono tv, giornali, internet e i nostri occhi. Le “ultime ore” si rincorrevano, le interviste si sprecavano, le dirette si infastidivano. Tutti volevano raccontare quel naufragio, tutti affollarono Lampedusa per tenere il conto di quella cifra che ben presto diventò mostruosa, apocalittica: 366 morti accertate, 20 i presunti dispersi. Per un pugno di giorni, le coscienze si risvegliarono e sussultarono all’orrore di quelle marionette recuperate dalle profondità d’un mare che è stato dichiarato il più bello al mondo; di quelle donne incinte trascinate alla luce di un sole oramai gelido; di quei bambini senza nome – alcuni non ancora nati – rimasti legati con il cordone alle loro madri ignote. Per un pugno di giorni tanti, tra noi, dissero “basta!”, “mai più!”, “fermiamo il massacro!”. Tutti furono frustati da un brivido d’orrore nel vedere l’hangar dell’aeroporto di Lampedusa gravido di bare; quelle bianche, dei bambini, un colpo d’occhio assurdo e tremendo. Un orrore senza senso.
Il tempo però passa, tranquillo e pacifico: i giornali continuano parlando d’altro, le televisioni depistano le nostre attenzioni e le coscienze tornano a latitare, come se non fosse più un problema urgente. Promesse – come quella dei funerali di stato – vengono disattese, progetti sono convertiti in altro, dichiarazioni di buona volontà finiscono per sottomettersi alle logiche del potere e del denaro. E gli spettatori dimenticano la volontà, l’indignazione, l’orrore: torna il tempo dell’omertà, delle insignificanti preoccupazioni, delle tiepide attese. E la morte, che non si ferma, continua a infierire in quel braccio di mare; quel Mare Nostrum che per anni è servito a collegare e unire, a conoscere e con questo arricchirsi. Uomini e donne, bambini e neonati, continuano a tentare l’unica strada della loro salvezza: l’approdo in una terra che non conosca guerra né morte insensata (e indiscriminata). Partono, con la speranza che al di là del mare ci siano giorni migliori, meno tristi e crudeli. Partono e sanno, chiaramente, che potrebbero non arrivare: sono coscienti che potrebbero non attraccare in nessuna curva di spiaggia. Ma non hanno scelta. Nessuno ne avrebbe, al posto loro. Partono, sperando. E sperando, spesso, soccombono.
Ovviamente, quasi nessuno sa porsi la questione più corretta, più giusta: perché succede tutto questo? E ancor meno persone sanno consegnare ai legittimi proprietari le responsabilità ultime. È l’Europa stupidamente barricata su sé stessa, la prima responsabile; le sue leggi ingiuste e irragionevoli, il suo bieco opportunismo, il suo delirante pensiero che i confini, quelle inutili righe tracciate sulle cartine politiche, possano fermare l’uomo e il suo innato istinto alla migrazione. Sono le nostre leggi che causano quelle morti; sono i nostri stupidi regolamenti, la nostra assurda legge sull’asilo (diritto, per altro, ben chiaramente tutelato anche dalla nostra Costituzione e da un’infinità di trattati internazionali); è l’inaccessibilità (e l’evidente inutilità) delle nostre sedi diplomatiche all’estero che obbligano uomini e donne, bambini e persino neonati, a tentare il viaggio della disperazione. Cosa avviene in questo viaggio è noto (ma, a quanto pare, ampiamente rimosso): violenze, stupri, abusi, sfruttamento, fame e sete, torture. Parole scomode, scene fastidiose per il nostro pensiero diffusamente accomodante e sempre pronto, rapido, a trovare giustificazioni a chiunque e per qualunque cosa.
Di naufragi, ne è piena la storia del Mediterraneo: un mare che da sempre unisce, da costa a costa, ma che ha preteso i suoi pedaggi, i suoi sacrifici. Uno, su tutti, la notte di Natale del 1996. Di fronte a Portopalo, in Sicilia, lo Yiohan naufragò: trecento persone morte nell’ignoto; se ne saprà qualcosa, di questa tragedia, solo nove anni più tardi. Quelli dei giorni nostri, però, sono sacrifici istituzionali, irrazionalmente e crudelmente richiesti da leggi assurde, da ideologie irresponsabili, da immotivate paure: condannare esseri umani a dover rischiare la propria vita per trovare un po’ di pace è ben più che crudele. È una colpevole assunzione di responsabilità. E spesso, violenza suprema, tutti questi corpi che il mare restituisce (ma anche tutti gli altri che non sapremo mai) non hanno nessun nome, nessuna identità. Come se le loro storie non avessero peso, non fossero importanti. Come se non meritassero neanche l’opportunità di tentare, anche loro, un futuro di successo.
La poesia può aiutare, in questo caso. Perché la poesia, più della cruda cronaca che racconta e poi si cancella, sa ricordare e sa per-durare; sa ri-costruire, con la sua leggerezza, la sua delicatezza di ritmo e di suono, un nuovo modo di leggere la realtà; rispetto alla cronaca, al giornalismo spesso becero, la poesia ha altri strumenti, altre potenze; ha una diversa concezione della parola, del suono, del ritmo. La poesia riesce a far in modo che ognuno di noi possa godere di un’angolazione diversa, di un punto di vista eccezionale. Per tutte queste storie perdute, per tutte queste narrazioni mai narrate, per tutti questi volti mai visti la poesia riesce a ri-consegnare un’identità, ri-creare un racconto, fittizio ma pur sempre concreto, grazie alla quale riuscire, finalmente, un giorno, a non dimenticare né cedere al ritorno di una velenosa omertà.