Fissando lo splendente cimitero del cielo stellato, poesie di Maria Grazia Calandrone

Fissando lo splendente cimitero del cielo stellato, poesie di Maria Grazia Calandrone

 

     

«la riscoperta del proprio nucleo non condivisibile, […] che costituiva per un uomo la migliore approssimazione allo stato fetale» Ian Mc Ewan, Solar 

       

Una mattina, al mercato, scopro che nel gergo popolare ha fatto il suo ingresso l’invettiva di nuovo conio «vammorìammare», variante del più generico invito «vammorìammazzato». 
La mala esortazione viene scagliata da un verduraio anziano all’indirizzo di un ragazzino nero. Il verduraio che prescrive la morte al ragazzino non è mosso da quella che, pur superficialmente, legittimeremmo, rubricandola alla voce «guerra fra poveri»: il commerciante possiede uno dei banchi più voluminosi del mercato dell’Alberone, fa pagare 4 euro un sacchetto di puntarelle «capate».
La sua è pura irrazionalità ventriloqua, sono stragi in diretta televisiva che diventano modi di dire, orrori assunti come esortazioni. Ma le parole formano i pensieri. E i pensieri formano le azioni.  

L’immagine di questi uomini e di queste donne è reale. È un inciampo
pieno di nostalgia. Si volta. 
Si volta troppo, per guardarsi le spalle.
Quanta maceria al fieno di mezzogiorno.
Meglio fare discorsi sul clima. 

Sale di risulta. Le creature animate spostano ininterrottamente 
cose inanimate, piccole masse affioranti
dall’ocra della terra. Tirano pallonate a campanile
sull’asfalto increscioso dei non-luoghi. Cacciati oltre i confini del rancore urbano, in deriva
su piazzali rasati da un vento 
grigio come la solitudine. Cupa, 
Spadolini, Maslax. Più niente. Manganelli, 
furgoni antisommossa, camioncini 
per smaltimento rifiuti. Corpi
con cicatrici, dispersi
nell’invisibile oltre l’acciaio 
di Stazione Tiburtina. Sorridono 
miti come una mandria di gazzelle, mentre fanno i bagagli. Hanno imparato a cogliere 
anche il niente. Il puro esistere. 

Gli invasori venivano in armi, non così, con pagelle e infradito, di castigo in castigo

 

***

 

Il sole era irreale, lo aiutava
a scorporare il suo male
dallo stoccaggio delle merci
dietro
la facciata a cortina,
dietro
l’ammattonato
senza i passi di lei. 

Insonnia, affilata come vetro 
su pietra molare. Chiedeva 
a qualsiasi estranea 
vagamente somigliante 
di tornare per lui dalla morte,
ma più bella, come sognata. 


*** 


Corpi che ancora proiettano ombra 
di carne
su carne 
e, intorno, il rollare metallico che fanno 
gli ordigni pensati 
per semplificare la vita degli altri.
Anche gli alberi sembrano avvitati con forza lungo il fianco del monte di Pietralata. Niente 
sembra scivolare. I pensieri fissi 
annullano la gravità. Il campo non è stato sgomberato. Pensa bene. Fissa.  

La prima superficie 
è il mare. Dalla prima superficie del mare all’oggetto com’è. Terra
investita dal sole delle vendemmie. Nel chiarore metallico degli affluenti
terra reale
e sovraumana, dove ogni cosa  
parla. Rari passanti 
con le membra instupidite dal caldo
mentre il nodo nel buio del costato, l’occhio 
aperto nel buio, l’occhio senza palpebra 
del cuore-collettore 
maneggia ferraglia e sembra forte, a vedersi. Quasi ride. 

Il gatto dorme al sole. Volta la testa
nera, viva, bellissima.
Le rondini vivono tanto a lungo da traversare il mare più di una volta. 
Oggi in città tutto è fermo
e ha la consistenza di una nuvola.  

A lampi. Solo il sole si muove e va a morire
tra cumuli d’immondizia 
e gabbiani spazzini nell’azzurro.
Il campo non è stato sgomberato.
Siamo esseri umani. Pensa bene. Fissa il pensiero. 

Nel campo dei corpi
un’oscurità senza inizio né fine
come un blu atmosferico
precipitato
nel rombo della materia prima della materia.

 

***
 

Tempo-pietra. 
Tempo 
sonda. 

Luce reale
sulla mola del tempo. 

Ape bianca – rilascio 
di sali
da una sezione aurea. 

Che sovraumana cosa, incapace
d’intendere.
 

***
 

L’equatore striscia 
nel nero puro 
dell’aratura
come per far uscire a strappi dalla terra il seme. 

Il mare agisce.
Non ricordare, non aspettare
Il corpo è il magnete. Stai lontano dal corpo. 
Se lo guardi negli occhi, non puoi chiudere gli occhi.  

Oggi è ancora oggi. Oggi
come quest’io che oggi se n’è andato
e che pure ti parla
fermo all’incrocio di due strade bianche fra binari di pietre lunari e tra poco 
si mette a cantare 
per il tuo cuore, eterno come la pietra. 


***
 

Le cose fatte sono state fatte
e tanto basta. Però i film non li guardo: tutte 
quelle effusioni, quel finto amore. 

Invece, quando segno, trabocco
da venti metri dritto nella porta
ed è quello
l’inizio del mondo. 

 

Roma, 28 febbraio 2019 

 

La poesia è tratta da Giardino della gioia, Mondadori 2019 

 

          

Maria Grazia Calandrone è poetessa, scrittrice, giornalista, drammaturga, autrice e conduttrice Rai e regista di videoreportage per «Corriere TV». Tiene laboratori di poesia in scuole pubbliche e carceri. Premi Montale, Pasolini, Trivio, Europa, Dessì e Napoli. Ultimi libri Serie fossile e Il bene morale (Crocetti 2015, 2017), Gli Scomparsi – storie da «Chi l’ha visto?» (pordenonelegge 2016), Fossils (SurVision, Ireland 2018), Sèrie Fòssil (Aïllades, Ibiza 2019), l’antologia araba La luce del giorno (al-Mutawassit, Damasco 2019) e Giardino della gioia (Mondadori 2019). Ha curato l’opera di Edgar Lee-Masters, Nella Nobili e Dino Campana e una rubrica di esordienti per il mensile internazionale «Poesia». Porta in scena videoconcerti di poesia. 

 

Maria Grazia Calandrone fotografata da Dino Ignani – in apertura Ksenja Laginja, Sensorium 1

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