Contro la malattia, in difesa della follia, editoriale di Marco Ercolani

Contro la malattia, in difesa della  follia, editoriale di Marco Ercolani.

   

   

Le grandi esperienze dell’arte non si producono nella normalità. Al contrario, è proprio l’avversione alla normalità e all’ortodossia a inventare nuove fantasie e ossessioni, che a loro volta inventano e progettano nuove forme. Non si è mai oggettivi, se si guarda con i propri occhi. Volente o nolente, l’uomo deforma il mondo, lo accorcia o lo allunga, lo allarga o lo restringe. Tutta la nostra vita è dominata dalla sproporzione: dal più o dal meno. Un ‘tono medio’ – adattarsi, consentire, obbedire – è inadatto a spiriti liberi. Artisti, matti, bambini, non stanno nei limiti. Esagerano. Non sono normali, adattati, consenzienti. Quando un individuo presenta sintomi di malattia psichica, esagera sentimenti comuni: il sospetto, la tristezza, la gioia. Gli manca una regola a cui accordarsi e se ne deve inventare una nuova.

Ulisse e i suoi marinai si legano agli alberi della nave con le orecchie turate dalla cera per non sentire il canto stordente nelle Sirene. Ma Ulisse ascolta, è il solo ad avere le orecchie libere dalla cera. Lui sente quelle voci stregate ma si vieta di sprofondare nel loro sortilegio. Si contiene fisicamente ma si lascia pervadere intimamente.

Occorre sprofondare reversibilmente nella propria “turbolenza” psichica. Foucault ci ricorda «attraverso quali trasformazioni storiche, quali modificazioni istituzionali, si è costituita un’esperienza della follia nella quale si trovano al contempo il polo soggettivo dell’esperienza della follia e il polo oggettivo della malattia mentale». Ogni discesa agli inferi – non malattia psichica ma esperienza di follia senza soluzioni previste né risposte già formulate – è tanto assoluta, nel trovarsi il proprio mondo interno di immagini, simboli, analogie, quanto relativa nel definire il tempo preciso e limitato dell’esperienza. Difendersi dal pericolo di cui scrive Emily Dickinson: «Poi un’asse si spezzò nella ragione/ ed io precipitai sempre più in fondo» è seguire le parole prudenti ma precise dello psicoanalista Donald Winnicott: «Se il viso materno è privo di risposte, allora uno specchio è una cosa che si può guardare ma che non si deve guardare fino in fondo», senza dimenticare, come azzardo iniziale, il consiglio di Hermann Melville: «Preferirei essere folle piuttosto che saggio […] mi piacciono tutti gli uomini che si immergono. Qualsiasi pesce può nuotare sino alla superficie, ma ci vuole una grande balena per scendere cinque miglia e oltre. […] Fin dall’inizio del mondo i palombari del pensiero sono tornati con gli occhi iniettati di sangue».

A Melville sembra rispondere Gilles Deleuze quando dice: «Lo scrittore  in quanto tale non è malato ma piuttosto medico, medico di se stesso e del mondo». Le sue parole ci ricordano che la scrittura è “un’impresa di salute”: non perché lo scrittore sia necessariamente sano (è vero il contrario) ma perché il folle gode di un’«irresistibile salute precaria che deriva dall’aver visto e sentito cose troppo grandi, troppo forti per lui, irrespirabili, il cui passaggio lo sfinisce ma gli apre dei divenire che una buona salute dominante renderebbe impossibili. Da quel che ha visto e sentito, lo scrittore torna con gli occhi rossi, i timpani perforati».

Una “buona salute dominante” rende impossibile qualsiasi forma di arte perché uno stato di benessere è spesso inerzia – da iners, non-arte. L’inquietudine è necessario motore dell’ars, ma un eccesso di inquietudine, una “cattiva salute dominante”, procura un dolore psichico che rende la vita invivibile e porta a fallimento qualsiasi espressione artistica.

L’arte è dunque un “evento” sospeso tra follia e salute, dove la follia è viaggio nella sragione  e non malattia senza ritorno. Se da sempre il malato psichico è considerato un individuo disturbato e debole, incapace di provvedere a se stesso, privo delle risorse elementari per organizzare la sua vita quotidiana, in costante dipendenza dalle istituzioni, disfunzionale ai ruoli imposti dalle autorità e dalle norme sociali, da sempre è vero anche il contrario. L’individuo colpito da disagio psichico ha risorse, sensibilità, intuizioni, che lo rendono non sterile e povero, ma ricco di  potenzialità anche se maldirette, sfasate, a volte sgradevoli, pur sempre coinvolgenti. Queste potenzialità, che le civiltà più antiche riconoscevano e onoravano considerando il malato mentale come eletto o veggente, possono ancora dare lezioni alla nostra normalità di sani – se non di comportamento o di stile, certo lezioni di sensibilità interiore e di energia emotiva. L’adeguata modulazione e riorganizzazione delle risorse creative – nascoste ma presenti in chi vive «fuori dal coro» – è una delle vie maestre, e insieme marginali, per accedere a un concetto dinamico di libertà e di salute. Aiutare i folli a fidarsi della loro follia quando li ispira e accresce la loro percezione, ma a diffidarne, se restringe il loro spazio vitale e li pietrifica nel paradosso nel delirio o nella sterilità della depressione. Aiutarli a diventare persone né normali né matte, non allineate alle norme comuni, che agiscono e sognano «fuori dal coro»: questa mi sembra un’utopia realizzabile. Se è vero che l’arte, con la sua eresia, mette in crisi la normalità e la rende in qualche modo «folle», perché non ci può essere arte senza il costante sommovimento di regole nuove, è vero anche il contrario: l’esercizio dell’arte, con i segni e le parole, incrina senza rimedio la muta compattezza della «follia», il suo mondo autistico e annichilito, orfano di osservatori.

Georges Braque osserva che l’artista, nell’attimo in cui rischia la malattia psichica, prova assurde esperienze, interne ed esterne; ma poi, nel momento successivo, un’ossessione gli si radica nelle dita, gli si imprime nella mente. E allora deve fare la sua opera e liberarsene, oppure muore. Insomma, l’arte non può sottrarsi ai suoi incubi mentali; ma da questi deve estrarre il suo quadro – la sua ragione, il suo limite. Poi, a opera finita, ricominciare a farsi possedere dall’incubo successivo. Nessun atto artistico ha una fine reale ma è solo una serie di vertigini, catastrofi e approdi, utili solo per ripartire ancora, riprendere fiato, rinnovare il rito, interminabilmente. La poesia – le sue strategie, le sue finzioni, le sue magie – nasce quando non si sta né troppo bene né troppo male e si può dire la sofferenza con parole che la evocano e la mostrano, la nascondono e la ri-velano.

                     

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2 thoughts on “Contro la malattia, in difesa della follia, editoriale di Marco Ercolani”

  1. buon giorno, una piccola nota a margine: forse non è stare “né troppo bene né troppo male”, non direi “stare” e non direi “né troppo bene né troppo male”, mi suona come uno stato medio, che proprio non si addice alla poesia né a ciò che l’articolo nel suo complesso e nelle sue parti intende, non di uno stato si tratta ma di andare e venire, non disertare né avere la presunzione di abitare i territori della follia.

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