Fatti deprecabili, di Caterina Davinio, edizioni ARTeMUSE, note di lettura di Paolo Polvani.
Rendo omaggio alla mia bella solitudine.
Fatti deprecabili è il diario di bordo di una navigazione che segue rotte diverse, incasellate in libri dai titoli significativi, libro dei sogni, libro del disordine, libro mistico, e altri. Registra le esperienze, le sensazioni, i viaggi, gli amori, la musica, le feste, le città, e diventa una sorta di documento che getta luce su di un’epoca , quegli anni importanti che vanno dai primi ’70 agli ultimi del secolo scorso.
Affrontare la lettura di questo libro è mettersi dentro un percorso che prima di tutto evidenzia il dato sociologico, riporta alle atmosfere, alla cultura giovanile di un periodo importante per la nostra storia, che ha segnato intere generazioni e per molti aspetti modificato la visione della vita stessa. Si parte con i grigi pomeriggi di una piccola città di provincia, quegli strani pomeriggi di noia, asfalti lucidi di pioggia e viali dove una volta si trascorreva il tempo libero, le case dove “la quotidianità si srotola pigramente fra le quattro / mura” e dove comunque si fa l’esperienza della musica e non si può “non provare altro che amore / per Vivaldi” e ancora “passare attimi interminabili / al suono di Mozart”. La musica sarà e credo sia ancora una presenza costante nella poesia e nella vita di Caterina. Una presenza che ha il valore della ricerca, della sperimentazione, che significa viaggio e approfondimento, evasione e tentativo di approdo su lidi diversi, quelle terre dove si immaginava si realizzasse l’utopia, quei raduni, quelle feste che erano proclami di rivolta e insieme manifestazioni di un disagio, aspirazioni a un mondo sognato in maniera ingenua mentre la realtà veniva percepita nella sua violenza fatta di alienazione, di ingiustizie, di volgarità, uno sciupio collettivo della vita che si sarebbe rivelato spietatamente distruttivo, risolto in un consumismo deleterio, nella perdita progressiva di ogni ideale, in un conformismo sempre più diffuso. Così la ribellione comincia con la musica, e poi con la ricerca di stili di vita alternativi, e la scoperta della droga: “Volevi provare / mia giudiziosa amica /e andammo in quei meandri / del parco / dove più sentivamo l’ebbrezza / del rifiuto…”. Rifiuto che diventa scelta politica di campo e si traduce in “Facoltà di lettere occupata” e “Canne all’Istituto di Lingue orientali”: “..e noi giochiamo alla droga, / ci coniughiamo in tutte le declinazioni / dell’esistenza..”e iniziano le esperienze che hanno caratterizzato intere generazioni, come l’autostop: “Giù per l’Italia / con cento lire in tasca” ; dove “tutti hanno pietà / della mia faccia d’angelo” , lungo certe mete care alle aspirazioni giovanili: a Bologna sul ciottolato dei drogati, a Firenze a dormire nelle piazze di cristallo, e poi nei caruggi di Genova, dove “gli antri delle prostitute si aprono inondati di luce rossa” e ancora “Con le mie amiche andammo sulla strada / volevamo raggiungere la Francia / per vendemmiare”, in una vitalità che parla di disperazione e di inadeguatezza: – Venne la Francia e venne il lavoro / troppo duro per me -, troppo duro per una libellula di città avvezza alle scrivanie, alla musica colta, e arrivano le esperienze di droga: – Fu così che smisi di sorridere – fu così che mi chiusi in camera a scrivere poesie, dice Caterina, per celebrare la mia nullità, fu così che la mia vita divenne un problema. E la Germania, dove – il professore di tedesco / non lo so se mi amava, / ma io si…- e dove – tutti gli spacciatori / erano innamorati / del mio bel muso di gattina perversa -.
Gli ambienti e le atmosfere sono ancora la facoltà di lettere e filosofia occupata, la fila alla mensa universitaria, e il pianto sui gradini. Un libro che a tratti si srotola come un romanzo, con protagonisti che vanno e vengono, ritornano, si uccidono, ma prima danno accoglienza e amore, rifugio nelle case, e regalano – certi momenti / dove deliziavano lingue nella bocca / seni piccoli nudi -.
Decisamente un andamento romanzesco, con tutte le situazioni tipiche, direi necessarie di quegli anni, la droga, la musica, i viaggi, gli amori, le città, i tradimenti, le perdizioni, un percorso in cui si riconosceranno tutti quelli che hanno attraversato quella strana e produttiva epoca di inquietudini, ribellioni, ricerca, e anche di sconfitte, di errori clamorosi, di ingenuità, ma anche di giuste rivendicazioni, di tabù finalmente infranti, di conformismi frantumati.
Ma non è solo questo percorso storico, o sociologico, questa fotografia di un’epoca che emerge in questi fatti deprecabili. Ci sono i guizzi della poesia, certi lampi che meritano una sosta e un approfondimento. Sono diversi i libri che ho letto di Caterina Davinio, mi ero imbattuto nei suoi versi giovanili senza avvertire eccessivi trasalimenti.
In questo ultimo libro i versi giovanili sono davvero tanti, e la qualità non è omogenea, ci sono sbalzi, ci sono i luoghi comuni cari a tutti i giovanissimi poeti. L’autrice ha privilegiato la continuità, la trama fitta del racconto di un disagio, di un’inquietudine, piuttosto che una selezione rigorosa, ed è una scelta che va rispettata. Eppure alcune piccole scoperte fanno presagire una sicurezza del canto, per esempio alcuni versi scritti tra i quattordici e i sedici anni:
Primavera.
Alzo le mie mani
come fiori sul cielo
come fiori che accarezzano
l’aria
per chiedere gioia.
oppure questa che pare profetica, lascia trasparire la ricerca di un senso, di una direzione: – Non deridetemi troppo / ma sto cercando un dio di qualche specie. –
Sono versi che tracciano un cammino, indicano una predisposizione e a volte una compiutezza, rivelano una lucidità di fondo, un’ispirazione che va oltre le ingenue aspirazioni adelescenziali:
quando suoni per me
per il mio povero cuore
chiuso in una gabbia
di pianto
la tua voce
sia la fiera voce del mattino.
Ci imbattiamo in alcuni lampi di pura poesia che richiamano la delicata purezza dei lirici greci, agili pennellate generate da una acutissima sensibilità, da una predisposizione all’essenzialità della bellezza. Dietro, sicuramente l’influsso di letture, scolastiche e non, di tanta musica che rappresenta una coltivazione dell’esperienza estetica, e io aggiungerei le caratteristiche del paesaggio pugliese che è sgombro, libera l’orizzonte per chilometri, conosce le architetture lineari di certe cattedrali che si levano al cielo con la sobria bellezza della modestia, le costruzioni rurali povere, i disegni geometrici degli uliveti, dei vigneti rigorosi.
La torbida luna mi guarda.
La bella notte
è cupa e gentile.
Anche l’amicizia occupa un posto di rilievo all’interno del libro, amicizia come condivisione di un percorso, come fedeltà a certe scelte, come sostegno e punto di riferimento. Tuttavia emerge dai versi una personalità indipendente, sicura, e così una voce che fa dell’autonomia la sua stella polare.
Il dio delle montagne
il dio del mare
di nuovo ha fatto udire
la sua voce.
Il dio della fresca
umida neve
il dio della sorridente spuma marina
ha mormorato
con voce pura
il canto della purezza
il canto del bianco
il canto dell’azzurro.