Breve, non unicamente lampo. Editoriale di Silvia Secco.
Per redigere una nota introduttiva ad un numero interamente dedicato alla “brevità” nella poesia, non è possibile prescindere dal considerare l’elemento ispiratore, soprattutto se si contempla la parola poetica come parola/luce, nel proprio valore mai scisso di forma e di sostanza.
In un bellissimo saggio di una decina di anni fa dal titolo “Poesia e Ispirazione” (Luca Sossella Editore) Alberto Casadei indaga la sorgente dell’ispirazione poetica a partire dal concetto per il quale la poesia possiede il proprio oggetto – la realtà – pur senza la necessità di conoscerlo, a differenza della scienza filosofica che, invece, arriva a conoscerlo senza possederlo. Nella storia umana, secondo questa tesi, è la Parolal’essenziale e prima modalità di possesso della realtà, in quanto ponte di relazione fra essere vivente e mondo, fra individuo e realtà. L’atto di sguardo sul reale non è pertanto poetico in sé, ma lo diventa, e questo accade solo e quando la lingua principia a svolgere l’opera metaforica, paragonata a quella biologica, di collegare tra loro elementi diversi, ben prima della sintassi e attraverso il procedimento analogico.
Alternativo ed altro rispetto a quello comunicativo, il linguaggio poetico nasce nel mondo primitivo con un valore sacrale, attraverso le formule enfatiche dei rituali (di iperbolizzazione, ripetizione, ritmo) che imitano nel loro originarsi esattamente il mondo e, nello specifico, la corporeità (l’atto stesso del respiro, in primo luogo, mantice primo – riempitivo e svuotativo – e matrice ritmica). L’intenzionalità di lavorio sul significante, inteso in questo senso, definisce la poesia come un “linguaggio in azione” (come scrive Casadei), atto ad esternarsi, a raggiungere, -collegato e corrispondente ad essi – tanto l’elemento “terrestre” quanto quello “ultraterreno”, e capace di approdare a ben altra cosa rispetto ad una “mera sequenza linguistica”, generando appunto Poesia.
Il passaggio dalla “semplice intuizione di un ritmo” alla sua imitazione e resa in lingua/poesia, è la proprietà creativa del canto, nella quasi prodigiosa trasformazione dalla “Mousa” (la fonte sorgiva) alla parola cantata, e definisce il ruolo del poeta, in grado, come Orfeo, “di ammansire le belve”, e posto in una dimensione di prossimità tanto all’umano quanto al divino.
Se accogliamo il presupposto per il quale l’opera d’arte per essere definita tale, necessiti l’eccezionalità, e cioè il superamento di quelle che Casadei chiama “soglie di complessità elaborativa molto alte” senza arrendersi né fermarsi al primitivo spunto emozionale dell’ispirazione, possiamo approcciare il testo poetico ed, in particolare, il testo breve (o ancora, nel proprio isolamento, lo specifico verso) non soltanto considerando ciò che viene con esso comunicato, bensì osservando il messaggio all’interno della corolla del significante ed all’interno della musica generata come canto.
Nella “realtà” (in natura) identifichiamo nella loro dote di brevità gli elementi di effettiva breve durata, come il lampo ad esempio, simbolo – per ciò che riguarda la scrittura poetica – della fondamentale scintilla illuminatrice, dell’epifania: la visione (o la sensazione) ispiratrice dalla quale scaturisce, in seguito, l’opera artistica.
Eppure, se appunto consideriamo il successivo lavorio al fine dell’arte, dovremmo necessariamente ricercare come rappresentativi, altri elementi supplementari, i quali si andranno a trovare in una diversa sfera del reale, e cioè nella “cultura”, nel contesto naturale compromesso dall’artificio umano: brevità del lampo, quindi, ma anche brevità come “condensazione” o, ancor meglio, come “distillato”.
In questo senso il testo poetico, nel suo linguaggio altro ed alternativo rispetto a quello della comunicazione ordinaria, ed ancor più il testo poetico breve, può essere accolto non soltanto nella conta piccola delle parole delle quali si costituisce, ma nella considerazione della sua intensa densità, osservato con il rispetto e con la fascinazione con la quale ci si accosta alle proprietà di un olio essenziale, risultato ottenuto con pazienza ed intenzione e, molto spesso, con lentissima pratica di distillazione o di spremitura.
Forse, allora, Poesia può essere definita proprio in questo addensamento, quasi magico e quasi alchemico, che trasforma, cambiando lo stato del concreto, ed evoca, diviene e dice Altra Cosa; ed è capace, una volta lasciata l’individualità dell’autore ed accolto da una diversa identità, di mutare ancora, quasi infinitamente.
Uno specifico aspetto di essenzialità intesa in questo modo, è ben riscontrabile nella forma probabilmente più rappresentativa della poesia breve, l’Haiku, accompagnata in occidente ed in Italia dalla particolare esperienza di alcune delle voci maggiormente forti della poesia moderna e contemporanea, come Kerouac, Borges, Rilke, D’Annunzio, Ungaretti, Sanguineti e Zanzotto, ma – come scrive Stefano Luchetta, autore del testo “Le suggestioni dello Haiku nella poesia occidentale”, veicolata come una fascinazione, sensibilmente diversa nel proprio esito rispetto alla normativa originaria giapponese, prima di tutto per la presenza, quasi costante nelle opere degli autori occidentali, dell’elemento identitario individuale ed umano, inesistente nello Haiku tradizionale.
Elena Dal Pra, curatrice di “Haiku: Il fiore della poesia giapponese da Basho all’Ottocento”, spiega infatti molto bene come il compito ed il fine degli Haijin (gli scrittori di Haiku), si traduca primariamente, in tradizione, nella propria totale elisione all’interno del Kigo (l’elemento rappresentato), e come questa rappresentazione non corrisponda mai ad una descrizione, ma ad una vera e propria cristallizzazione(che potremmo chiamare anche addensamento o condensazione, volendo tornare ai concetti espressi precedentemente) per metonimia, di un istante preciso.
Un istante: un lampo di visione all’interno di un contesto; “il visibile” – come scrive Rilke in una lettera alla pittrice Sophy Giauque – “preso con mano sicura e colto come un frutto maturo”.
Secondo Dal Pra “lo Haiku è il coagularsi di una intuizione estetica possibile solo quando il soggetto <…> riesce a scomparire d’un tratto per lasciare posto all’oggetto, all’evento”: auto-omissione probabilmente inconcepibile e, di conseguenza, impraticabile, dalla maggior parte degli autori occidentali, i quali permangono, all’interno del “quadro”, anche soltanto come impronta di se. L’occidente poetico trasforma l’impressionismo dell’istante in descrizione, ed il “breve stordimento” nella visione dello stesso mediata dal soggetto che vede e che continuativamente partecipa alla visione. Così, ad esempio, in uno dei testi maggiormente lontani dalla tradizione, Borges scrive:
La vecchia mano
Ancora scrive versi
Per dimenticare
descrivendo, appunto, un istante totalmente invaso dalla componente individuale, mentre Kerouac, ancora ad esempio, scrive:
Sette di Novembre
L’ultimo
Stanco grillo
non limitandosi, per altro, a descrivere, ma aggiungendo alla descrizione un elemento di giudizio, non riuscendo cioè a non restare, saldo come soggetto e come protagonista, “all’interno” della poesia.
Se la metonimia (e, per vicinanza, la metafora e la sineddoche) è la figura retorica maggiormente presente nella forma Haiku, la medesima trova vastissimo uso all’interno dei testi brevi della poesia ermetica, della quale Ungaretti rappresenta in Italia, con probabilità, la voce madre, per gli elementi propri ed inconfondibili – molto simili a quelli caratterizzanti lo Haiku – di assolutezza, di essenzialità e di trasposizione da una condizione privata ad una riguardante l’intera umanità.
Ecco, allora e di nuovo, come si rende necessario parlare a lungo di questa “poesia di breve spazio” e come sarebbe altrettanto necessario osservarne le prove scritte di voci e canti levati, con il rispetto e con l’attenzione del centellinatore: parola/luce per parola/luce, verso per verso, nella loro densissima sostanza oleosa, successiva alla distillazione e suo risultato non privo di sofferenza: sacrificio che molto ha colto nel lampo d’ispirazione (nell’evento) e, successivamente, molto – ma molto – ha levato, al fine di “dire”, magari con stupore, quella “lunga strada/ loro” per usare le parole della poetessa Claudia Zironi,
“loro che risplendette all’improvviso”.
felice risentir tratti di sentieri altrimenti prossimi