Elsamatta di Alessandra Carnaroli, IkonaLiber ed. 2015, recensione di Lella De Marchi: il gesto vitale.
La poesia è un gesto vitale. Al pari di altri gesti vitali, quali mangiare bere dormire, la poesia non appartiene ad un tempo ed uno spazio specifici, ma attraversa spazio e tempo. E’ una necessità dello spirito e il segno della sua presenza è trasversale, dunque universale. Scrivere in versi, quindi, è un “fare” poesia, una costruzione significativa, un atto di ricerca che lavora in primis con i mezzi specifici della poesia: il linguaggio e la voce. Quando, poi, alla ricerca linguistica si associ con non scontato coraggio un’analisi sulla società capace di scavare nei suoi aspetti più bui e contraddittori fino a denudarne assurdità ipocrisie e deliri, il fare poesia diventa voce di tutto quello che voce non ha. Evita felicemente il rischio possibile d’un intellettualismo vuoto e fine a se stesso, entra in maniera propositiva nel tessuto della realtà, corre il rischio di non deludere la sua naturale ed originaria forza di cambiamento e di evoluzione.
“Elsamatta” di Alessandra Carnaroli (IkonaLiber, 2015) è la storia di una follia. Una follia reale, personale e collettiva. ElsaMatta è esistita davvero, così come il suo terrificante triciclo, di cui pare ad ogni pagina di sentire il cigolio. Davvero “elsa mattaspaventa bambini / insegue femmine per strappargli i capelli / uno a uno a / ciocche come rametti / di salvia per arrosti”, davvero Elsamatta è finita pazza ed internata in un manicomio, davvero Elsamatta mostra le tette, è stata spesso abusata dai militari in giro per la sua città. Si potrebbero enumerare nel corso dei secoli molti casi simili a questo, la stessa storia della letteratura è fitta di episodi di follia ben descritti, del binomio mitico poesia/pazzia, per non citare i tanti esempi di poeti finiti o vissuti pazzi. Ma Alessandra Carnaroli compie un gesto determinante, compiutamente poetico, su quella realtà, sulla realtà della follia. Non si mette a tavolino a descrivere soggettivamente l’accaduto inseguendo un linguaggio fittizio e ricreato, che non alberga in nessun luogo, tanto meno nella realtà. Non fa di quell’episodio un momento di redenzione universale, breve ed inutile poiché capace di durare il tempo della creazione poetica, mentre la realtà resiste nelle sue malattie e persiste con le sue incongruenze. Non insegue una morale preesistente, non cerca di dimostrare nessun assioma. Alessandra Carnaroli racconta, fondando la sua narrazione sulla testimonianza. Una testimonianza per altro attualissima.
Così, in apertura del libro: “Elsa matta quattrocento sessanta sette membri / il lavoro si basa sui commenti postati all’interno / di un gruppo fb / “quelli che una volta gli ha fatto la fuga l’elsa matta”. / Svago e tragedia normale, quotidiano di una donna / matta e dei suoi seguaci fedeli quasi cani”. Alessandra Carnaroli racconta eludendo l’io poetico fino ad annullarlo, evitando il rischio di un lirismo improduttivo e congenito a tanta poesia. Con la tenacia costruttiva e ri-costruttiva dell’artista contemporaneo ritaglia da quel gruppo di fb post e commenti, li spezzetta e li riassembla, trascrive senza omissioni il gergo sconnesso e frammentario di una comunità plurale e senza nome, ma straordinariamente unita a difendere la propria normalità dalle incursioni destabilizzanti del diverso, fondata sulla supremazia di un pensare collettivo e massificato, convinta, o portata a pensare, che l’indennità collettiva e singolare passi attraverso l’annullamento dell’identità individuale. Di una collettività che mentre addita il delirio per restarne al di fuori compie l’unico vero eclatante delirio, finge che certe cose non appartengano alla realtà. Confonde il reale con il virtuale, esclusivamente per proprio comodo, a costo di non mostrare il proprio vero volto, a costo di non correre il rischio di essere derisa o non accettata.
Ecco che cosa, concretamente, consegue dal gesto poetico di Alessandra Carnaroli, dal suo “fare” poesia. Poiché nessun gesto è senza conseguenza, poiché ogni gesto cambia il tessuto della realtà preesistente a quel gesto:
“dove c’era lei non ci andavo in giro per strada prima / magari compravo la pizzetta anche se non mi / andava / giusto per nascondermi dentro la pizzeria con le / altre persone della pizzeria / che mi potevano difendere da lei / se per caso diventava violenta / gli veniva in mente il diavolo / un lupo / i serial killer / gli veniva voglia di imitarli / su di me / inerme”
“peggio l’elsa matta delle guerre quasi come gli / stranieri i tossicodipendenti / che non lo sai se ti guardano male o guardano / qualcos’altro o niente”
“gli fa fuggire i clienti / mica ci ritornano se sanno / che ci può entrare anche quella / di solito trovano una scusa gli dicono / guarda che ci sono i carabinieri ti portano via / c’è l’ambulanza ninò ninò”
“perché se no c’avevamo paura che quella / ci faceva a pezzettini anche a noi / perché da bambini si pensa così si pensa / che una matta c’ha la forza come cento persone / come i personaggi della televisione”
ElsaMatta, un nome unico ad indicare l’appartenenza alla specie predefinita e l’inesistenza specifica e speciale dell’individuo che la indossa, fa paura. Fa paura fino a diventare l’emblema assoluto, lo specchio di tutto quello che del mondo fa paura. Anche quello che non c’entra affatto con il suo caso specifico, anche le paure dei bambini indotte dal mondo dei grandi.
“ora è in clinica / con la camicia di forza / quella non la slaccia come fa / per farsi vedere dai dottori / la tengono lì / mica loro c’hanno voglia di vedergli le tette / mica sono i militari / trovano da un’altra parte non sono disperati / e neanche gli infermieri / magari una volta per sfizio / per raccontarlo in pausa pranzo”
“perché ai matti gli piace scopare non hanno freni / come gli altri uomini / non si sanno regolare come col da mangiare o le / sigarette / ci vuole / uno lì / che controlla o possono fare anche uno stupro”
“e infatti ci andavano i militari del sud / che non tornavano mai a casa / nessuno li guardava o usciva con loro / si dovevano sfogare per la lontananza / ora ci sono le donne dell’est / sane di mente almeno / commenta / come merda”.
ElsaMatta è uno sbaglio di natura, la sua natura non è una natura normale, abusare del suo corpo non è, proprio per questo, un vero abuso. ElsaMatta è diversa, una facile preda che si presta giustamente ad un abuso, il suo essere diversa è un abuso che lei stessa compie nei confronti dell’intera comunità dei normali.
Spiazzanti, nella loro obliqua falsità acuita dalla modalità mediatica, i commenti buoni su ElsaMatta, che chiudono il cerchio su di una comunità incapace di prendere posizioni, di abbandonare le proprie vuote sicurezze, una comunità massa di “inermi”, e lasciano emergere tutto l’amaro con desolante evidenza.
“povera elsa l’hanno portata in una casa / per curarla / aveva superato il limite / ma però se ci parlavi era buona e dolce / che fine ha fatto / gli volevamo tutti bene / a due persone piace / questo elemento”.
“poveretta però che tristezza siamo tutti stati / inseguiti da lei / adesso però c’abbiamo una famiglia un fidanzato / possiamo andare a scuola o averci un lavoro pagato / fare una famiglia / lei niente di tutto ciò / è una delle ingiustizie di questa società che mette da una parte i diversi”.
Alessandra Carnaroli nel corso della narrazione si concede un unico travestimento, un unico denudamento. Quando presta la sua stessa voce ad ElsaMatta ed apre uno spiraglio su di un ulteriore forma di delirio collettivo, quello che collega molto più facilmente il clichè della pazzia all’essere donna. Come se al genere donna appartenessero più direttamente o naturalmente l’idea stravolta del diverso e dell’anomalia.
“e la mia passerina / già / si gonfiava al pensiero / della tua beretta sulle tette / no i carabinieri no i marò / per uccidere / la rana pescatrice / che mi sta in mezzo / un ombelico fisso / indisposto nell’ora di ginnastica / mestruazioncina / se mi è concessa / da dio / e perché dio vuole che figlio / e mi accoppio”.
ElsaMatta, poichè è ElsaMatta, non parla, non può raccontare di sé. E’ esistita davvero, ma non ha una realtà individuale. Tutti, compreso Alessandra Carnaroli, parlano al posto suo.
Termino con la citazione di Patrizia Vicinelli, poetessa a suo modo diversa ed a sua volta spesso incompresa, capace di riassumere e chiudere in un cerchio la ricerca messa in atto in questo libro, non a caso posta da Alessandra Carnaroli ad incipit dell’ultima fortissima poesia di “ElsaMatta”.
“disse che anche la poesia andava detta / in un altro modo , perché servisse ad altre schiere / e perché diventasse movimento attivo”.
In altro modo, per aprire uno spiraglio su realtà esistenti ma sommerse, per dare voce a chi non ha voce, magari con la voce. Magari con la voce recitante di Alessandra Carnaroli, capace di dare corpo vivente ai deliri del mondo, al reale che non esiste. Mostrando che, come nel caso di Patrizia Vicinelli, il veicolo naturale per arrivare alla parola scritta è la voce, il corpo della voce, e non viceversa, come troppo spesso siamo portati a pensare ingannandoci. Considerato il fatto, non trascurabile, che la poesia è nata tantissimi secoli fa per essere recitata in pubblico, per essere condivisa, molto prima di essere deposta ed accolta nella forma chiusa del libro.