Felicità, scelta di vita dei violenti, di Alessandra Cerminara

Felicità, scelta di vita dei violenti, di Alessandra Cerminara

 

 

La felicità è il fulcro di ogni tipo di tensione e manifestazione umana, la leva di ogni spasmodica ricerca, il motore della vita e della storia sin dalle origini. Manifestandosi sotto forma di desiderio, è stata  associata ai contesti più disparati: ricchezza, potere, gloria, amore. Questo suo essere multiforme l’ha resa una dea capricciosa e sfuggente, sensibile alle lusinghe della fortuna e degli accidenti. Essa continua ad essere il nostro sogno più bello, il perno intorno al quale si concentrano tutte le nostre energie, le nostre aspirazioni. Sembra però che più ci sforziamo di raggiungerla, più ci sfugga, come acqua nella morsa delle dita. Bistrattata e mortificata nel medioevo per un eccesso di spiritualità, torna alla ribalta nell’Umanesimo, imponendosi come assunto imprescindibile. Riprende così ad esercitare il suo fascino ammaliatore nella danza di Bacco e Arianna, manifesto di un’era che riscopre la bellezza e la  giustezza di tutto ciò che è corporeo e dunque umano. Saggi, poeti e filosofi di tutti i tempi l’hanno cercata, ognuno con la propria personale ricetta, ma nessuno mai è riuscito ad afferrarla: per Aristotele consiste in “un’attività dell’anima razionale secondo virtù e, se le virtù sono molteplici, secondo la più eccellente e perfetta”; per Lev Tolstoj sta nel vivere per gli altri; per Oscar Wilde nel desiderare ciò che si ha. Ma che cos’è nella sua essenza più pura la felicità?  

Spesso la si vuole relegare ad un particolare contesto o obiettivo, ottenuto il quale, si ricade nel medesimo stato di insoddisfazione da cui si era partiti; oppure, qualora la meta prefigurata risulti irraggiungibile, ci si affossa in una condizione di dipendenza che ci rende inquieti e infelici. Ecco allora che si profila un’idea della felicità affatto diversa da quella del comune sentire: essa, evidentemente, non è qualcosa che prescinde dagli eventi, dalla buona o dalla cattiva fortuna, ma, piuttosto, uno stato, o meglio, una condizione dell’animo umano che ci dispone accoglienti verso tutto ciò che è bellezza, amore, vita.  

Il rovesciamento dialettico della felicità è l’infelicità che, parimenti, non dipende dagli eventi dolorosi ai quali nessuno è immune e che anzi fanno parte del naturale percorso umano, ma viene a coincidere con un malessere interiore e profondo, non guaribile al mutare delle condizioni esteriori. A questo proposito è interessante l’interpretazione che August Shlegel fece di questa melanconia del mondo moderno (Lezioni di letteratura drammatica, 1809) divenuto infelice in seguito alla diffusione del Cristianesimo, che ha catapultato Dio in una dimensione trascendente, depredando l’uomo della sua parte spirituale. L’odierno consumo voluttuoso di beni materiali, altro non è se non il vano tentativo di colmare il vuoto interiore che si è ingenerato (sensucht) e che relega le coscienze ad uno stato di prostrazione irreversibile. 

Fin qui sembra essere finiti in una strada senza uscita: da un lato il desiderio di felicità, dall’altro il suo disincanto. Una soluzione ce la offre Dante in  Paradiso, canto III: 

Ma dimmi: voi che siete qui felici,  
disiderate voi più alto loco  
per più vedere e per più farvi amici?
……
Frate, la nostra volontà quieta  
virtù di carità, che fa volerne  
sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.                 

Se disiassimo esser più superne,  
foran discordi li nostri disiri  
dal voler di Colui che qui ne cerne;                                  
 
che vedrai non capere in questi giri,  
s’essere in carità è qui necesse,  
e se la sua natura ben rimiri.

Anzi è formale ad esto beato esse  
tenersi dentro a la divina voglia,  
per ch’una fansi nostre voglie stesse;               

Paradiso, III, vv 64-81 

 

Ragionando intorno al “desiderare”, Dante fa dire a Piccarda Donati che le anime del Paradiso, per effetto della carità che oramai le pervade, aspirano soltanto a ciò che è nella volontà di Dio; e che, anzi, l’essenza dell’essere beato (è formale ad esto beato esse), e cioè della felicità, consiste proprio nella perfetta aderenza del desiderio delle anime con la volontà divina (tenersi dentro a la divina voglia). 

Ma quale potrebbe essere il risvolto pratico di una visione così trascendente? Dante parla dei beati del Paradiso, tuttavia, quella che può sembrare la rappresentazione di una visione mistica, contiene in verità un chiaro monito a condurre una vita terrena il più possibile conforme alla volontà di Dio. Trasponendo l’assunto in un contesto laico, la felicità consiste allora nel perfetto combaciare del nostro ego con il nostro essere più profondo, ovvero, in termini più spirituali, con la nostra anima. L’ego infatti, è il risultato di diverse componenti: educazione, formazione, esperienza. Mentre l’anima è ciò che siamo, oltre e al di là di mode, condizionamenti e senso comune. L’ego è ciò che siamo diventati; l’anima ciò che siamo e saremo per sempre. Per questo i bambini sono sempre allegri e gioiosi: perché privi di pesanti sovrastrutture. Come gli uccelli, che inseguono le loro rotte guidati semplicemente dall’istinto e dalla natura. Chi o che cosa allora boicotta la felicità? Non gli eventi, non gli accidenti, ma l’uomo stesso, o meglio, il suo proprio ego, che intraprende percorsi sbagliati, che si ostina a perseguire mete che impediscono all’essere profondo di realizzarsi pienamente. Per assecondare la propria anima occorrono cospicue dosi di libertà e coraggio: libertà da tutto ciò che è cliché, buonsenso, educazione, morale, omologazione agli status symbol che l’odierna società ci inculca e ci inocula; e coraggio, coraggio per distinguersi da eserciti di esseri in divisa, per elevarsi al di sopra delle masse e degli indici inquisitori: leggeri come farfalle,  soli come aquile, puri come pazzi e fedeli soltanto alle proprie libere coscienze. La felicità non è qualcosa che si ottiene a buon mercato o che si acquista col danaro; essa è una scelta di vita che talvolta esige un prezzo altissimo. La felicità è per i violenti, per i caparbi e per chi non teme la solitudine. La sua natura ritrosa rifugge dai luoghi comuni e dall’ovvietà. Ci spiazza e ci precede dove noi non pensiamo o non vorremmo andare. Altre volte invece è così umile e semplice, che non la vediamo. La felicità è una condizione dell’anima, una beatitudine dell’essere profondo, che non dipende dai beni materiali, ma dalla misura in cui siamo in grado di ritornare nudi alla madre terra, memori solo di quelle melodie che imparammo il giorno in cui siamo nati.

Chiaro mi fu allor come ogne dove  
in cielo è paradiso… 

Dante, Paradiso, III, vv 88-90      

 

       

Emiliano Barbieri, Peru

 

 

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