Fabbrica e poesia. Poi poesia sulla fabbrica, di Fabio Franzin

Fabbrica e poesia. Poi poesia sulla fabbrica, di Fabio Franzin.

     

       

Ho incominciato a lavorare in fabbrica a sedici anni, nel 1979. Dopo un biennio di tornitore meccanico, indirizzo scolastico ad avviamento professionale che, peraltro, non prediligevo; date le condizioni economiche in cui si dibatteva la mia famiglia – io figlio maggiore – decisi di entrare nel mondo del lavoro per alleviare le sorti di un padre, amatissimo, che faceva fatica a sfamare i suoi tre figli vendendo materiale antinfortunistico, da ambulante, col suo furgone 242 Fiat grigio.  Così sono entrato in una fabbrica del mio paese, Chiarano, epicentro di quel nord est dell’ex miracolo economico, a imballare tavoli (è curioso il fatto che, dopo varie vicissitudini, tre ambiti lavorativi cambiati in questi 39 anni, sia tornato, da cinque – dopo un periodo di mobilità durato mille giorni – a imballare di nuovo tavoli).
Allora, quando misi piede dentro quel primo capannone, fra nubi di segatura e miasmi di verniciatura, fumi dei muletti che andavano a gasolio e il frastuono di frese, seghe, levigatrici,  lucernari e neon che diffondevano un pallido chiarore lungo la linea e urla, ordini, bestemmie, ruffianerie, delazioni, credetti di non farcela ad arrivare a sera. Poi la sera arrivò, dopo dieci ore, e arrivò anche la mattina dopo, e quella dopo, e così via… così come ora, da quasi quarant’anni.
Però, la mia anima urlava, continua a urlare ancora adesso. Presa fra gli ingranaggi di un meccanismo ostile, di un ritmo forsennato, dieci ore al giorno più il sabato mattina, ha cercato, quasi da subito, un altrove in cui riappropriarsi di una bellezza sottratta, gettata dentro i tubi di aspirazione appesi in alto, a confluire dentro il silo svettante accanto al cubo di cemento, che rappresentava, in un certo senso, il campanile di quella nuova religione votata al “far schèi” nel dominio di un territorio che, sino a pochi anni prima, era stato il luogo della millenaria civiltà contadina, di un paesaggio più dolce e naturale.
Quell’isola in cui rientrare in me stesso, ritrovare il senso di una realtà meno ostile, è stata la letteratura. Prima la scoperta dei grandi narratori: Dostoevskij, Kafka, Proust… poi quella della poesia, con Leopardi, Pavese e poi Zanzotto, da cui ho compreso anche le potenzialità del dialetto, la concretezza di una lingua minore, per nulla però serva di una massificazione che ho sempre rifuggito come la peste.
Mai avrei pensato di scrivere anch’io, prima o poi, a quei tempi.
La letteratura mi permetteva di addentrarmi in un paesaggio umano e naturale, che mi donava la libertà dell’immaginazione, la parola, dopo ore e ore spese in gesti e confronti che sconfortavano, alla sera si caricava di una sua forza salvifica, redentrice, che mi permetteva di rigenerarmi, di purificarmi dalle scorie di una realtà che dovevo affrontare a muso duro, certo, ma che scavava fra le mie carni come una ferita profonda.
Dopo dieci anni di letture disordinate ma appassionate e dell’offesa a una condizione operaia che vedevo via via spolpata, spogliata dei diritti conquistati dai nostri padri nella lotta per non veder usurpata la dignità morale, composi la mia prima poesia. Titubante, perché credevo, dati i miei scarsi studi scolastici, di non possedere gli strumenti per farlo.
Non era certo una poesia operaia. Io dalla realtà operaia cercavo, attraverso le parole, di allontanarmi, di fuggire.

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Poi, verso il 2007, dopo alcune raccolte pubblicate, che incominciavano a trovare i loro lettori e ricevere il plauso di alcuni addetti al settore, mi capitò fra le mani quell’opera dolorosa che è “la condizione operaia” scritta da Simone Weil nel ’36 e tradotta nel ’52 da Franco Fortini per le “Edizioni di comunità” la casa editrice voluta e fondata da Adriano Olivetti. Mi accorsi, leggendo questa sorta di diario sulla condizione umana vilipesa all’interno di una fabbrica, che poco era mutato, in settanta anni, nei luoghi del lavoro, per ciò che concerneva la dignità, e che avevo trovato in Simone quella sorella che mi era sempre mancata e la guida spirituale per affrontare l’urlo che trattenevo dentro me da quasi trent’anni. Nel frattempo avvertivo quella crisi che, prima ancora di palesarsi per il contraccolpo economico che sappiamo, era già precipizio umano. Così decisi di scrivere/descrivere il luogo e le frizioni in cui mi dibattevo. In tre settimane scrissi “Fabrica”, poemetto operaio, credo il mio libro più fortunato, che restò nel cassetto ancora per un anno, prima di trovare il suo editore in “Atelier”: ricordo che Marco Merlin, che allora dirigeva la collana di poesia della pregevole e importante rivista, mi scrisse che era interessato a pubblicarla neanche ventiquattrore dopo che gliela avevo inviata. Da lì la mia virata verso una poesia che facesse i conti con la realtà, non voglio neanche definirla civile, perché allora io volevo solo descrivere ciò che avevo subito, liberare quell’urlo troppo a lungo trattenuto.

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Ora, dieci anni dopo, continuo a fare l’operaio e a scrivere poesia.

Quel “destino maledetto” che ha costretto la mia vita all’interno di un capannone industriale, riesco ora, alle soglie della pensione, a vederlo per ciò che effettivamente è stato: una palestra in cui osservare e convivere con una umanità varia ma connessa ai gesti del lavoro, alla precarietà dello stesso, alle condizioni di sudditanza che comporta. Ho lavorato fianco a fianco con gente proveniente da ogni parte di questo mondo che, causa la globalizzazione e poi la crisi, ha mischiato popoli e religioni: slavi, marocchini, rumeni, albanesi, indiani, senegalesi… non ho mai incontrato problemi a interagire con loro: il sudore ha lo stesso odore in ogni pelle, e stanchezza e  svilimento dell’etica delle mani, ci fanno un po’ tutti fratelli di un destino sempre meno fulgido. Dal lavoro, poi, ho abituato la mia parola ad essere concreta, a non gingillarsi intorno al mio ombelico,  o a un’idea di bellezza avulsa alle istanze che la realtà impone, per cercare di farsi lingua popolare, per andare incontro a ciò cui, ogni lettore, è costretto a confrontarsi, in quest’epoca che sembra aver smarrito la sua umanità.

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Metropolis, Fritz Lang, 1927
Metropolis, Fritz Lang, 1927

One thought on “Fabbrica e poesia. Poi poesia sulla fabbrica, di Fabio Franzin”

  1. Leggo – con vero e tanto piacere – questo articolo di Fabio Franzin. Ne condivido dalla prima all’ultima parola. Qui si parla di lavoro che non “nobilita l’uomo” ma lo abbrutisce, lo degrada, lo svilisce. Fabio – con un dire sempre poetico (perché il poeta si riconosce comunque, anche quando scrive in prosa) – descrive la sua condizione di operaio in fabbrica: tentativo di annientamento della persona, ridotta ad ingranaggio di una catena di montaggio (Charlie Chaplin), ma non si limita a questo: ci rende partecipi del suo riscatto, si, perché di questo si tratta quando la letteratura (la poesia) si ribella ed alza il suo più alto grido di libertà. E non si creda che la situazione lavorativa, decadente e priva di diritti (almeno nel nostro Paese), riguardi solo la fabbrica: in tanti, troppi ambienti di lavoro “si respirano” quei veleni di cui parla Franzin; e sono scorie di ogni genere (violenze e soprusi, prevaricazioni e vessazioni anche psicologiche), sempre seguendo la logica del “far schèi” – come sostiene sopra -.
    Ho conosciuto Fabio attraverso la sua opera e per un periodo siamo stati in contatto tramite mail; poi, come spesso capita, ci siamo persi “di vista”. Colgo l’occasione che mi dà V. R. per salutarlo caramente, esprimergli nuovamente la stima che nutro per la sua poesia e – qualora volesse – per riallacciare un contatto che, per quanto mi riguarda, mi piacerebbe riprendere.

    Sandro Angelucci

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