Estranea età, di Sergio Sichenze.
«D’oro la prima stirpe degli uomini…Vissero sotto Crono, che era sovrano del cielo: vivean di Numi al pari, con l’animo senza cordoglio, senza fatica, senza dolor; né su loro incombeva la sconsolata vecchiaia; ma forti di piedi e di mani, scevri di tutti i mali…tutte le cose belle essi avevano », Esiodo, “Le opere e i giorni”.
L’espressione “età dell’oro” indica un periodo arcaico in cui, oltre all’assenza di guerre, l’uomo era affrancato da fatica e da lavoro: la terra elargiva i propri doni a tutti. Un’epoca dell’abbondanza universale: «Erano tempi felici», scriveva Seneca. Una malinconia di un tempo perfetto, ideale, quantomeno astratto, sicuramente contrapposto alla inospitale crudeltà e brutalità che divide gli uomini; un tempo di cupidigia che li rende nemici, opposti, combattenti: stranieri!
Platone nel “Politico”, riporta: «Esseri soprannaturali, di natura divina, s’erano divisi a guisa di pastori le creature viventi, distribuite in gruppi secondo la specie…non praticavano agricoltura; da sola, spontaneamente, la terra produceva ogni frutto; non conoscevano vesti, non uso di giacigli; sotto la guida del pastore vivevano all’aria aperta in una temperata armonia di stagioni».
Lucrezio, nel V° libro del “De rerum natura”, sconfessa la visione aurea di quell’epoca, per riportarla sul piano di realtà, affermando che gli uomini non hanno origine divina, ma sono immersi in un mondo irto di difficoltà. Tuttavia, riconosce agli uomini aurei la frugalità: «Quello che il sole, quello che davan le piogge e che la terra creava da sé, spontaneo, quel dono bastava a renderli paghi».
Se, dunque, l’età dell’oro è una affascinante seduzione che ha percorso la storia del pensiero umano, il biblico paradiso perduto ricolloca l’uomo in una profonda solitudine terrena dove è straniero due volte: con se stesso e con i suoi simili, con i quali ingaggia da sempre efferati conflitti, in una estraneità di specie. Con solitudine, pertanto, s’intende un essere oggetto e non umano: «Frattanto, entro gli abissi/pieni di zucchero dei porti,/cadevano indios sepolti/dal vapore del mattino:/rotola un corpo, una cosa/senza nome, un numero caduto,/un grappolo di frutta morta/finita nel letamaio», Pablo Neruda, “Canto General”.
Esiodo, dopo aver descritto le precedenti quattro stirpi (quella d’oro, di argento, di bronzo e degli eroi), illustra la degradazione del genere umano nell’età del ferro, quella della quale il poeta ritiene peraltro di fare parte: «O se avessi potuto io evitare mai di far parte degli uomini della quinta stirpe, ma morire prima o nascere dopo!…giustizia sarà nella violenza; e pudore non vi sarà, ma il cattivo danneggerà l’uomo buono intrecciando discorsi ingannevoli, e giurerà contro il giuramento».
Un’estranea età dove l’Homo sapiens non ha mai smesso di essere Homo necans, portatore di violenza che s’infiltra come metastasi connaturata alla modernità, in aperta contraddizione ai trionfalismi sul progresso. Progresso, scopo di una poetica nichilista che si oppone all’humanitas: «Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità…Non v’è bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro…Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e conto ogni viltà opportunistica o utilitaria…Uccidiamo il chiaro di luna”: dichiarazione del Futurismo, nel suo manifesto del 1909. La vita è lotta per Marinetti, lotta di individui e di popoli e, nell’energia vitale degli uomini e delle razze superiori,: «vogliamo preparare la nascita di una Venezia industriale e militare che possa rovinare il mare Adriatico». Una retorica ampollosa che tracima in visioni grottesche: ad esempio il tema degli amplessi dei mutilati in “Come si seducono le donne”, portato all’eccesso nell’ “Alcova d’acciaio”. Età in cui l’uomo-torpedine Marinetti pubblica e diffonde manifesti espliciti, come “Guerra sola igiene del mondo” del 1915. Culto della violenza militare, esaltazione della guerra come un irripetibile momento di ebbrezza psico-sensoriale che si nutre di odio-disprezzo per il nemico, lasciando poco spazio alla “pietas”.
Questa età del ferro, l’abbandono dell’aureo sogno di una felicità bucolica, si presenta in foggia di capitolazione all’incontrastato progresso: «Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti». Può, nel travolgere neo darwiniano evolutivo dell’umano destino, tuttavia manifestarsi un’età della pietas: «Ogni movente di cotesto lavorio universale, dalla ricerca del benessere materiale, alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada questa immensa corrente dell’attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani”, Giovanni Verga, prefazione a “I Malavoglia”.
L’età della pietas convive con la ferruginosa violenza nell’epica omerica, provocando estraneità, disillusione, ma, al tempo stesso, una luce di humanitas, in un gioco di continuo rimando tra l’essere stranieri alla natura umana e l’esservi intrisi: in larghi tratti sovrapponendo gli estremi.
Simone Weil, in “L’‘Iliade o il poema della forza”, scritto tra il 1936 e il 1939, afferma: «Il vero eroe, il vero argomento, il vero centro dell’Iliade, è la forza. La forza adoperata dagli uomini, la forza che piega gli uomini, la forza dinanzi alla quale si ritrae la carne degli uomini. L’anima umana vi appare continuamente modificata dai suoi rapporti con la forza: travolta, accecata dalla forza di cui crede disporre, si curva sotto l’imperio della forza che subisce…La forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa». Nel poema omerico, però: «Essa finisce per apparire esteriore a colui che la esercita come a colui che la soffre; nasce allora l’idea di un destino sotto il quale i carnefici e le vittime sono del pari innocenti, i vincitori e i vinti fratelli nella stessa miseria…Il potere ch’essa possiede, di trasformare gli uomini in cose, è duplice e si esercita da ambo le parti; essa pietrifica diversamente, ma ugualmente, le anime di quelli che la subiscono e di quelli che la usano».
Nell’efferatezza delle scene, delle storie e dei dialoghi che Omero ci propone, possiamo ritrovare gesti di riconciliazione: «Quei due hanno certo lottato nella lotta che divora il cuore, ma si sono separati in un vincolo di amicizia», e di tenerezza: «il cuore di questi si sciolse, come la rugiada intorno alle spighe, quando la messe cresce e i campi sussurrano, allo stesso modo, Menelao, il tuo cuore si sciolse».
Lo stesso verbo, riscaldare, addolcire, viene usato a proposito dei doni che Priamo reca ad Achille, nella speranza di placare l’animo selvaggio di quell’uomo crudele e ottenere il cadavere del figlio Ettore. In questo caso gli stranieri ricolmi d’odio possono scoprire nell’altro l’umanità dell’essere, col la quale stabilire un’interazione, improntata al rispetto e alla lealtà: «Il venerando veglio entrò…e fattosi innanzi, tra le man si prese le ginocchia d’Achille, e singhiozzando la tremenda baciò destra omicida…che di tanti suoi figli orbo lo fece…Ettorre, che de’ suoi fratelli e di Troia e di tutti era il sostegno; e questo pure per le patrie mura combattendo cadéo dianzi al tuo piede. Per lui supplice io vegno, ed infiniti doni ti reco a riscattarlo, Achille!…abbi pietade di me: ricorda il padre tuo: deh!…A queste voci intenerito Achille, membrando il genitor suo, proruppe in pianto…alfin satollo di lagrime il Pelíde….sollevò il cadente veglio….diam tregua a un dolor che più non giova».
La tragedia della guerra, a noi più prossima, ripropone la duplicità dell’estraneità, ma apre alla contiguità tra gli opposti, una similitudine tra i nemici, che il sangue bellico riavvicina.
Negli occhi di Pin, il bambino sbandato, passato, come per caso, dai giochi dell’infanzia alla dura realtà del secondo conflitto bellico mondiale, avviene la metamorfosi dall’età dell’ingenuità (di metallo aureo) al ferro delle armi, rendendo tremendi e identici i destini: «Quel peso del male che grava sugli uomini…quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto…il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali [è] una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo», Italo Calvino, “Il sentiero dei nidi di ragno”.
«Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione», Cesare Pavese, “La casa in collina”. Lo stesso Pavese ci introduce a un’altra categoria di straniero, l’espatriato che ritorna: «Quando si torna, come me a quarant’anni/si trova tutto nuovo». Con questo componimento si apre la raccolta “Lavorare stanca”, colui che si è sradicato dal proprio mondo ha viaggiato in lungo e in largo, magari ha fatto fortuna, ma prima o poi ritorna ai propri luoghi e cerca un recupero del passato infantile; il senso di sradicamento e di solitudine come esperienza tipica dell’esistere: tema centrale del successivo romanzo “La luna e i falò”.
Ma l’estranea età può essere anche quella di sentirsi straniero nel conoscere e farsi riconoscere dal mondo: «Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi/Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:/Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina/Una fanciulla della razza nuova,/Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine/di un giorno che apparve/La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina», Dino Campana, “Viaggio a Montevideo” in “Canti orfici”. Estraneità per la perdita è la partenza da Alessandria d’Egitto, alla scoperta delle proprie radici, di Giuseppe Ungaretti, in “Silenzio”: «Dal bastimento/verniciato di bianco/ho visto/la mia città sparire». Il viaggio è anche erranza, che produce finanche straniamento: «…Rinomato Ulisse,/tu alla dolcezza del ritorno aneli/e un Nume invidioso il ti contende…/pur, sebbene a gran pena, Itaca avrai…Quindi ogni cosa gli parea mutato/le lunghe strade, i ben difesi porti/e le ombrose foreste, e l’alte rupi/sguardò fermo su i piè la patria ignota/poi non tenne le lagrime, e la mano/batté su l’anca, e lagrimando disse:/Misero! tra qual nuova, estrania gente/sono io?» (Omero, “L’Odissea”), e realizza visione estatica: «Che allegria piena, distesa, Sirmione,/rivederti più bella di tutte le isole e penisole» (Catullo, “Liber”).
Il processo di globalizzazione contemporanea, infine, è una ulteriore e riconoscibile estranea età, dove registriamo un’accelerazione pressoché incontrollabile di contaminazioni e mescolamenti di specie animali e vegetali esotiche, talvolta spostate dall’uomo al di fuori del loro areale naturale in maniera inconsapevole o accidentale. Un’invasione silente che causa seri danni socio-economici e ambientali, stimati ad una cifra superiore ai 12 miliardi di euro all’anno, pari a circa il 5% dell’economia globale. Un’estranea età che, tuttavia, non è cifra recente, che riporta l’Homo sapiens, come quello necans, su un piano di comune destino, dove riconoscersi simili: «La peste, giunta dall’Oriente, penetrò in Germania per la Boemia. Viaggiava senza fretta, al suono delle campane, come un’imperatrice. China sul bicchiere del bevitore, soffiando sulla candela dello scienziato seduto tra i suoi libri, servendo la messa del prete, nascosta come una pulce nella camicia delle meretrici, la peste infondeva un elemento di insolente eguaglianza nell’esistenza di tutti, vi metteva un acre e pericoloso fermento d’avventura». Marguerite Yourcenar, “L’opera al nero”.